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Reato apostrofare avversario politico quale orango (Cass. 31850/24)

5 agosto 2024, Cassazione penale

Sussiste il delitto di diffamazione quando sia oltrepassato il limite della continenza, trasformando il legittimo dissenso contro le iniziative e le idee politiche altrui, in una mera occasione per aggredirne la reputazione, con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni e commenti tipicamente "di parte", cioè non obiettivi, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignità e della reputazione altrui ovvero che si traducono in un attacco personale o nella pura contumelia.

Certamente è lecito criticare, ma nel rispetto dei diritti inviolabili, quale è, ad esempio, quello previsto dall'articolo 2 Cost., così che non può effettuarsi un'invettiva personale gratuita. In presenza di siffatti dati di contesto deve escludersi la causa di giustificazione, e l'esercizio del diritto di critica ovvero di satira sono trascesi in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale della persona offesa, veicolando odiose discriminazioni, fondate su caratteristiche personali del soggetto coinvolto.

È indubbio che nell'apprezzare il requisito della continenza, riferita alla critica politica ed alla satira, il giudice deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale della prospettazione satirica, rispetto alla quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell'espressione, ma con il limite del rispetto dei valori fondamentali: nNe consegue che, come ogni altra forma di critica, la satira non sfugge al limite della correttezza, onde non può essere invocata la scriminante ex art. 51 cod. pen. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell'immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio.

La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l'azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell'accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell'agente.

Ai fini della configurabilità dell'aggravante, sia necessario che l'azione manifesti un esplicito pregiudizio di inferiorità di una razza, potendo eventualmente declinarsi anche nell'intenzionale esternazione del medesimo sentimento ed alla volontaria provocazione in altri di analogo sentimento di odio fino a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori: il fine specifico di un incitamento all'odio razziale non è condizione essenziale dell'aggravante in disamina, per la cui integrazione è sufficiente la esternazione di una condizione di inferiorità o di indegnità, attribuita a soggetti determinati e fatta derivare all'appartenenza ad una determinata razza, con conseguente natura di pericolo dell'elemento circostanziale di cui all'art. 3, comma 1, della L. n. 205/1993.

Ai fini dell'elemento soggettivo, esso è integrato se vengono usate consapevolmente espressioni offensive in senso denigratorio, senza che l'intento di suscitare ilarità nei presenti ovvero l'essere stato vittima di offese alla reputazione possa escludere la consapevolezza e la volontà della offesa.

Cassazione penale

sez. V, ud.15 maggio 2024 (dep. 5 agosto 2024), n. 31850

 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza del 21 novembre 2023 (depositata il 14 dicembre 2023), la Corte d'Appello di Brescia ha confermato la decisione del Tribunale Bergamo del 1 giugno 2023, con la quale è stata affermata la penale responsabilità di Calderoli Roberto per il reato di diffamazione, aggravato dalla finalità di discriminazione etnica e razziale, condannandolo alla pena di mesi sette di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Per la ricostruzione processuale della vicenda deve osservarsi che la sentenza della Corte di Appello di Brescia del 21 ottobre 2020, unitamente a quella di primo grado del 14 gennaio 2019, era annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 21829/2022 di accoglimento del primo motivo di ricorso dell'imputato, avverso l'ordinanza di rigetto dell'istanza di legittimo impedimento per motivi di salute, formulata alla udienza del 14 gennaio 2019, con trasmissione degli atti al Tribunale di Bergamo per l'ulteriore corso. I fatti riguardano le dichiarazioni rese dall'imputato, all'epoca dei fatti membro del Senato della Repubblica Italiana, nel corso della Festa della Lega a T, dove rivolgendosi al ministro dell'integrazione del governo italiano Cécile Kyenge, di origine congolese ma cittadina italiana, testualmente diceva: "rispetto al ministro Kyenge, veramente voglio dirgli sarebbe un ottimo ministro, forse lo è, ma dovrebbe esserlo in Congo, non in Italia. Perché, se in Congo c'è bisogno di un ministro per le pari opportunità per l'integrazione, c'è bisogno là. Perché se vedono passare un bianco là gli sparano, aggiungendo quando viene fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali...ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie...però quando vedo uscire delle...sembianze di oranghi, resto ancora sconvolto, non c'è niente da fare".

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l'imputato, tramite i difensori, Prof. Avv. PC e Prof. Avv. FCC, articolando quattordici motivi, di seguito riportati entro i limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge degli artt. 111 Cost., 6Cedu e 525 cod. proc. pen., in riferimento alla necessità per la difesa di indicare le ragioni per la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, in caso in mutamento integrale del collegio nella sua composizione, dal momento che ogni qualvolta muti la composizione del collegio sussiste l'obbligo per il giudice di ripetere l'assunzione della prova, senza che la parte debba motivare le ragioni della richiesta di rinnovazione. Analoghe ragioni sono configuragli per il diritto dell'imputato di chiedere l'integrazione della istruttoria dibattimentale.

2.2. Con il secondo motivo, deduce nullità della ordinanza del 16 maggio 2023 del Tribunale di Bergamo che ha rigettato la richiesta di assunzione delle prove indicate nella lista testi del 6 aprile 2023 oltre che quelle originariamente richieste. Risulta che la Corte di Cassazione con sentenza n. 21829/2022 aveva annullato senza rinvio la sentenza della Corte di Appello di Brescia del 21 ottobre 2020 e quella di primo grado per aver rigettato la istanza di rinvio per legittimo impedimento per gravi motivi di salute, con conseguente regressione alla udienza del 14 gennaio 2019 in cui si era verificata la causa da cui è dipeso l'annullamento, di modo che la successiva audizione dei testi della difesa non necessitava di alcuna istanza difensiva.

