Non costituisce diritto di critica appellare qualcuno come "gaglioffo azzeccagarbugli": si tratta di proposizioni diffamatorie, eccedenti il limite della legittima critica politica perchè, non necessarie nè collegate al dissenso sull'operato e sulla personalità pubblica dell'offeso, attingono la sua sfera professionale e personale, denigrandone con termini quali gaglioffo e azzeccagarbugli la moralità e la capacità.
La derivazione letteraria (manzoniana per azzeccagarbugli) o storica (probabilmente derivata gallis offa per gaglioffo) dei termini nulla toglie al disvalore vuoi connotativo vuoi denotativo di entrambi, adeguatamente individuato nella sentenza impugnata con gli equivalenti di "operatore del diritto di scarsa levatura morale", "imbroglione" e di "manigoldo, delinquente, avvezzo alla sopraffazione".
Corte di Cassazione
Sez. V penale, Sent., (data ud. 22/06/2007) 09/08/2007, n. 32577
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
L.A., nato il (OMISSIS) a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 10.11.2006 della Corte d'appello di Potenza, parte civile T.B., n. il (OMISSIS) a (OMISSIS).
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita la relazione fatta dal consigliere Dr. M. Stefania Di Tomassi;
Udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. DE SANDRO Anna Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Potenza confermava la decisione in data 14.11.2005 del Tribunale di Meli, che aveva dichiarato L.A. responsabile del reato di diffamazione aggravata commesso il 7.10.2000, condannandolo, in concorso di attenuanti generiche, alla pena di 700,00 Euro di multa oltre che al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese di lite in favore della parte civile T.B..
1.1. Il fatto addebitato al L., responsabile di un partito d'opposizione alla giunta del Comune di Venosa, consisteva nell'avere diffuso un manifesto - volantino intestato "Le mani sulla città", nel quale veniva offesa la reputazione del T., sindaco della città, che veniva definito "gaglioffo azzeccagarbugli" dicendosi che aveva abusato del suo ufficio per favorire la ricostruzione in fabbricato in cemento armato di un "capannizo" giacente su resti di interesse storico dell'assessore D.F..
1.2. A ragione della propria decisione la Corte d'appello osservava che mentre molte delle espressioni usate nel manifesto (repellenti governatori, arruffoni della politica, nefandi amministratori) pur essendo denigratori potevano ritenersi scriminati dall'esercizio del diritto di critica politica, non altrettanto poteva dirsi degli epiteti riportati in contestazione (gaglioffo azzeccagarbugli).
In realtà, rilevava la Corte, il fatto specifico denunziato nel manifesto, costituito dalla autorizzazione all'assessore ad effettuare un intervento edilizio nel centro storico della città, "che aveva pregiudicato pregevoli vestigia romane" neppure era risultato essere vero. La Sovrintendenza dei beni archeologici aveva infatti escluso, con nota 8.3.2001, che l'area interessata ai lavori fosse di interesse archeologico e che nel corso dei lavori fossero stati rinvenuti reperti d'interesse; la Regione Basilicata aveva dal suo canto informato la Procura di Melfi, con nota 26.10.2000, che le opere erano conformi a progetto. La non verità del fatto era dunque sintomo dell'uso strumentale della denunzia relativa ad una attività amministrativa "che si risolveva in vantaggio per un pubblico amministratore, evidenziandole, contro la verità dei fatti, una concreta illiceità, per svolgere un attacco diretto alla sfera personale del Sindaco.
I termini gaglioffo - "sinonimo di manigoldo, delinquente, avvezzo alla sopraffazione" - e di azzeccagarbugli - "sinonimo di operatore del diritto di scarsa levatura morale, di imbroglione, propenso a difendere i forti contro i deboli" offendevano così gratuitamente la reputazione della persona offesa coinvolgendo la sua professione di avvocato senza alcuna connessione con l'attività politica esercitata.
2. Ricorre l'imputato a mezzo del proprio difensore, che chiede l'annullamento della sentenza impugnata per "mancanza o manifesta illogicità della motivazione".
Sostiene il ricorrente che le conclusioni cui è pervenuta la Corte d'appello traggono le mosse dall'affermazione che il fatto denunziato nel manifesto "non sembra rispondere a verità", da essa essendosi fatta discendere la considerazione che l'imputato aveva tratto pretesto da una attività amministrativa per portare al Sindaco un attacco personale.
Non correttamente dunque la Corte d'appello avrebbe tratto dalla "probabile" non rispondenza a verità (ma i lavori erano stati arrestati nel 2000 e sarebbero "ancora bloccati") dei fatti la conclusione che non poteva riconoscersi l'esercizio d'una legittima critica politica e l'intenzione d'offendere.
In realtà nè l'epiteto di azzeccagarbugli nè quello di gaglioffo ("che significa persona goffa ed anche sciocca o un buono a nulla") trasmodavano dalla critica politica, intermente rivolta all'attività amministrativa censurata.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile.
Assolutamente generica - e, per quanto si dirà, impertinente - è la deduzione con la quale s'accenna un tentativo di confutazione con riferimento alla non verità del fatto (abusivo) denunziato nel manifesto è generica. Essa trae spunto da un modo d'esprimersi della sentenza impugnata, "non sembra", il cui reale significato emerge in realtà chiaramente dal contesto espositivo, nel quale non solo s'esclude l'esistenza d'ogni elemento capace di dimostrare in positivo che tale fatto fosse vero o potesse plausibilmente essere stato ritenuto tale, ma si evidenziano gli elementi acquisiti (pareri o comunque documenti provenienti dalla Sovrintendenza e dalla Regione) conducenti ad affermarne la non verità. Velleitarie e meramente allusive, oltrechè afferenti circostanze di non valutabili nel presente giudizio, essendo di contro i poco espliciti riferimenti ad un asserita perdurante situazione di sospensione dei lavori.
Per altro, a ragionevole base della loro conforme decisione i giudici di merito hanno posto non tanto l'assenza di una base fattuale capace di offrire spunto al veemente attacco politico (quello che comunemente è definito il nocciolo di realtà, cui deve comunque essere riferito il discorso critico, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte: cfr. tra molte Cass., sez. 5, 14.2.2002, Trevisan), quanto l'assenza di continenza e la mancanza di pertinenza tra il fatto assertivamente vero denunziato e l'attacco quindi sferrato anche alla sfera personale e professionale della persona offesa.
La sentenza impugnata, come quella di primo grado, basa difatti l'affermazione di responsabilità del ricorrente su di una corretta quanto logicamente motivata sostanziale valutazione di gratuità delle proposizioni diffamatorie, eccedenti il limite della legittima critica politica perchè, non necessarie nè collegate al dissenso sull'operato e sulla personalità pubblica dell'offeso, attingevano la sua sfera professionale e personale, denigrandone con termini quali gaglioffo e azzeccagarbugli la moralità e la capacità.
E la lettura del testo e delle espressioni usate così offerta non solo è plausibile, ma è perfettamente aderente al significato corrente dei termini usati, la cui derivazione letteraria (manzoniana per azzeccagarbugli) o storica (probabilmente derivata gallis offa per gaglioffo) nulla toglie al disvalore vuoi connotativo vuoi denotativo di entrambi, adeguatamente individuato nella sentenza impugnata con gli equivalenti di "operatore del diritto di scarsa levatura morale", "imbroglione" e di "manigoldo, delinquente, avvezzo alla sopraffazione". Epiteti la cui misura non è, neppure in ricorso, giustificata.
2. All'inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e - per i profili di colpa correlati all'irritualità dell'impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) - di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 500,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 500,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 22 giugno 2007.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2007