I reati di istigazione a delinquere e di apologia di delitto costituiscono fattispecie di pericolo concreto e richiedono perciò per la loro configurazione un comportamento che sia concretamente idoneo, sulla base di un giudizio ex ante, a provocare la commissione di delitti; l’accertamento concreto se l’esaltazione apologetica di un fatto di reato sia idonea, per le sue modalità, a provocare la commissione di delitti, e dunque a integrare il reato di cui all’art. 414 c.p., è riservato al giudice di merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato.
Con specifico riguardo all’apologia di delitti di terrorismo effettuata attraverso strumenti informatici o telematici è idonea a integrare il reato la condotta di chi condivida su social network (quale, nella specie, facebook) link a materiale jihadista di propaganda, anche senza pubblicarli in via autonoma, in quanto, potenziando la diffusione di detto materiale, tale condotta accresce il pericolo non solo di emulazione di atti di violenza ma anche di adesione, in forme aperte e fluide, all’associazione terroristica che li propugna; il pericolo concreto, derivante dalla condotta così posta in essere dall’agente, di commissione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal reato esaltato, può concernere, infatti, non soltanto la realizzazione di specifici atti di terrorismo, ma anche l’adesione di taluno a un’associazione terroristica ex art. 270 bis c.p.
Integra il reato di apologia di delitti di terrorismo, punito dall’art. 414 c.p., comma 4, la diffusione di documenti di contenuto apologetico inneggianti allo Stato islamico o alle attività terroristiche dell’Isis, mediante il loro inserimento (o la loro condivisione) su piattaforme - o social media - internet, in considerazione sia della natura di organizzazioni terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-bis c.p., delle consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale, sia della potenzialità diffusiva indefinita di tale modalità comunicativa.
Diffusione di documenti di contenuto apologetico inneggianti allo Stato islamico o alle attività terroristiche dell’Isis non rientra in una legittima espressione del proprio pensiero politico-religioso tutelata al diritto riconosciuto dall’art. 21 Cost., costituendo invece propaganda /apologia dell’associazione terroristica, in termini concretamente idonei a determinare l’effettiva commissione di ulteriori reati della stessa specie, anche mediante la sollecitazione dell’adesione di nuovi adepti al sodalizio criminale.
Corte di Cassazione
sez. I Penale, sentenza 27 gennaio – 25 marzo 2021, n. 11581
Presidente Tardio – Relatore Sandrini
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 23.06.2018 la Corte d’assise di Napoli condannava l’imputato K.M.K.E. alla pena di anni otto di reclusione, oltre pene e statuizioni accessorie, per il delitto di cui all’art. 270 bis c.p. ascritto al capo A della rubrica, ritenendo in esso assorbito l’ulteriore reato di cui all’art. 414 c.p., aggravato dalla finalità di terrorismo, contestato al capo B, fatti commessi a partire dal 12.09.2014 con condotta permanente.
2. A seguito di appello dell’imputato, la Corte d’assise d’appello di Napoli, con sentenza pronunciata il 5.07.2019, ha assolto il K. dal reato associativo di cui al capo A perché il fatto non sussiste; e ha rideterminato la pena inflitta all’imputato in relazione al delitto di apologia, attraverso strumenti telematici, dell’associazione con finalità di terrorismo internazionale di matrice islamica denominata Isis di cui al capo B, commesso fino al (omissis) mediante le condotte ivi descritte, previo assorbimento dell’aggravante contestata ex D.L. n. 625 del 1979, art. 1 in quella di cui all’art. 414 c.p., comma 4, in anni sei mesi quattro di reclusione, applicando la pena accessoria di cui all’art. 32 c.p., comma 2 e confermando nel resto la sentenza appellata.
3. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione l’imputato K.M.K.E. , a mezzo del difensore, deducendo due motivi di doglianza.
3.1. Col primo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla mancata assoluzione dell’imputato anche dal reato di cui al capo B.
Sotto un primo profilo, la difesa censura le argomentazioni con cui i giudici di merito avevano ritenuto riconducibili all’imputato l’utenza telefonica (omissis) e il profilo facebook Ka.Od. , rilevando l’assenza di accertamenti sulla effettiva utilizzazione in via esclusiva della predetta utenza da parte del K. , che non era mai stato fermato per controlli dalla p.g. e rinvenuto in possesso del telefono cellulare black-berry servito da quella utenza; lamenta che il citato profilo facebook era stato attribuito all’imputato sulla sola base dell’asserita intestazione a lui dell’utenza telefonica alla quale il profilo era associato, nonostante l’incertezza e l’approssimazione di quanto riferito sul punto dall’imam della moschea di (omissis) , frequentata dal K. .