2.3. Con il terzo motivo, deduce nullità per violazione dell'art. 178, lett. C, cod. proc. pen. dell'ordinanza del 1 giugno 2023 del Tribunale di Bergamo con la quale non è stato consentito il deposito delle "note di udienza", privando la difesa della possibilità di provare la permanenza della prassi di ricorrere a metafore animalesche nella dialettica politica.

2.4. Con il quarto motivo, eccepisce la violazione dell'art. 523, comma 1, cod. proc. pen. per avere il Tribunale fatto riferimento alle conclusioni del P.M. che aveva rinviato alla precedente requisitoria fatta dall'organo dell'accusa nel corso della udienza del 14 gennaio 2019, atto da ritenersi inutilizzabile per effetto della sentenza della Corte di cassazione n. 21829/2022.

2.5. Con il quinto motivo eccepisce l'illogico diniego della rilevanza della diversità della espressione usata ed accertata dal perito rispetto a quella indicata nella imputazione, per non avere la sentenza impugnata spiegato la ragione per la quale l'utilizzo del plurale (sembianze di oranghi) debba intendersi riferito alla persona offesa e, non già come logico all'intera compagine governativa, di cui faceva parte la persona offesa: l'utilizzo della espressione sembianze di oranghi, invece che sembianze di orango è un inequivoco segnale che l'oratore si riferisce ad una pluralità di persone e non ad un singolo.

2.6. Con il sesto motivo, formula censura in riferimento all'assenza di offensività della condotta, diretta alla critica politica non già alla persona, tenuto conto della circostanza che l'aggressione verbale nel linguaggio politico è ammessa e tollerata. Invero, il ricorrente evidenzia l'evoluzione sociale (con l'accresciuta aggressività della critica politica) e l'evoluzione legislativa (con depenalizzazione della bestemmia, dell'oltraggio ai defunti, dell'ingiuria e del turpiloquio) con conseguente spostamento del confine della rilevanza penale di alcune espressioni. Le espressioni del ricorrente sono rimaste nei confini del linguaggio politico comunemente accettato, in quanto l'uso della metafora animalesca è espressione di dissenso nei confronti della persona offesa. Ad ogni buon conto, le espressioni utilizzate sarebbero manifestazione di satira politica, tenuto conto del giudizio di natura estetica sull'aspetto fisico della Cécile Kyenge che non coinvolge la sua moralità.

2.7. Con il settimo motivo, formula censura in riferimento alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo, in realtà carente almeno in via putativa, dal momento che il ricorrente (da anni destinatario di aggressioni alla propria fisicità) ha ritenuto di poter fare ironia sull'aspetto fisico della persona offesa.

2.8. L'ottavo ed il nono motivo riguardano l'erroneo riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 3 L. n. 205/1993, per mancanza della finalità di discriminazione razziale ovvero l'illogicità della motivazione in merito alla riconosciuta finalità discriminatoria. Si sostiene che dall'offesa a contenuto razziale non nasce alcuna discriminazione razziale e nessun incitamento alla discriminazione, precisando che i giudici di merito, in maniera illogica, evidenziano che la gratuità dell'offesa era diretta a suscitare la ilarità degli astanti, finalità incompatibile con quella discriminatoria, con conseguente insussistenza della aggravante dell'art. 604-ter cod. pen., con il corollario della procedibilità a querela, assente nel caso di specie.

2.9. Con il decimo, l'undicesimo, il dodicesimo ed il tredicesimo motivo si censura complessivamente il trattamento sanzionatorio. In primo luogo, viene eccepita l'omessa applicazione dell'art. 131-bis cod. pen., tenuto conto che la condotta dell'imputato non è abituale dovendosi considerare anche la condotta post factum, avendo il ricorrente formalizzato pubbliche scuse alla persona offesa. Si invoca, altresì, la disapplicazione dell'art. 604-ter, comma 2, cod. pen. ovvero si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 3 Cost., giacché l'aggravante prevista dalla norma non è suscettibile di formare oggetto del giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche. Ed ancora si contesta il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuati generiche rispetto all'aggravante di aver recato l'offesa mediante comizio, quale particolare mezzo di pubblicità, mentre le prime dovevano essere ritenute prevalenti. Infine, si eccepisce la carente ovvero contraddittoria motivazione relativa all'applicazione della pena detentiva, in luogo di quella pecuniaria, per come sostenuto in più occasioni della giurisprudenza della CEDU.

2.10. Con il quattordicesimo motivo si eccepisce la prescrizione, in particolare, al periodo di sospensione della prescrizione connesso allo svolgimento del conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato deve essere sottratta la frazione temporale determinata dal ritardo verificatosi in conseguenza della notificazione nulla effettuata dal Giudice di primo grado con riferimento alla instaurazione del conflitto stesso (periodo 18 maggio 2016 - 10 maggio 2017, pari a 357 giorni, periodo nel quale non opererebbe la sospensione della prescrizione). Per il caso di mancato accoglimento, ha sollecitato l'incidente di legittimità costituzionale - per contrasto con gli artt. 25 e 27 Cost. - dell'art. 159 cod. pen., nella parte in cui non esclude la sospensione del decorso della prescrizione, nelle ipotesi in cui il tempo inutilmente decorso sia imputabile al factum principis.

