La diffamazione non sussiste quando viene esercitato un diritto (di cronaca, prima ancora che di critica satirica)
Riferire di una pignolosità di un pubblico ufficiale, seppur ironicamente, non è reato.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 febbraio - 10 ottobre 2013, n. 41869
Presidente Marasca - Relatore Micheli
Ritenuto in fatto
1. Il difensore di G..F. ed E..M. ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, con la quale risulta essere stata confermata la sentenza emessa il 26/10/2010 dal Tribunale di Catania, recante la condanna dei suddetti imputati a pene distinte per il reato di diffamazione a mezzo stampa (il F. ) e per omesso controllo ex artt. 57 e 595 cod. pen., 13 legge n. 47 del 1948 (il M. ): in particolare, l'accusa riguarda la pubblicazione sul quotidiano "(omissis) ", in data (omissis) , di un articolo asseritamente offensivo della reputazione di F..R. , agente della Polizia Municipale di .... G..F. è chiamato a risponderne quale autore e firmatario dell'articolo in questione, dal titolo "Troviamogli una Giulietta"; ad E..M. si addebita di non avere impedito la pubblicazione de qua, in ragione della posizione di garanzia rivestita quale direttore responsabile della testata.
Nell'articolo in questione, secondo l'ipotesi accusatoria, era stata ridicolizzata la figura dell'agente R. , del quale si descriveva l'ingiustificato eccesso di zelo nel rilevare infrazioni al codice della strada anche in applicazione di norme desuete (l'occasione era derivata da alcune contestazioni mosse ad automobilisti che avevano parcheggiato sotto un fornice, vale a dire un arco presente sotto monumenti o palazzi di interesse storico, in violazione di un divieto sconosciuto ai più): in relazione a quel modus operandi, l'articolista aveva addebitato al R. di "cercare il pelo nell'uovo quando ha una montagna di peli perennemente davanti a sé", osservazione che ad avviso del P.M. procedente voleva far intendere che il pubblico ufficiale avesse trascurato altre e più gravi infrazioni; infine, con fare canzonatorio, il pezzo giornalistico sollecitava il comandante della persona offesa con l'esortazione "gli dia una Giulietta, senza quella R. non potrà mai essere felice".
2. Nel disattendere le tesi della difesa degli imputati, la Corte di appello, pur ribadendo la indiscutibile rilevanza del legittimo diritto di critica nello svolgimento dell'attività giornalistica, sosteneva che ?in tema di diffamazione a mezzo stampa, il rispetto del limite della continenza che integra la scriminante del diritto di critica richiede che il pieno soddisfacimento delle ragioni dell'informazione non debordi oltre la necessità dell'efficace comunicazione che ammette termini corrosivi purché preordinati ad una migliore informazione, mentre tale limite deve ritenersi superato quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto allo scopo?.
Ad avviso della Corte territoriale, ciò si era appunto verificato nella fattispecie in esame, nelle parti in cui l'articolo aveva descritto una sorta di mobbing realizzato dal R. in danno degli utenti della strada, e soprattutto con il riferimento al pelo nell'uovo cercato a dispetto della montagna di peli ignorati (che i giudici di secondo grado intendevano espressivo della volontà di dipingere la persona offesa come soggetto che da un lato abusa dei suoi poteri e dall'altro non ottempera ai propri doveri). Ad avvalorare quella ricostruzione vi era poi la considerazione che, così facendo, l'agente di Polizia Municipale mirava a farsi notare, "così affermando che alla base del comportamento del vigile non vi è un pignolesco volere di far rispettare la normativa, ma solo il personale interesse di mettersi in mostra".
Infine, rilevava la Corte catanese che la critica fosse comunque estranea alla parte conclusiva dell'articolo, con l'invito a procurare una Giulietta al R. in questione, indicativo non già dell'esercizio dei diritti di cronaca e di critica bensì di un intento denigratorio di sberleffo e dileggio.
3. Con l'odierno ricorso la difesa lamenta mancanza ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nonché inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 51 e 595 cod. pen., nella parte in cui viene esclusa la ricorrenza della scriminante del diritto di manifestazione del pensiero, ed affermato il superamento del limite della continenza, nei termini sopra ricordati.