Sotto un secondo profilo, la difesa denuncia l’assenza di elementi in grado di dimostrare la portata e la potenzialità di condizionamento altrui di quanto postato sul profilo facebook ritenuto riconducibile all’imputato, non essendo emerso nemmeno il numero di amici/follower del profilo stesso, a fronte di una quantità invece assai ridotta di condivisioni e apposizioni di "like"; censura, pertanto, l’assenza nella sentenza impugnata di motivazioni a sostegno della condotta, contestata al K. , di aver incoraggiato e diffuso una campagna di "antioccidentalismo", rilevando che l’apologia di reato non può concretizzarsi nella mera manifestazione pubblica della propria opinione critica negativa, nè tantomeno nell’esprimere apprezzamento verso l’autore di una condotta illecita già verificatasi, ma esige che la pubblica esaltazione sia idonea a provocare la concreta possibilità della commissione di ulteriori reati da parte dei destinatari del messaggio apologetico; richiama i principi affermati dalla Consulta nella sentenza n. 65 del 1970.
3.2. Col secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata con riguardo all’applicazione di una pena base superiore ai minimi edittali, al diniego delle attenuanti generiche, alla mancata revoca della misura di sicurezza di cui all’art. 235 c.p..
La difesa lamenta l’irrogazione di una pena eccessiva e non parametrata ai fatti e alla condotta contestata, immotivatamente individuata in misura quasi pari al massimo edittale, nonostante l’occasionalità della vicenda, la sua collocazione in un contesto di impossibile ripetizione e la contenuta intensità del dolo; censura l’omessa valutazione delle dichiarazioni dell’imputato e dell’imam escusso il 23.01.2018 circa la contrarietà agli atti terroristici espressa dal K. ; le modalità dell’azione e il corretto comportamento processuale dovevano invece condurre alla concessione delle attenuanti generiche, mitigando la pena.
4. Non essendo stata formulata istanza di discussione orale del processo, il procuratore generale ha trasmesso ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 le proprie richieste scritte, con cui chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
Anche l’Avvocatura dello Sato, per le parti civili costituite, e il difensore dell’imputato, avv. Grasso, hanno presentato conclusioni scritte, chiedendo rispettivamente il rigetto e l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è complessivamente infondato e deve essere rigettato.
2. La doglianza dedotta nel primo motivo di impugnazione con riguardo alla individuazione nell’imputato dell’autore delle condotte incriminate è inammissibile, perché generica e articolata nei termini di una mera censura di fatto, che neppure si confronta con le argomentate motivazioni spese sul punto dalla sentenza impugnata.
La Corte distrettuale ha dato conto, in modo coerente e puntuale, del fatto che gli inquirenti non si sono limitati ad acquisire, presso i gestori del social media facebook e della telefonia wind, il dato formale dell’associazione dell’account e del profilo facebook registrati col nome Ka.Ed. - sul quale sono stati postati i messaggi e i file di ritenuta natura apologetica - all’utenza cellulare ((omissis) ) intestata all’imputato (identificato sulla base della domanda di permesso di soggiorno presentata al commissariato di p.s. di [...]); ma hanno anche accertato materialmente, mediante appositi servizi di contestuale monitoraggio telefonico e osservazione diretta sul territorio, che il soggetto che utilizzava in via continuativa la predetta utenza cellulare, associata a un apparecchio blackberry curve 3G 9300 nel quale è stato successivamente inoculato uno spy-virus, spostandosi con esso e conversando a bordo dell’autovettura tg [...] (il cui abitacolo era stato sottoposto ad intercettazione ambientale), corrispondeva proprio alla persona dell’imputato, il quale tra l’altro aveva espressamente confermato le proprie generalità a un operatore della wind in occasione di una chiamata telefonica intercettata il 16.02.2015 sempre sulla stessa utenza.
Soprattutto, il motivo di ricorso non si confronta minimamente col dato processuale, riportato dalla sentenza impugnata alle pagine 21 e seguenti, per cui lo stesso imputato ha ammesso, in sede di interrogatorio, la paternità del profilo facebook Ka.Ed. e la condivisione su di esso di immagini e video a favore dell’Isis, non contestando perciò la materialità delle relative condotte, ma limitandosi a giustificarle con l’assunto di aver supportato l’Isis soltanto fino al momento in cui si era reso conto che le sue azioni coinvolgevano anche i civili, e sminuendo la gravità del proprio operato con l’affermazione che condividere i post inneggianti all’Isis era come "giocare a playstation".