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è nel suo complesso infondato per le ragioni che si esporranno. Ne consegue che deve disporsi l'annullamento della sentenza impugnata per essere il reato ascritto all'imputato venuto ad estinzione per intervenuta prescrizione. Nel caso di specie, infatti il termine massimo di prescrizione, pari ad anni sette e mesi sei, risulta maturato il 24 dicembre 2023 (tenuto conto della consumazione il 13 luglio 2013, cui aggiungere 1071 giorni di sospensione per il giudizio sul conflitto di attribuzioni innanzi alla Corte Costituzionale).

Come ha già avuto modo di affermare questa Corte, allorquando il ricorso per cassazione non è inammissibile si deve rilevare l'intervenuta prescrizione del reato poiché la non manifesta infondatezza del ricorso non ha impedito il decorso del tempo necessario a prescrivere (secondo la giurisprudenza di questa Corte, come tracciata dalle Sezioni Unite, le norme sulla prescrizione del reato non possono trovare applicazione in ipotesi di inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla mancanza, nell'atto di impugnazione, dei requisiti prescritti dall'art. 581 cod. proc. pen., ovvero alla manifesta infondatezza dei motivi, poiché la conseguente mancata formazione di un valido rapporto di impugnazione preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., cfr. Sez. U., n. 32 del 22/11/2000 - dep. 2000, D.L., Rv. 21726601; Sez. U., n. 21 del 11/11/1994 - dep. 1995, Cresci, Rv. 19990301).

Nella fattispecie invero non emergono elementi che, in maniera incontestabile e in termini di evidenza ictu oculi giustifichino la conclusione, in termini di mera constatazione, della insussistenza del fatto, della mancata commissione da parte dell'imputato e, più in generale, della irrilevanza penale dello stesso, per come sarà esaminato.

D'altra parte, per un verso, in presenza di una causa di estinzione del reato non sono rilevabili in cassazione vizi di motivazione della sentenza, perché l'inevitabile rinvio della causa all'esame del giudice di merito dopo la pronuncia di annullamento è incompatibile con l'obbligo della immediata declaratoria di proscioglimento per l'intervenuta estinzione del reato, stabilito dall'art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 24427501) e, per altro verso, trattandosi di causa di estinzione del reato, essa deve essere immediatamente rilevata in mancanza di elementi che depongano per l'immediata pronuncia assolutoria dell'imputato ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.; elementi che non sono evincibili, nel caso di specie, alla stregua delle stesse risultanze della pronuncia impugnata non messe in discussione dai motivi dei ricorsi in scrutinio che si rivelano, nel loro complesso, infondati per come sarà scrutinato (si rammenta che in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento, Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274, cit.).

2. Tanto premesso, si osserva specificamente che l'undicesimo motivo - diretto a sollecitare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 3 Cost. dell'art. 604-ter, 2 comma, cod. pen., giacché l'aggravante prevista dalla norma non è suscettibile di formare oggetto del giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche - si rivela infondato.

Mette conto rilevare come, a mente dell'art. 604-ter, comma 2, cod. pen. le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dall'art. 98, concorrenti con la circostanza aggravante di cui all'art. 604-ter, comma 1, cod. pen. non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante. L'art. 604-ter, comma 2, cod. pen. declina, dunque, una circostanza aggravante ad effetto speciale, perché implicante un aumento di pena superiore ad un terzo, e "privilegiata" in quanto caratterizzata dal fatto che il legislatore sottrae al giudice il potere di compiere il giudizio di bilanciamento con le altre circostanze del caso concreto.

L'ordinamento conosce altri esempi di circostanze aggravanti "previlegiate". Si ponga mette, all'interno del codice penale, alle aggravanti di cui all'art. 628, comma 3, nn. 3), 3-bis), 3-ter), 3-quater), nonché a quelle extracodicistiche di cui alla LI. n. 203/1991, art. 7 (ora trasfuso nell'art. 416-bis 1 cod. pen.), all'art. 186 C.d.S., comma 2-sexies (aggravante per la guida in stato di ebbrezza "in tempo di notte").

Il legislatore, nell'esercizio della propria discrezionalità, ha previsto una specifica eccezione alla generale operatività del divieto di equivalenza o prevalenza delle attenuanti rispetto alla aggravante di cui si discute.

Al riguardo, si osserva che la Corte Costituzionale in plurime occasioni ha ritenuto conforme allo spirito della carta costituzionale la previsione di circostanze aggravanti ad effetto speciale non suscettibili di formare oggetto di bilanciamento con le circostanze attenuanti. In particolare, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 624-bis, quarto comma, cod. pen., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. (sentenza n. 117/2021), in quanto il divieto di bilanciamento è posto a servizio di un bene giuridico di primario valore - l'intimità della persona raccolta nella sua abitazione, al quale il legislatore ha scelto di assegnare una tutela rafforzata, con opzione discrezionale e non irragionevole; nella recente sentenza n. 217/2023 ha avuto modo di precisare che quando ricorrono particolari esigenze di protezione di beni costituzionalmente tutelati, quale il diritto fondamentale e personalissimo alla vita e all'integrità fisica, ben può il legislatore dare un diverso ordine al gioco delle circostanze richiedendo che vada calcolato prima l'aggravamento di pena di particolari circostanze, dal momento che, come già evidenziato (sentenza n. 251 del 2012), 'deroghe al bilanciamento (...) sono possibili e rientrano nell'ambito delle scelte del legislatore (sentenza n. 88/2019, punto 13 del Considerato in diritto, con riferimento al meccanismo di computo delle circostanze di cui all'art. 590-quater cod. pen.).