Si rappresenta innanzi tutto che gli elementi utilizzati dalla Corte di appello per affermare la rilevanza penale delle condotte ascritte agli imputati divergono da quelli su cui i giudici di prime cure avevano fondato la precedente decisione: mentre infatti il Tribunale di Catania aveva sollevato perplessità sulla sussistenza della verità delle notizie esposte e del correlato interesse pubblico ad averne conoscenza, la Corte territoriale risulta avere ancorato il proprio giudizio solo in punto di mancato rispetto della continenza espressiva.
A tale riguardo, però, escluso che potesse intendersi significativo il richiamo al brocardo latino summum ius summa iniuria cui la sentenza di primo grado aveva dedicato spazio, i giudici di appello hanno argomentato che la portata diffamatoria dell'articolo dovrebbe leggersi nell'avere offerto ai lettori l'immagine di un vigile urbano che è fin troppo scrupoloso in date circostanze e non rileva altre infrazioni che sarebbero ben più gravi e numerose, attribuendogli così comportamenti da qualificare come abusi od omissioni di atti d'ufficio: detta immagine, secondo la ricostruzione difensiva, non si ricava in alcun modo dalla lettura dell'articolo - che può costituire oggetto di valutazione diretta anche da parte del giudice di legittimità - da cui emerge al contrario una censura verso una "applicazione pignolesca delle leggi" e dunque alla "legalità esasperata perseguita da R. , dedicatosi alla "ricerca dei commi più nascosti dei codici". Giammai, pertanto, la descrizione di un pubblico ufficiale che intenda danneggiare taluni cittadini, ed al contempo favorirne altri.
Il difensore degli imputati reputa altresì contraddittoria la valutazione della Corte di appello circa la portata offensiva dell'immagine secondo cui l'agente di Polizia Municipale intendeva mettersi in mostra, rispetto alla stessa premessa dove si era ammessa la verità della notizia (con il R. ad elevare contravvenzioni in casi in cui i suoi colleghi non lo avevano mai fatto): come già evidenziato nella stessa sentenza del Tribunale, la possibilità di parcheggiare sotto il ricordato fornice, almeno sul lato destro, era considerata prassi lecita dai residenti della zona, sia perché non c'erano mai state contestazioni di verbali in passato, sia per la presenza di un cartello di divieto di sosta solo sulla parte sinistra dell'arco. E. , "era diffusa la percezione da parte degli abitanti di un eccessivo rigore interpretativo" che connotava l'operato della persona offesa, ed "è fuor di dubbio che le multe di R. avevano finito per metterlo in mostra agli occhi dei suoi concittadini. È allora illogico ravvisare una violazione del limite della continenza nel passo dello scritto di F. che tale aspetto si è limitato a cogliere, traendolo dalla percezione dei palermitani".
Con riguardo a quella che secondo la Corte territoriale dovrebbe intendersi la manifestazione più evidente del proposito diffamatorio dell'articolista, vale a dire lo sfottò di sollecitare i superiori del R. a fornirgli una Giulietta, ritiene la difesa che il riferimento stesso al dileggio od allo sberleffo (termini utilizzati nella motivazione della sentenza impugnata) dimostrerebbero al contrario l'irrilevanza penale della fattispecie, tanto più che nella stessa pronuncia di primo grado non era stato sviluppato alcun riferimento a quel passo dell'articolo: ciò perché ai fini di cui all'art. 595 cod. pen. rileva ?l'attribuzione di comportamenti contrari alle regole della civile convivenza, vigenti in un dato momento storico in una collettività determinata. Quindi, non basta per la violazione del precetto il ricorso all'ironia pur graffiante. Occorre un'aggressione alle qualità fisiche, morali, professionali del querelante, realizzata attraverso espressioni di per sé offensive o con l'attribuzione di comportamenti disonorevoli?.
