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Traduzione della sentenza di condanna obbligatoria per l'Europa, ma non in Italia (Cass. 4408/25).

4 febbraio 2025, Corte di Cassazione

La traduzione di una sentenza che l'imputato alloglotto non può impugnare personalmente non incrementa né quantitativamente né qualitativamente i suoi diritti di difesa, e che nessuna concreta limitazione di quei diritti può realmente conseguire alla mancata traduzione: in sintonia con la giurisprudenza nazionale e sovranazionale, pare difficile argomentare che essa possa provocare una lesione dei diritti di difesa dell'alloglotto, che, comunque, mantiene il diritto di partecipare personalmente al giudizio con l'ausilio di un interprete, e gode continuativamente dell'assistenza tecnica del proprio difensore.

Poiché non è concepibile un illimitato diritto alla traduzione di tutti i provvedimenti adottati e di tutti i documenti acquisiti nel corso del procedimento - che frustrerebbe immotivatamente esigenze di celerità, di efficienza e di contenimento dei costi, delle quali occorre certamente tenere conto -, appare ragionevole ritenere la massima espansione di quel diritto nei soli casi nei quali l'atto o il documento da tradurre siano effettivamente strumentali all'esercizio delle facoltà difensive dell'alloglotto: la traduzione anche di un atto che dovrebbe essere tradotto obbligatoriamente non può dipendere semplicemente dal nomen iuris del provvedimento, ma va accordata solo se e solo quando l'atto abbia una diretta e concreta incidenza sull'effettivo esercizio delle facoltà difensive dell'alloglotto.

L'alloglotto che lamenti la violazione delle sue prerogative difensive, per effetto della mancata traduzione del provvedimento adottato nei suoi confronti e della sequenza procedimentale che da tale atto trae origine, non si può semplicemente limitare a dolersi dell'omissione, ma, in coerenza con la natura generale a regime intermedio delle nullità, che, nella specie, vengono in rilievo, ha l'onere di indicare l'esistenza di un interesse a ricorrere, concreto, attuale e verificabile, non rilevando, in tal senso, la mera allegazione di un pregiudizio astratto o potenziale.

 

Coerte di Cassazione

sez. I penale, ud. 5 dicembre 2024 (dep. 4 febbraio 2025), n. 4408

Presidente Santalucia - Relatore Toriello

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 15 luglio 2024 il Giudice di pace di Pistoia ha condannato M.A. alla pena di € 5.000 di ammenda, «perché, quale cittadino straniero extracomunitario, faceva ingresso nel territorio dello Stato o comunque vi si tratteneva abusivamente in assenza del prescritto permesso di soggiorno. Fatto accertato in Pistoia il (OMISSIS)».

Ritenuta raggiunta la prova dell'elemento materiale e di quello soggettivo del reato, il giudice di pace respingeva la richiesta di proscioglimento per ne bis in idem avanzata dal difensore, rilevando che «egli non ha mai riportato condanne ai sensi dell'art. 10 bis d.lgs. 286/1998, infatti la prima sentenza n. 362/2021 è in realtà una sentenza di assoluzione perché l'imputato al momento della verifica occorsa per i fatti a lui contestati era regolarmente presente in Italia. Quanto alla sentenza n. 1376/2022 invece si ha una sentenza ex art. 34 d.lgs. 274/2000 in quanto il fatto di particolare tenuità ha convinto il giudice ad emettere sentenza di non doversi procedere per fatti analoghi occorsi fino al 4 agosto 2019»: dunque, i fatti contestati erano riferiti a tempi diversi, erano stati commessi in luoghi diversi, né poteva invocarsi il ne bis in idem processuale ex art. 649 cod. proc. pen., «dal momento che l'imputato è sempre stato o assolto oppure vi è stata sentenza di NDP per fatti precedenti».

2. Il difensore di fiducia del M.A., Avv. GO,  ha impugnato la sentenza in oggetto, articolando due motivi con i quali deduce violazione di legge e vizio di motivazione.