Decisiva nell'orientare la valutazione della Corte in simili ipotesi è stata la considerazione che il meccanismo di calcolo degli aggravamenti e diminuzioni di pena connessi all'applicazione di circostanze di segno opposto produce si, nella generalità dei casi, un effetto di inasprimento delle sanzioni applicabili al delitto aggravato, conformemente del resto alle intenzioni del legislatore; ma non esclude affatto che il giudice applichi in concreto la diminuzione di pena connessa al riconoscimento di attenuanti, sia pure sulla pena già aumentata per effetto del riconoscimento dell'aggravante cosiddetta "blindata".

Orbene, in base all'art. 604-ter, comma 2, cod. pen. è impedita l'operatività del bilanciamento di cui all'art. 69 cod. pen. nel caso in cui concorra l'aggravante rinforzate prevista dal primo comma, individuata sulla base di una scelta di politica legislativa, attraverso la quale si è attribuito un particolare disvalore a determinate condotte che manifestano spiccatamente condizione di inferiorità o di indegnità, attribuita a soggetti determinati e fatta derivare all'appartenenza ad una determinata razza. Inoltre, si aggiunge che la disciplina dettata dall'art. 604, comma 1, ter cod. pen. (prevedendo l'aumento fino alla metà) non parifica indebitamente, sul piano sanzionatorio, fatti connotati da differente gravità dal punto di vista soggettivo, consentendo al giudice - nell'esercizio della propria discrezionalità - di irrogare pene proporzionate rispetto al grado di colpevolezza dell'imputato, rispettose del principio di personalità della responsabilità penale, dovendosi quindi escludere ogni profilo di irragionevolezza.

In altri termini, l'art. 604-ter cod. pen. consente al giudice di configurare concretamente il fatto criminoso, qualificandolo in modo particolare secondo un criterio di maggior o minore disvalore oggettivo, da quanto precede discende il rigetto dell'undicesimo motivo di ricorso.

3. I motivi quinto, sesto, settimo, ottavo e nono, esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione logico - giuridica in quanto diretti, seppure da prospettive differenti, ad eccepire la ritenuta sussistenza del delitto di diffamazione aggravata, sono infondati.

Invero, al di là della loro ripetitività rispetto alle analoghe doglianze formulate in appello, alle quali la Corte territoriale ha dato corretta e adeguata risposta tenuto conto peraltro del fatto che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e quindi della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Rv. 256706).

Il bene giuridico tutelato dall'art. 595 cod. pen., è la reputazione, intesa come il riflesso, in termini di considerazione sociale, dell'onorabilità.

Essa, dunque, attiene all'opinione di cui l'individuo gode in seno alla società per carattere, ingegno, professionalità e altre qualità personali; alla valutazione che gli altri fanno della personalità morale e sociale di un individuo; alla stima di cui la persona gode presso gli altri membri della comunità.

La protezione della reputazione rappresenta, inoltre, uno dei limiti all'esercizio della libertà di espressione e delle altre libertà a essa connesse, espressamente ammessi dall'art. 10, comma 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e la Corte di Strasburgo, proprio in relazione a tale disposizione normativa, da tempo aveva sviluppato una propria giurisprudenza relativa alla tutela della reputazione (prevalentemente nel settore dell'attività di informazione giornalistica: cfr., ex plurimis, C. Edu Radio France e altri contro Francia, 30 marzo 2004), prima di affermare che siffatta tutela rientrasse a pieno titolo nell'ambito di applicazione dell'art. 8, C.E.D.U., disciplinante il diritto al rispetto della vita privata e familiare (cfr. C. Edu Pfeifer contro Austria, 15.11.2007).

3.1. L'elaborazione della giurisprudenza di questa Corte sul tema del diritto di critica politica ne restituisce, invero, l'essenza quale peculiare espressione del diritto al dissenso, che vede come obiettivi esponenti politici o pubblici amministratori nei confronti dei quali l'attenzione della pubblica opinione in una società democratica è massima, in ragione del controllo diffuso sul loro operato (Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza Antonio Nicola, Rv. 279909) o verso esponenti di una parte politica avversaria, portatrice di una diversa visione dei rapporti tra libertà individuali e limiti al loro esercizio (Sez. 5, n. 7626 del 4/11/2011, dep. 2012, P.G. in proc. De Simone Rv. 252160).

Ne consegue che non può attrarsi nello spettro del legittimo esercizio della critica politica l'invettiva rivolta ad individui o aggregazioni determinate, selezionate esclusivamente per il colore della pelle o per la provenienza geografica, e non già quale contraddittore politico, al di fuori di un leale confronto dialettico.

In altri termini, l'estensione del diritto di critica politica tollera la polemica intensa e dichiarata su temi di rilevanza sociale, senza trascendere in attacchi personali, finalizzati all'unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, sempre che il nucleo ed il profilo essenziale dei fatti non siano strumentalmente travisati e manipolati (Sez. 5, n. 11662 del 06/02/2007, Iannuzzi ed altri, Rv. 236362), tanto da determinare una distorsione inaccettabile rispetto all'intento informativo dell'opinione pubblica che è alla base del riconoscimento dell'esimente.

