Quanto scritto in un post su FB può essere attribuito all'autore apparente anche senza l'individuazione dell'indirizzo IP utilizzato dall'autore delle stesse anche solo in presenza di dati indiziari.
Corte di Cassazione
sez. V Penale, sentenza 15 ottobre – 16 dicembre 2020, n. 36026
Presidente Vessichelli – Relatore Settembre
Ritenuto in fatto
1. La Corte d'appello di Trieste ha confermato la decisione di primo grado, che aveva condannato Ca. Pa. per diffamazione in danno di Ga. Fa. per avere - dopo una partita di calcio svoltasi tra la squadra di cui Ga. era presidente e quella di cui l'imputato era allenatore - pubblicato sul proprio profilo Facebook espressioni offensive della reputazione di quest'ultimo,
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato con cinque motivi.
2.1. Col primo lamenta che le espressioni in questione siano state attribuite all'imputato per il semplice fatto che sono apparse sul suo profilo Facebook, senza l'individuazione dell'indirizzo IP utilizzato dall'autore delle stesse.
2.2. Col secondo si duole del ragionamento spiegato per l'individuazione del destinatario delle offese, atteso che il nome di Ga. non è mai stato fatto dall'autore del "post" e che gli elementi valorizzati dal giudicante sono tutti equivoci o non corrispondenti alle caratteristiche del diffamato.
2.3. Col terzo motivo si duole della mancata applicazione dell'art. 599 cod. pen., atteso che - come confermato dar testi esaminati - l'imputato avrebbe solo reagito a comportamenti contrari alla civile convivenza posti in essere da Ga. nel corso della partita di calcio.
2.4. Col quarto lamenta che illegittimamente sia stato ritenuto inammissibile il motivo sulla pena e sull'entità del risarcimento attribuito alla persona offesa.
2.5. Col quinto lamenta un'omessa motivazione - da parte del giudice d'appello -sulla richiesta, avanzata dall'appellante, di condanna della parte civile ai sensi dell'art. 542 cod. proc. pen..
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile perché meramente riproduttivo di doglianze già esaminate, esaustivamente e correttamente, dal giudice d'appello e perché manifestamente infondato.
1. La provenienza del "post" dall'imputato e l'individuazione della persona offesa in Ga. Fa. sono stati oggetto di attenta disamina da parte dei giudici di merito, i quali hanno valorizzato elementi di sicura valenza indiziaria, sia in relazione al contesto temporale in cui il post è apparso, sia in relazione ai suoi contenuti, sicché vanno disattese le doglianze tutte del ricorrente, in quanto:
a) è, effettivamente, altamente indicativo che il post sia comparso sul profilo Facebook dell'imputato, stante la necessità, notoria, di una password per accedervi e stante il fatto che nessuna indicazione è provenuta dall'imputato circa l'intrusione di estranei nel suo profilo (è fuor di luogo gridare all'inversione dell'onere della prova, giacché viene valorizzato, in tal caso, un dato obbiettivamente accertato);
b) non ha nessun rilievo che il destinatario delle offese avesse 43 anni, invece che i 40 di Ga., dal momento che l'età delle persone può essere solo supposta da parte di chi non ne conosce l'esatta data di nascita;
c) non è affatto detto che Ca. conoscesse il numero preciso dei figli di Ga..
L'aver parlato di tre figli, invece che di due, non costituisce dato dissonante per l'individuazione della provenienza delle espressioni diffamatorie;
d) il fatto che Ga. abitasse a Cecchini, invece che a Visrnale (località menzionata nel "post") non ha, effettivamente, alcun significato, dal momento che, come ricordato in sentenza, si tratta di paesi contigui e anche nel "post" i due luoghi sono rappresentati come "vicini".
La motivazione con cui si è pervenuti all'individuazione dell'autore e della vittima del "post" non è, quindi, affatto illogica o "forzata", dal momento che, oltre ai dati (di per sé significativi) sopra esposti, ne sono stati evidenziati altri, aventi parimenti forza dimostrativa: il fatto che Ga. fosse effettivamente "presidente" di una squadra di calcio (come l'offeso); il fatto che Ga. gestisse un locale pubblico (come l'offeso); il fatto che il "post" sia stato pubblicato il giorno successivo alla partita di calcio svoltasi tra le squadre di imputato e persona offesa e il fatto che, già durante la partita, fossero intervenuti "sfottò" tra le parti, anche con riferimento alla famiglia dr Ga.. Consegue a tanto la manifesta infondatezza dei primi due motivi di ricorso.
2. Gli "sfottò" che intercorrono durante una partita di calcio non sono minimamente equiparabili agli insulti proferiti on-line, dopo la partita stessa, specie se coinvolgono persone (la moglie di Ga., in questo caso) estranee al contesto sportivo. Tanto, senza considerare che di atteggiamenti ingiuriosi, o soltanto inurbani, tenuti sul campo da Ga. parla solo l'imputato, dal momento che - dopo attento esame dette dichiarazioni rese dai soggetti vicini all'imputato o comunque presenti alla partita - atteggiamenti siffatti sono stati esclusi dalla Corte d'appello (pag. 8 e seg., ove si parla - riportando le dichiarazioni del teste Ca. - di "discussione animata", di "episodi molto ripetuti all'interno di partite amatoriali", ma niente che sia qualificabile come provocazione).
Inutilmente, pertanto, il ricorrente insiste nella tesi della provocazione, sostenuta in giudizio (tesi peraltro contrastante con l'asserita estraneità alle condotte diffamatorie), dal momento che non compete a questa Corte riesaminare il compendio delle dichiarazioni su cui è fondato il giudizio dei Tribunale e della Corte di merito
3. Il motivo sulla pena e sull'entità del risarcimento è inammissibile per genericità, come lo era già stato in appello. La parte che intende impugnare una decisione sfavorevole deve puntualmente indicare, infatti, gli elementi che inficiano il giudizio espresso. Tanto non è avvenuto in appello e tanto non è avvenuto in cassazione, dal momento che la pretesa incertezza circa "l'individuazione del reato contestato" e circa fa "individuazione di chi sia la persona offesa dal reato" non rappresentano argomenti (peraltro fallaci, come si è già detto) con cui invalidare il ragionamento espresso, su tutt'altro punto, dal giudicante.
4. L'ultimo motivo è manifestamente infondato, dal momento che, a fronte della condanna dell'imputato per il reato che gli ascritto e a fronte dell'accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalla parte civile, il giudice non deve affatto spiegare perché non condanna il querelante alla rifusione delle spese sostenute dall'imputato (qui, evidentia docet).
5. Consegue a tanto che il ricorso, manifestamente infondato sotto ogni profilo, va dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa netta proposizione del ricorso, al versamento di una somma a favore della Cassa delle ammende che, in ragione dei motivi dedotti, si stima equo determinare in Euro 3.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 a favore della Cassa delle ammende.