La difesa, con un secondo motivo di ricorso, deduce altresì la violazione dell'art. 159 cod. pen., avendo la Corte di appello operato un erroneo computo dei termini di prescrizione, tenendo conto - quale causa di sospensione di detti termini, in realtà non prevista dal dato normativo - anche dei 90 giorni assegnati al relatore per il deposito della motivazione, ex art. 544 comma 3 del codice di rito.
Considerato in diritto
1. Il ricorso merita accoglimento.
2. Deve preliminarmente osservarsi che, come in effetti sostenuto dalla difesa, si è già avuto modo di affermare che "in materia di diffamazione, la Corte di Cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e quindi della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato" (Cass., Sez. V, n. 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv 233749). Ne deriva, ai fini oggi di interesse, che il collegio deve prendere atto non solo della formulazione e del contenuto dell'articolo, bensì anche del contesto in cui la pubblicazione intervenne: il pezzo dal titolo "Troviamogli una Giulietta", riportato nel capo d'imputazione, aveva infatti un evidente taglio di commento ad una notizia che costituiva oggetto di un separato articolo, sottoscritto da altra giornalista (Z.A. , inizialmente coimputata) e dedicato ad informare i lettori sia sulle iniziative del vigile F..R. sia sul malumore che queste avevano determinato nei residenti della zona, con tanto di foto di autovetture parcheggiate sotto un arco.
Perciò, risulta chiaro come l'articolo della Z. avesse finalità di cronaca su fatti oggettivamente verificatisi (non a caso, la giornalista venne assolta già in primo grado), mentre quello di G..F. contenesse - con il lettore che era posto in condizione di comprenderlo immediatamente - una valutazione di quei fatti. Altrettanto immediate erano peraltro le possibilità di percezione del taglio ironico, se non addirittura satirico, di detto contenuto, desumibile dalla scelta del titolo e già dalla lettura delle prime righe, laddove l'imputato cercava qualcuno disposto ad alzare la mano perché in grado di rispondere alla domanda su cosa fosse un fornice.
3. Tanto premesso, si conviene con la difesa dei ricorrenti nel rilevare che secondo la Corte di appello la notizia era vera ed era oggetto di pubblico interesse: si legge infatti nella sentenza impugnata che "nel caso in esame il problema non è accertare se la notizia che il R. abbia (legittimamente) elevato delle contravvenzioni in situazioni in cui suoi colleghi non lo avevano fatto in passato sia o no rispondente al vero, perché tale pacificamente è, né accertare se detta notizia sia socialmente rilevante perché tale è, almeno per una parte della popolazione palermitana". Subito dopo, la Corte territoriale spiega che occorre chiedersi soltanto se il F. abbia trasmodato nell'esercizio di quel diritto di critica che certamente gli spettava.
Ad avviso dei giudici di appello, vi sarebbe già valenza diffamatoria nella parte dell'articolo dove si ascrive al R. l'intento di "mettersi in mostra". Il capo d'imputazione assume che con la frase "va a cercare il pelo nell'uovo quando ha una montagna di peli davanti a sé" l'articolista volesse descrivere la parte civile come proclive a trascurare infrazioni più gravi di quelle riscontrate; in realtà nel corpo dell'articolo vi è prima un riferimento alla realtà palermitana come ben diversa da quelle di città del (OMISSIS) (dove non si troverebbe neppure una carta gettata in terra), con auto in doppia o tripla fila, posti o scivoli per disabili impraticabili, violazioni di aree pedonali e quant'altro, quindi - alla domanda "e R. che fa?" - la risposta di cui alla frase sopra virgolettata. Il commento seguente è "evidentemente è un originale e vuole farsi notare".
Si tratta, perciò, di una valutazione sulla idoneità oggettiva di quel comportamento a distinguere l'operato dell'autore rispetto a quello che normalmente potrebbe registrarsi: dire che un soggetto è "un originale" sottintende la possibilità per chiunque di notare la sua differenza rispetto a chi rientra invece in uno stereotipo ordinario, e non vale neppure a rimarcare che quella persona mira a farsi notare, piuttosto che dalla cittadinanza o dal quisque de populo, dai propri superiori gerarchici, onde apparire migliore di colleghi non dimostratisi altrettanto preparati e zelanti.