Infatti, il legittimo esercizio del diritto di critica, pur non potendosi pretendere caratterizzato dalla particolare obiettività propria del diritto di cronaca, non consente comunque gratuite aggressioni alla dimensione morale della persona offesa e presuppone sempre il rispetto del limite della continenza delle espressioni utilizzate, da ritenersi superato nel momento in cui le stesse, per il loro carattere gravemente infamante o inutilmente umiliante, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, la cui persona ne risulti denigrata in quanto tale (Sez. 5, n. 9862 del 11/01/2013, n.m.; Sez. 5, n. 38437 del 05/07/2012, n.m.).

Sicché, in tema di diritto di critica, ciò che determina l'abuso del diritto è la gratuità delle espressioni non pertinenti ai temi apparentemente in discussione; è l'uso dell'argumentum ad hominem, inteso a screditare l'avversario politico mediante l'evocazione di una sua pretesa indegnità o inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi e le azioni. (Sez. 5, n. 7990 del 19/05/1998, Diaconale e altro, Rv. 211482, fattispecie di rigetto del ricorso con cui gli imputati invocavano l'esercizio del diritto di critica politica, esercitato nelle forme della satira, relativamente all'uso di espressioni quali "realburinismo" e "aver un diesel fumoso al posto del cervello", nonché all'invito a finanziare i suoi progetti con i metodi illeciti propri del suo partito, nei confronti dell'amministratore al traffico di Roma).

3.2. Si è, altresì, evidenziato, come in tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato ed al concetto da esprìmere (Sez. 5, n. 32027 del 23/03/2018, Maffioletti, Rv. 273573, fattispecie relativa alla interrogazione di un consigliere comunale rivolta al Presidente del consiglio comunale).

Al riguardo, è appena il caso di ribadire come l'esimente del diritto di critica non vieta tout court l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, n. 17243 del 19/02/2020, Lunghini Claudio, Rv. 279133); sicché il requisito della continenza, quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica, attiene alla forma comunicativa ovvero alle modalità espressive utilizzate e non al contenuto comunicato (Sez. 5, n. 18170 del 09/03/2015, Mauro e altri, Rv. 263460).

Il limite della continenza è, invero, superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in gratuite aggressioni verbali o in iperboli espressive, di guisa che anche il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, fermo restando che il medesimo non può, comunque, giustificare l'uso di espressioni che si risolvano nella offesa della persona offesa in quanto tale (Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessi e altro, Rv. 250174); contesto da valutarsi anche in riferimento al momento storico, poiché il requisito della continenza può risultare sussistente anche nel caso in cui siano utilizzate espressioni che, per quanto più aggressive e disinvolte di quelle ammesse nel passato, risultino ormai accettate dalla maggioranza dei cittadini, per effetto del mutamento della sensibilità e della coscienza sociale (Sez. 5, n. 39059 del 27/06/2019, Fiorato Patrizia c. Belpietro Maurizio, Rv. 276961).

Il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione - e deve ritenersi superato in presenza dell'utilizzo di termini che non abbiano, alla luce del complessivo contesto in cui i medesimi vengano utilizzati, significato di mero giudizio critico negativo (Sez. 5, 24 giugno 2016, n. 37397, n.m.).

Principi ribaditi in un più recente arresto, nel quale si è sottolineato che in tema di diffamazione, ricorre l'esimente dell'esercizio del diritto di critica e satira politica quando le espressioni utilizzate esplicitino le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e, pur se veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira, non si risolvano in un'aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale (Sez. 5, n. 320 del 14/10/2021, dep. 2022, Mihai Train Claudiu, Rv. 282871, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto I corretta l'esclusione dell'esimente nella condotta di un soggetto, destinatario di uno sfratto, che nel corso di una manifestazione pubblica contro le politiche abitative comunali aveva definito il sindaco della città "bruttocesso", ispirandosi al cognome "Bruttomesso" del medesimo).

3.3. Può, dunque, affermarsi che sussiste il delitto di diffamazione quando tale limite sia oltrepassato, trasformando il legittimo dissenso contro le iniziative e le idee politiche altrui, in una mera occasione per aggredirne la reputazione, con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni e commenti tipicamente "di parte", cioè non obiettivi, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignità e della reputazione altrui ovvero che si traducono in un attacco personale o nella pura contumelia (Sez. 5, n. 4991 del 19/12/2006, Castrovinci Grillo, Rv. 236321; Sez. 5, n. 7419 del 03/12/2009, Cacciapuoti, Rv. 246096).

3.4. Incontestato che le frasi del ricorrente sono state pronunciate nel corso di una festa della Lega Nord e che nella suddetta occasione si stava svolgendo un dibattito di natura politica su di una questione di interesse generale, quale quello relativo alla gestione dei flussi migratori dall'Africa.

Si tratta, dunque di stabilire se l'avere paragonato ad oranghi la Cécile Kyenge, invitandola a fare ritorno in Congo dove sarebbe un ottimo ministro, possa o meno configurare un'offesa alla reputazione del Ministro dell'epoca ovvero, una volta risolto in senso affermativo il primo quesito, se la condotta dell'imputato sia scriminata ai sensi dell'art. 51 c.p., in quanto riconducibile all'esercizio del diritto di critica politica o quantomeno di satira.

Nell'odierna fattispecie, non vi è dubbio che le frasi utilizzate del ricorrente hanno evocato caratteristiche tali da risultare oggettivamente offensive, perché capaci di incidere negativamente sulla considerazione sociale di cui gode un individuo nella comunità di cui fa parte.