Con il primo motivo si duole dell'omessa traduzione della sentenza in favore dell'imputato alloglotto. Evidenzia che, a seguito dell'esercizio dell'azione penale, il giudice di pace aveva dichiarato nullo il decreto di citazione a giudizio proprio a cagione dell'omessa traduzione degli atti nella lingua parlata dal M.A.: il nuovo decreto, emesso in data 23 marzo 2023, era stato, dunque, tradotto prima della sua notifica al M.A., mentre non si era proceduto ad analogo adempimento in relazione alla sentenza.

Con il secondo motivo si duole dell'omesso proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 649 cod. proc. pen. Rappresenta di aver documentato che il M.A. era già stato tratto a giudizio nell'ambito di due distinti procedimenti per il medesimo reato oggi in contestazione: con sentenza n. 362/2021, irrevocabile il 16 settembre 2021, egli era stato assolto dal reato accertato in data 15 ottobre 2016 in Firenze; con sentenza n. 1376/2022, irrevocabile il 21 luglio 2023, veniva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti ai sensi dell'art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in relazione al reato accertato in data 4 agosto 2019 in Firenze. Evidenzia che le pregresse sentenze hanno riguardato il «medesimo fatto», «identico in tutti i suoi elementi e nelle condizioni di tempo, luogo (territorio nazionale) e persona», puntualizzando che «la Suprema Corte ha svariate volte affermato che la condotta del reato in esame di “trattenimento / soggiorno” sul territorio nazionale integra un reato di natura permanente», e che nessuno sbarramento alla operatività del divieto di bis in idem può esserci in presenza di una contestazione «aperta», come quella elevata nei confronti del M.A., avendo il pubblico ministero indicato nel capo d'imputazione solo la data dell'accertamento, e, dunque, la data iniziale della permanenza, sul presupposto che la permanenza fosse ancora in corso al momento dell'esercizio dell'azione penale.

3. Il Sostituto Procuratore generale ha chiesto annullarsi senza rinvio la sentenza impugnata, ritenendo fondato ed assorbente il primo motivo di ricorso, alla luce del principio di diritto statuito, in tema di ordinanze di custodia cautelare, da Sez. U, n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, Rv. 286356 - 01.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

2. Quanto alla mancata traduzione della sentenza nella lingua nota all'imputato alloglotto, va rilevato che la più avveduta dottrina qualifica il diritto all'assistenza linguistica come un meta-diritto, ossia un diritto strumentale al pieno esercizio di ogni altro diritto di difesa, poiché, senza la comprensione della vicenda processuale e dei suoi atti essenziali, l'alloglotto non può consapevolmente partecipare al procedimento: la circostanza che la first EU fair trial law sia stata la direttiva 2010/64/UE, sul diritto alla interpretazione ed alla traduzione nei procedimenti penali, rivela inequivocabilmente che la lingua è una delle fondamenta sulle quali è stato edificato lo spazio di giustizia europeo.

Le parti che non parlano la lingua dello Stato nel quale il procedimento si celebra devono, dunque, esser messe nelle condizioni di conoscere e di comprendere gli atti ed i provvedimenti, e di partecipare esprimendosi nella propria lingua: ciò garantisce agli alloglotti condizioni di parità nell'accesso alla giustizia, e, così, il più ampio diritto ad un processo equo, in armonia con quanto sancito in via generale dall'art. 3 del Trattato dell'Unione europea (l'Unione «rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica») e dagli articoli 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione (che vietano ogni discriminazione fondata sulla diversità linguistica), e con quanto prescritto, a proposito del procedimento penale, dagli artt. 5, par. 2, e 6, par. 3, lettere a) ed e), della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che riconoscono al soggetto arrestato o comunque accusato il diritto ad essere informato nella lingua che egli comprende, nel più breve tempo possibile, «dei motivi dell'arresto e di ogni accusa formulata a suo carico» (art. 5), e «della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta» (art. 6, lett. a), garantendogli, altresì, il diritto di «farsi assistere gratuitamente da un interprete», se non comprende o non parla la lingua utilizzata in udienza (art. 6, lett. e).