Manifestamente illogica, a questo punto, è la ricostruzione offerta dalla Corte catanese nel far derivare da quella frase la descrizione di un soggetto che abusa dei suoi poteri od omette atti di ufficio: chi cerca il pelo nell'uovo e non guarda una montagna di peli più evidente, nella struttura e nel senso immediato dell'articolo di stampa de quo, non è un soggetto che intenzionalmente vuole strumentalizzare la propria veste di pubblico ufficiale per danneggiare un cittadino favorendone altri che dovrebbe invece perseguire al pari ed ancor prima di quello, è più semplicemente un vigile che non ha il senso della misura.
Non si vede pertanto dove sia ravvisabile la lesione dell'onorabilità del R. : il giornalista non sosteneva né adombrava che egli fosse facile a interpretare le norme per gli amici e ad applicarle per gli altri, ma gli addebitava semmai (liberamente manifestando il proprio pensiero) di essere troppo intransigente tout court. Ritiene conseguentemente il collegio che, con riguardo al contenuto dell'articolo finora esaminato, non vi sia spazio neppure per evocare la valenza scriminante del legittimo esercizio del diritto di critica: come appena rilevato, il F. esprimeva liberamente - già con la copertura prevista dall'art. 21 Cost. - una sua opinione, fondata su notizie vere e che i lettori avevano interesse ad apprendere. La sua condotta, in altre parole, era inoffensiva ab initio, senza la necessità che il diritto di critica pure sottolineato dalla difesa dei ricorrenti venga a rendere penalmente irrilevante un fatto altrimenti antigiuridico.
Quanto all'ultimo inciso dell'articolo, consistente nel suggerimento al comandante del R. di dargli una Giulietta per renderlo felice, deve invece tenersi presente la già ricordata connotazione satirica del commento. In proposito, questa stessa Sezione ha affermato che la satira "non si sottrae [...] al limite della continenza, poiché comunque rappresenta una forma di critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi. Ne consegue che, come ogni altra critica, la satira non sfugge al limite della correttezza, onde non può essere invocata la scriminante ex art. 51 cod. pen. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell'immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio. Peraltro, pur dovendosi valutare meno rigorosamente le espressioni della satira sotto il profilo della continenza non di meno la satira stessa, al pari di qualsiasi altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali, esponendo la persona al disprezzo e al ludibrio della sua immagine pubblica" (Cass., Sez. V, n. 2128 del 02/12/1999, Vespa, Rv 215475).
Più di recente, si è sostenuto che "in tema di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste l'esimente del diritto di critica nella forma satirica qualora essa, ancorché a sfondo scherzoso e ironico, sia fondata su dati storicamente falsi; tale esimente può, infatti, ritenersi sussistente quando l'autore presenti in un contesto di leale inverosimiglianza, di sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione delle persone di alto rilievo, una situazione e un personaggio trasparentemente inesistenti, senza proporsi alcuna funzione informativa e non quando si diano informazioni che, ancorché presentate in veste ironica e scherzosa, si rivelino false e, pertanto, tali da non escludere la rilevanza penale" (Cass., Sez. V, n. 3676 del 27/10/2010, Padellaro, Rv 249700).
Nel caso di specie non vi era alcuna falsità delle notizie su cui l'immagine satirica era stata costruita, né poteva rilevarsi una denigrazione gratuitamente offensiva dell'immagine del R. , tale da esporlo a dileggio o ludibrio. Il carattere ironico di quella chiosa finale rendeva assolutamente inoffensiva la portata di una frase che trovava causa - ed esauriva la sua valenza - in un mero artificio dialettico, utilizzato evocando figure letterarie ed altrettanto noti modelli di autovettura, peraltro spesso associati (almeno in passato) alle dotazioni delle forze di polizia.
6. Si impone pertanto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nei termini di cui al dispositivo; deve solo formalmente darsi atto che il secondo motivo di ricorso presentato nell'interesse degli imputati si intende assorbito.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.