Invero le espressioni utilizzate dal Calderoli Roberto appaiono un immotivato attacco denigratorio nei confronti della Cécile Kyenge, finalizzato a svilirne pubblicamente la figura umana e professionale, senza che abbiano assunto la forma scherzosa e ironica propria della satira né possono essere scriminate dall'esercizio del diritto di critica politica, come pretenderebbe il ricorrente.

Non appare revocabile in dubbio che le espressioni di cui si discute, lungi dal rappresentare una radicale critica all'azione politica della Cécile Kyenge, sono trasmodate in un vero e proprio attacco inutilmente umiliante nei confronti di quest'ultima ed inutilmente denigratorio della sua dignità, intesa come percezione, innanzitutto, della propria dimensione umana, e della sua reputazione. Non si è trattato di una censura sugli obiettivi politico-amministrativi perseguiti dalla persona offesa nella sua veste di Ministro della Repubblica, dunque, ma di un attacco personale, che, facendo leva sulle origini africane della Cécile Kyenge, le ha attribuito caratteri propri degli oranghi, invitandola a fare ritorno in Congo, dove la sua presenza sarebbe stata più utile, tenuto conto del rischio per un bianco di essere destinatario di azioni delittuose (là gli sparano). La corte di merito, poi, ha - non illogicamente - inquadrato il dictum dell'imputato nell'ambito della sguaiata polemica politica, che ha visto quale vittima proprio la Cécile Kyenge, assimilata ad una scimmia antropomorfa e, in continuità con tale contesto, ha valutato le esternazioni del Calderoli Roberto Affermazioni, pertanto, che, lette nel loro contesto, descrivono la persona offesa come incompatibile con il ruolo che è stata chiamata a svolgere nella nostra società, tanto da invitarla a ricoprire incarichi di governo in Congo (paese dove per il Calderoli Roberto gli uomini bianchi rischiano di essere ammazzati, e dunque con grado di civiltà inferiore). Evidente è la concezione sottesa allo sprezzante "invito", teso ad allontanare la persona offesa dal contesto degli uomini civilizzati. Nel caso di specie, è evidente e gratuito il giudizio di disvalore espresso dal ricorrente, fondato sull'appartenenza della Cécile Kyenge alla razza degli africani di pelle nera, che ha in Congo e non nella società civilizzata, il suo habitat naturale, perché assimilabile agli animali, come gli oranghi, che vi vivono.

Certamente è lecito criticare, ma nel rispetto dei diritti inviolabili, quale è, ad esempio, quello previsto dall'articolo 2 Cost., così che non può effettuarsi un'invettiva personale gratuita. In presenza di siffatti dati di contesto deve escludersi la causa di giustificazione, finendo per porsi il comizio quale mero pretesto per l'esternazione di una intenzionale e pervicace invettiva ad personam, espressiva di un esplicito disprezzo di genere.

Nel quadro così sommariamente delineato, l'esercizio del diritto di critica ovvero di satira sono trascesi in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale della persona offesa, veicolando odiose discriminazioni, fondate su caratteristiche personali del soggetto coinvolto.

3.5. È indubbio che nell'apprezzare il requisito della continenza, riferita alla critica politica ed alla satira, il giudice deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale della prospettazione satirica, rispetto alla quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell'espressione, tuttavia nel caso di specie - per le superiori argomentazioni - il limite del rispetto dei valori fondamentali deve ritenersi superato, giacché la Cécile Kyenge, oltre che al ludibrio della sua immagine, è stata esposta al disprezzo.

Ne consegue che, come ogni altra forma di critica, la satira non sfugge al limite della correttezza, onde non può essere invocata la scriminante ex art. 51 cod. pen. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell'immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio.

Deve ritenersi, quindi, violato il rispetto del canone della continenza, seppure contestualizzando le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutandole in relazione al contesto spazio - temporale e dialettico nel quale sono state proferite (festa di iscritti o simpatizzanti della Lega Nord), giacché i toni utilizzati dal Calderoli Roberto sono risultati meramente gratuiti, non pertinenti al tema in discussione (problemi connessi alla gestione della immigrazione) né proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere (eventuale incapacità della Cécile Kyenge, in qualità di ministro del Governo italiano, a gestire tale problema), trattandosi di invettiva personale volta ad aggredire personalmente la destinataria, con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti, risolvendosi nella denigrazione della persona di quest'ultima in quanto tale. Destituita di ogni fondamento è l'affermazione, contenuta in ricorso, che le espressioni imputate al Calderoli Roberto abbiano perso il carattere dispregiativo ad esse attribuito dal giudicante, per una presunta "evoluzione" della coscienza sociale. Le suddette espressioni costituiscono invece, oltre che chiara lesione dell'identità personale, veicolo di avvilimento dell'altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate - in ogni dove - dall'attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono - per recare offesa alla persona extracomunitarie - proprio ai termini utilizzati dall'imputato.

In conclusione, le contestate espressioni utilizzate dal ricorrente integrano forme di aggressione gratuitamente denigratorie nei confronti della persona offesa.

3.6. La giustificazione del ricorrente in merito all'uso del plurale (oranghi) in luogo del singolare (orango) sarebbe significativa della circostanza che l'espressione era riferita all'intera compagine governativa e non già alla persona offesa, trova smentita nella piana lettura delle frasi usate, giacché è evidente il collegamento diretto tra queste ultime e la Cécile Kyenge, giacché il Calderoli Roberto dopo aver fatto riferimento alla sola persona offesa (viene fuori la Ki.) richiama tutti gli animali che ha avuto, rimanendo però sconvolto dalle sembianze di oranghi.