Il motivo di doglianza, manifestamente infondato laddove censura un vizio di motivazione palesemente inesistente, omette dunque qualsiasi reale confronto critico con le argomentazioni della sentenza impugnata, risolvendosi perciò in una mera riedizione del corrispondente motivo d’appello, ciò che rende generica la censura e ne determina l’inammissibilità, in conformità all’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui la natura aspecifica della doglianza, che discende dall’assenza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione gravata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, integra una causa tipica di inammissibilità del ricorso per cassazione (Sez. 6 n. 8700 del 21/01/2013, Rv. 254584; Sez. 2 n. 36406 del 27/06/2012, Rv. 253893; Sez. 4 n. 18826 del 9/02/2012, Rv. 253849).
3. Anche la doglianza diretta a contestare, nell’ambito del primo motivo di ricorso, la configurabilità del reato di cui all’art. 414 c.p., comma 3, nella condotta attribuita all’imputato non merita accoglimento.
3.1. Costituisce principio acquisito, nella giurisprudenza di questa Corte, che i reati di istigazione a delinquere e di apologia di delitto, puniti all’art. 414 c.p., commi 1 e 3, costituiscono fattispecie di pericolo concreto e richiedono perciò per la loro configurazione un comportamento che sia concretamente idoneo, sulla base di un giudizio ex ante, a provocare la commissione di delitti (Sez. 5 n. 48247 del 12/09/2019, Rv. 277428); l’accertamento concreto se l’esaltazione apologetica di un fatto di reato sia idonea, per le sue modalità, a provocare la commissione di delitti, e dunque a integrare il reato di cui all’art. 414 c.p., è riservato al giudice di merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato (Sez. 1 n. 25833 del 23/04/2012, Rv. 253101).
Con specifico riguardo all’apologia di delitti di terrorismo effettuata attraverso strumenti informatici o telematici, oggetto dell’imputazione ascritta al K. , è stato affermato il principio per cui è idonea a integrare il reato la condotta di chi condivida su social network (quale, nella specie, facebook) link a materiale jihadista di propaganda, anche senza pubblicarli in via autonoma, in quanto, potenziando la diffusione di detto materiale, tale condotta accresce il pericolo non solo di emulazione di atti di violenza ma anche di adesione, in forme aperte e fluide, all’associazione terroristica che li propugna (Sez. 1, n. 51654 del 9/10/2018, Rv. 274985); il pericolo concreto, derivante dalla condotta così posta in essere dall’agente, di commissione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal reato esaltato, può concernere, infatti, non soltanto la realizzazione di specifici atti di terrorismo, ma anche l’adesione di taluno a un’associazione terroristica ex art. 270 bis c.p. (Sez. 1, n. 47489 del 6/10/2015, Rv. 265264).
Integra pertanto il reato di apologia di delitti di terrorismo, punito dall’art. 414 c.p., comma 4, la diffusione di documenti di contenuto apologetico inneggianti allo Stato islamico o alle attività terroristiche dell’Isis, mediante il loro inserimento (o la loro condivisione) su piattaforme - o social media - internet, in considerazione sia della natura di organizzazioni terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-bis c.p., delle consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale, sia della potenzialità diffusiva indefinita di tale modalità comunicativa (Sez. 5,n. 1970 del 26/09/2018, dep. il 16/01/2019, Rv. 276453).
3.2. Di tali principi la sentenza impugnata ha fatto corretta e coerente applicazione, supportata da un’ampia ed esaustiva motivazione, nel pronunciare la condanna del K. per il reato di apologia per via telematica dell’organizzazione terroristica dell’Isis.