In altri termini, anche l'uso del plurale è diretto in modo inequivoco alla persona offesa, che deve fare rientro in Congo le cui sembianze di oranghi, sconvolgono il Calderoli Roberto

Le espressioni utilizzate si concentrano sul Ministro Cécile Kyenge, sia quale persona, nella specifica connotazione di genere e razziale, che quale responsabile del Dicastero assegnatole, alla quale viene riservato un vero e proprio attacco ad hominen, ingiustificato per la gratuità delle offese.

È evidente dallo stesso tenore delle espressioni adoperate come l'imputato - nella qualità di esponente politico - abbia inteso rivolgere un'esplicita forma di disprezzo alla persona offesa, rimarcandone l'origine etnica con invito a fare il Ministro in Congo e non in Italia, squalificandone la figura professionale e marcandone l'inferiorità razziale (mettendo in dubbio anche la sua appartenenza al genere umano, tenuto conto della equiparazione agli oranghi) al fine di accreditarne una prognosi di assoluta inadeguatezza politica per ragioni di inferiorità razziale.

Attraverso un mezzo unidirezionale avulso da forme di contraddittorio si è, pertanto, portata alla pubblica attenzione non già la manifestazione di un'opinione politica dissenziente e critica, al fine di provocare una approfondita riflessione su di un tema di rilevante interesse, quale è senz'altro quello della immigrazione, bensì il denigratorio ritratto del Ministro nominato.

4. Va, altresì, condivisa la decisione della corte territoriale anche sulla sussistenza della circostanza aggravante, in premessa indicata, che risulta assolutamente conforme all'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l'azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell'accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell'agente (cfr. Sez. 5, n. 13530 del 08/02/2017, Zamolo e altro, Rv. 269712; Sez. 5, n. 22570 del 28/01/2001, P.G. in proc. Scocozza Rv. 247495; Sez. 5, n. 38591 del 23/09/2008, P.G. in proc. Vitali e altro, Rv. 242219). Tale circostanza, in altri termini, è configurabile per il solo fatto dell'impiego, come nel caso in esame, di modalità di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale, vale a dire quando la condotta posta in essere si manifesta come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, di un sentimento connotato dalla volontà di escludere condizioni di parità per ragioni fondate sulla appartenenza della vittima ad una etnia, razza, nazionalità o religione (Sez. 5, n. 30525 del 02/04/2013, Del Dotto, Rv. 255558; Sez. F., n. 38877 del 20/08/2015, Z. e altri, Rv. 264786).

In tal senso, deve essere affermato come, ai fini della configurabilità dell'aggravante, sia necessario che l'azione manifesti un esplicito pregiudizio di inferiorità di una razza, potendo eventualmente declinarsi anche nell'intenzionale esternazione del medesimo sentimento ed alla volontaria provocazione in altri di analogo sentimento di odio fino a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori.

In altri termini, il fine specifico di un incitamento all'odio razziale non è condizione essenziale dell'aggravante in disamina, per la cui integrazione è sufficiente la esternazione di una condizione di inferiorità o di indegnità, attribuita a soggetti determinati e fatta derivare all'appartenenza ad una determinata razza, con conseguente natura di pericolo dell'elemento circostanziale di cui all'art. 3, comma 1, della L. n. 205/1993.

Nel caso in esame, le irridenti ed insistite espressioni riportate sono state ispirate a rimarcare l'inadeguatezza politica del Ministro fondata su un'asserita arretratezza delle opinioni politiche derivante dall'appartenenza razziale ed alla origine congolese.

E siffatta valutazione risulta operata - nelle conformi sentenze di merito - proprio valorizzando il contesto complessivo delle dichiarazioni, rese nell'ambito di un comizio celebrato in occasione di una festa di partito alla presenza di un numero indeterminato di persone, avente ad oggetto il dileggio personale di un membro dell'Esecutivo, ben oltre la legittima critica rivolta alla compagine governativa e ad una generica prognosi di inadeguatezza politica.

Ne deriva cha le argomentazioni difensive non colgono nel segno in presenza di una mirata, insistita e crescente accentuazione di caratteristiche peculiari assimilabili a quelle degli oranghi e della popolazione congolese, tacciata di arretratezza mediante un'esplicita equazione disvaloriale, che costituisce espressione di disprezzo ed inferiorità e, in sostanza, di un generalizzato discredito fondato sull'origine etnica.

Il ricorrente ha usato espressioni - quali il considerare gli abitanti del Congo, dove dovrebbe fare ritorno la Cécile Kyenge, capaci di uccidere i bianchi - idonee ad ingenerare nei destinatari un pregiudizio di inferiorità razziale. Come tale integrante l'aggravante contestata.

5. Anche il motivo relativo all'assenza dell'elemento soggettivo, avendo il Calderoli Roberto utilizzato metafore animalesche di cui era vittima, è infondato alla luce delle superiori argomentazioni, dimostrative della volontà del ricorrente di dileggiare la persona offesa ben oltre la mera critica politica, manifestando anche il pregiudizio per la propria origine etnica.

Invero, il ricorrente ha usato consapevolmente espressioni offensive in senso denigratorio, senza che l'intento di suscitare ilarità nei presenti ovvero l'essere stato vittima di offese alla reputazione poteva escludere la consapevolezza e la volontà della offesa.