La sentenza d’appello ha riportato in modo puntuale le condotte, ritenute penalmente rilevanti, accertate nel giudizio di primo grado a carico dell’imputato, consistite in particolare: nell’adesione a un gruppo presente su facebook denominato prima "lo Stato islamico nello Stato" e poi "Iraq e Syria estensione islamica del califfato sull’esempio del Profeta", connotato da una chiara impronta
sostenitrice dell’Isis; nella condivisione di un post successivo al 12 gennaio 2015, di commento agli attentati di (omissis) e ‘per K. , esprimente sostegno allo Stato islamico con caratteri antioccidentali e antisionisti, supportando una ricostruzione complottista degli atti terroristici e giustificando sul piano morale la reazione degli attentatori come risposta alla libertà di satira dei giornalisti; nel reiterato incitamento alla jihad contro i cristiani, esprimendo sostegno alla costituzione del califfato islamico, esaltando la strategia del califfato globale predicata dall’Isis e le sue conquiste militari in Siria, mediante condivisione delle informazioni dell’organo di propaganda dell’Isis stesso; nella ripetuta appostazione di manifestazioni di sostegno ad organizzazioni terroristiche dello scenario salafita, riconducibili al […], come le brigate (omissis); nella espressione di sostegno a gruppi terroristici di matrice islamista operanti in Libia e in Siria, impostandone il vessillo come immagine del proprio profilo; nella condivisione non solo dell’ideologia ma anche dei metodi dell’Isis, postando contenuti di esaltazione degli omicidi commessi con modalità brutali (decapitazioni, sgozzamenti) da tale organizzazione; nella esaltazione dei combattenti islamisti e dei martiri della jihad, sottolineando la giustezza della loro azione; nella specifica esaltazione di figure simbolo del terrorismo islamico internazionale, tra le quali lo sceicco A.E.A. , al quale gli attentatori di Parigi avevano dichiarato di essersi ispirati, e S.a.R. , condannata per un attentato ad Amman che aveva causato 61 vittime; nella condivisione sul proprio profilo facebook della traccia audio postata dall’autore del duplice attentato del 14 e 15 febbraio 2015 a Copenaghen.
I contenuti specifici dei post e dei like ritenuti più significativi, sul punto, sono stati poi riportati in modo analitico e dettagliato nel testo della motivazione della sentenza di secondo grado, alle pagine da 38 a 42, alla cui lettura si fa integrale rimando.
Si tratta di condotte, consistite nella pubblicazione e nella condivisione di file di testo, immagini, video e altri contenuti multimediali provenienti direttamente dall’associazione terroristica (Isis) o da altri soggetti che ne avevano condiviso in rete i materiali, e talora redatti personalmente dall’imputato, la cui materialità non è stata contestata in sede di interrogatorio - come si è già detto - dal K. , il quale si è limitato a sminuirne il significato e la rilevanza penale, secondo una valutazione che è stata riproposta dalla difesa nel motivo di ricorso. Sulla scorta del contenuto oggettivo di tali materiali, della loro provenienza da una organizzazione - l’Isis - la cui natura terroristica è stata riconosciuta a livello internazionale, in plurime risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (a partire dall’agosto 2014) e in documenti del Consiglio dell’Unione Europea aventi carattere vincolante nel diritto interno anche in forza del rinvio contenuto nell’art. 270 sexies c.p., nonché della palese finalità perseguita, mediante la loro diffusione via internet, di esaltare le azioni e gli scopi di tale organizzazione, rappresentandone l’adesione come frutto di una scelta corretta e addirittura doverosa, la sentenza impugnata ha escluso che l’attività del K. potesse rientrare in una legittima espressione del proprio pensiero politico-religioso, nell’esercizio del diritto riconosciuto dall’art. 21 Cost., e ne ha ritenuto invece la natura e la funzione propagandistica/apologetica dell’associazione terroristica, in termini concretamente idonei a determinare l’effettiva commissione di ulteriori reati della stessa specie, anche mediante la sollecitazione dell’adesione di nuovi adepti al sodalizio criminale.
Il giudizio di fatto così formulato dalla Corte di merito, in termini logici e lineari, conformi ai principi giurisprudenziali sopra delineati in tema di violazione dell’art. 414 c.p., non è censurabile in sede di legittimità, ed è stato ulteriormente corroborato dalla sentenza impugnata, con riguardo alla consapevole volontà diffusiva del messaggio terroristico da parte dell’imputato, valorizzando sia la storia personale di progressiva autoradicalizzazione del K. , emersa dalle risultanze istruttorie, sia i contenuti delle conversazioni oggetto di intercettazione ambientale avvenute a bordo dell’autovettura in uso allo stesso, attestanti la sistematica opera di persuasione e di propaganda delle idee jihadiste e delle azioni dell’Isis svolta anche personalmente dal K. nei confronti dei suoi interlocutori ed accompagnatori, per lo più della medesima estrazione religiosa. Le deduzioni del ricorrente circa il numero ridotto, e non precisamente accertato nella sua consistenza, di follower del profilo facebook dell’imputato e di "like" apposti ai file da lui condivisi o postati, sono dunque inconferenti e inidonee a scalfire la tenuta logica della motivazione della sentenza di condanna: stante la pacifica natura di reato di pericolo della violazione dell’art. 414 c.p., ad integrare il reato basta la concreta possibilità che la diffusione, continuativa e ingravescente come nella specie, di documenti di contenuto apologetico e propagandista inneggianti allo Stato islamico e alle attività terroristiche dell’Isis, crei o comunque incrementi il rischio potenziale di commissione di reati lesivi di beni omologhi di quelli offesi dai crimini esaltati, ciò che è stato puntualmente verificato dai giudici di merito con riguardo alla situazione di pericolo concreto determinata dall’azione comunicativa dell’imputato indirizzata a una platea indeterminata di destinatari/utilizzatori della medesima piattaforma internet, accentuata dall’enorme capacità diffusiva dello strumento telematico.
3.3. Il motivo di censura si rivela dunque privo di fondamento.
4. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Questa Corte ha affermato il principio, che deve essere ribadito, per cui l’irrogazione della pena in una misura prossima al massimo edittale rende necessaria una specifica e dettagliata motivazione in ordine al quantum inflitto, non essendo sufficienti in tal caso a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 c.p. espressioni quali "pena congrua" o "pena equa", come pure il semplice richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere del soggetto (Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Rv. 258356).
Nel caso di specie, la Corte di merito ha determinato la pena base in anni quattro di reclusione, e dunque in misura prossima al limite massimo edittale di cinque anni stabilito dall’art. 414 c.p., comma 3; ha quindi proceduto ad applicare l’aumento nella misura fissa della metà - due anni - previsto dal comma 4 della norma per la circostanza aggravante del fatto riguardante delitti di terrorismo, e l’ulteriore aumento di mesi quattro per l’aggravante costituita dall’uso dello strumento telematico o informatico, pervenendo alla pena finale di anni sei mesi quattro di reclusione.
La conseguente esigenza di una motivazione rafforzata è stata puntualmente assolta dalla sentenza impugnata, con argomentazioni congrue e adeguate, che hanno valorizzato sia le modalità particolarmente gravi della condotta consistite in una fanatica e continua esaltazione di un’organizzazione terroristica e delle sue gesta, svolgendo sistematica attività di proselitismo a favore della stessa ed alimentando un numero indeterminato di adesioni e condivisioni da parte di altri soggetti; sia la diffusività, anche solo potenziale, dei relativi messaggi, che hanno ricevuto numerose adesioni e approvazioni; sia l’intensità del dolo attestata anche dal processo di autoradicalizzazione progressiva del K. e da una rappresentazione faziosa degli avvenimenti; sia la capacità a delinquere manifestata attraverso l’incondizionata adesione al messaggio dell’I sis, moltiplicato nei suoi effetti mediante lo strumento diffusivo della rete internet.
La Corte distrettuale ha quindi motivatamente escluso la natura occasionale della condotta, protrattasi ininterrottamente per alcuni mesi, e ha dato atto dell’assenza di reali segnali di resipiscenza da parte dell’imputato successivi al reato, essendosi la condotta processuale del K. limitata a un tentativo di sminuire la propria responsabilità.
Sulla scorta dei medesimi elementi di fatto la sentenza impugnata ha negato all’imputato le attenuanti generiche, senza perciò incorrere in alcun vizio o carenza di motivazione, dovendosi ribadire - sul punto - che nella complessiva determinazione del trattamento sanzionatorio il giudice può legittimamente tenere conto più volte dello stesso dato di fatto, sotto differenti profili e per distinti fini, in particolare sia per stabilire la pena in misura superiore al minimo edittale sia per negare il beneficio di cui all’art. 62 bis c.p. (Sez. 3 n. 17054 del 13/12/2018, dep. nel 2019, Rv. 275904), soggetto anch’esso ai criteri valutativi indicati nell’art. 133 c.p..
Le doglianze del ricorrente, dirette a censurare un inesistente vizio di motivazione, si risolvono in realtà nel sollecitare una rivisitazione del merito del trattamento sanzionatorio, in auspicati termini più miti, che esula dalle funzioni della Corte di legittimità.
Nessuna argomentazione, infine, è stata spesa dal ricorrente per supportare la richiesta di revoca della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato a pena espiata, applicata al K. ai sensi dell’art. 235 c.p., con conseguente inammissibilità della relativa doglianza per mancanza assoluta dei motivi.
5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio (nella misura liquidata nel dispositivo) dalle parti civili costituite Ministero dell’Interno e Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentate e difese dall’Avvocatura dello Stato che ha depositato articolate deduzioni e conclusioni scritte.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado dalle parti civili Ministero dell’Interno e Presidenza del Consiglio dei Ministri, che liquida in complessivi Euro 4.550,00, oltre accessori di legge se dovuti.