6. I motivi con i quali si agitano questioni di natura processuale (1, 2, 3 e 4) ed i motivi relativi al trattamento sanzionatorio complessivamente contestato sono assorbiti nell'esito della pronuncia di prescrizione.

Ad ogni modo, mette conto rilevare (relativamente al primo e secondo motivo di ricorso) che questa Corte nella sua più autorevole composizione (Sez. U., 30 maggio 2019, n. 41736, Bajrami) ha precisato che: - a) il principio di immutabilità di cui all'art. 525 cod. proc. pen. richiede che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso che ha assunto la prova, ma anche quello che l'ha ammessa, fermo restando che i provvedimenti sull'ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto conservano efficacia se non espressamente modificati o revocati; - b) la facoltà per le parti di richiedere, in caso di mutamento del giudice, la rinnovazione degli esami testimoniali presuppone la necessaria previa indicazione, da parte delle stesse, dei soggetti da riesaminare nella lista ritualmente depositata di cui all'art. 468 cod. proc. pen.; - c) l'intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle già assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli artt. 190 e 495 c.p.p. anche con riguardo alla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa.

Nel caso in esame, la difesa alla udienza del 16 maggio 2023 ha chiesto la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in relazione al principio di immutabilità dell'organo giudicante, sul rilievo che il collegio che deve decidere è totalmente diverso da quello che ha assunto le prove, senza indicare le circostanze decisive, con conseguente legittimità della ordinanza del 16 maggio 2023 di rigetto di tale richiesta di rinnovazione.

In altri termini, non risulta che la difesa abbia indicato nella richiesta del 16 maggio 2023 i decisivi elementi fattuali che la rinnovazione istruttoria dinanzi al nuovo giudice avrebbe potuto apportare, in termini di utilità, da ciò consegue legittima utilizzazione di quei verbali di prova, acquisiti all'esito del dibattimento mediante lettura.

Quanto ai testi indicati nella lista del 6 marzo 2023 e quelli originariamente indicati, la difesa non ha formulato richiesta di sentirli contestualmente alla richiesta di rinnovazione, trattandosi peraltro di richieste autonome ed indipendenti, ma solo in sede di discussione e quindi tardivamente.

Le richieste istruttorie riguardano tanto le richieste di rinnovazione, quanto le richieste di ammissione dei testi indicati in lista, e nel caso di specie sebbene il ricorrente abbia depositato una nuova lista testimoniale, nessuna richiesta di ammissione è stata mai formalizzata.

Relativamente al terzo motivo, oltre a quanto in precedenza richiamato al paragrafo 3, si osserva che le note di udienza del 1 giugno 2023 sono una raccolta di due articoli di stampa diretti a dimostrare la prassi di ricorrere a metafore animalesche nella dialettica politica.

La doglianza difensiva perde di consistenza in ragione del fatto che il mancato deposito è riferita non già al contributo discorsivo della memoria (con ampliamento dell'ambito dell'argomentazione) ma a meri articoli di stampa diretti a documentare eventuali aggressioni verbali a personaggi politici, privi come tali di valenza rappresentativa e valutativa degli elementi di prova già disponibili, se non animata dalla finalità di introdurre in sede di discussione nuovi documenti (in disparte la considerazione che è priva di valenza giuridica la tesi che la metafora animalesca non ha rilevanza penale, giacché non è dato sapere se le aggressioni verbali oggetto degli articoli di stampa abbiano formato oggetto di querele).

Quanto al quarto motivo si osserva che da un canto, l'art. 523 cod. proc. pen., nel prevedere che le parti formulino e illustrino le rispettive conclusioni, riconosce alle stesse una facoltà e non un obbligo. Dall'altro l'art. 178, lett. B), cod. proc. pen. sanziona con la nullità la violazione delle disposizioni concernenti l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale e la sua "partecipazione al procedimento", ma l'obbligo di partecipazione al procedimento non implica che il pubblico ministero debba svolgere le sue conclusioni, orali o scritte, su tutte le questioni che si possono prospettare in relazione alle possibili statuizioni del giudice (Sez. 2, 17 gennaio 1996, n. 6916, Rv. 205365; nella stessa direzione Sez. 5, 7 settembre 2023 n. 36947, non mass.) e tanto meno obbliga il Pubblico ministero ad illustrare le sue conclusioni.

Ebbene, pacificamente, la parte pubblica non si è limitata a richiamare per relationem le conclusioni già espresse nella udienza del 14 gennaio 2019 (e travolta per effetto della sentenza n. 21829/2023, per come sostenuto dalla difesa), ma ha insistito per la condanna (per come riportato a p. 25 della sentenza gravata che rinvia non solo al verbale sintetico ma anche a quanto risulta dal verbale stenotipico).

Ciò significa che, pur non avendole nuovamente illustrate, attraverso una relatio formale, ha indicato la propria richiesta di condanna. E tanto è sufficiente a ritenere soddisfatto l'onere di cui al già richiamato art. 523 cod. proc. proc.

Infine, la questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 25 e 27 Cost. - dell'art. 159 cod. pen., nella parte in cui non esclude la sospensione del decorso della prescrizione, nelle ipotesi in cui il tempo inutilmente decorso sia imputabile al factum principis, non è rilevante perché il reato di diffamazione è estinto per prescrizione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Calderoli Roberto, perché il reato ascrittogli è estinto per prescrizione.