La giurisprudenza evolutiva delle Corti apicali ha completato il percorso di attualizzazione del generale principio di tutela linguistica, estrapolando diversi corollari dal canone base del diritto all'interprete, così da conferire sempre più concreta effettività al valore della consapevole partecipazione dell'alloglotto al procedimento: si sono, così, progressivamente affermati il diritto all'assistenza linguistica anche durante la fase delle indagini preliminari (Corte EDU, Sez. III, 5 gennaio 2010, Diallo c. Svezia); la gratuità dei diritti di traduzione ed interpretariato (Corte EDU, 28 novembre 1978, Luedicke, Belkacem e Koç c. Germania); l'estensione del diritto di assistenza anche a chi - pur conoscendo i tratti elementari dell'idioma - abbia un livello linguistico non utile alla comprensione del «significato legale» del documento (Corte EDU, GC, 28 giugno 2005, Hermi c. Italia).

Per quanto più specificamente attiene al diritto alla traduzione, si osserva che, nonostante le citate disposizioni della Convenzione europea facciano riferimento alla sola interpretazione, il diritto all'assistenza linguistica non è stato mai circoscritto alle sole dichiarazioni orali rese in udienza, ma è stato riconosciuto anche in relazione ai documenti scritti: sin dall'appena citata Corte EDU, 28 novembre 1978, Luedicke, Belkacem e Koç c. Germania (cfr. § 48), si è sostenuto che l'imputato alloglotto ha diritto all'assistenza gratuita di un interprete affinché gli vengano tradotti o quanto meno interpretati tutti gli atti del processo avviato nei suoi confronti dei quali, per beneficiare di un processo equo, egli debba cogliere il senso (in termini, più di recente, Corte EDU, Sez. III, 24 febbraio 2005, Husain c. Italia).

Accanto al diritto all'interpretazione vi è, dunque, un diritto alla traduzione che, tuttavia, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, non investe tutte le prove raccolte e tutti i documenti acquisiti e formati nel corso del procedimento, ma riguarda esclusivamente gli atti funzionali al consapevole esercizio del diritto di difesa: deve, dunque, senz'altro essere tradotto ogni atto che l'imputato debba conoscere per comprendere l'accusa formulata nei suoi confronti (ad esempio l'indictment, ossia l'atto contenente l'accusa, che il prevenuto deve conoscere analiticamente, al fine di preparare in modo adeguato la sua difesa), ovvero per difendersi presentando al giudice la propria versione dei fatti.

Conseguenzialmente, in relazione alle sentenze la Corte EDU ha sposato una linea ermeneutica restrittiva: il diritto alla traduzione non è stato affermato sempre e comunque, essendosi valutata caso per caso l'effettiva necessità di attivare l'assistenza linguistica, alla luce delle peculiari caratteristiche della concreta fattispecie; ad esempio, in Corte EDU, Sez. III, 16 luglio 2009, Baka c. Romania, nonostante la mancata traduzione della sentenza di condanna, si è ritenuto che non vi fosse stata alcuna lesione dell'art. 6, par. 3, lett. e) della Convenzione, poiché il condannato non aveva mai eccepito nel corso del processo di non aver compreso il contenuto della decisione (cfr. § 73); in Corte EDU, 19 dicembre 1989, Kamasinski c. Austria, si è ritenuto che, a seguito della semplice spiegazione orale della sentenza, l'imputato era stato messo nelle condizioni di poterla consapevolmente impugnare, anche perché coadiuvato dal difensore (cfr. § 85).

Quest'ultima pronuncia fa parte del nutritissimo filone giurisprudenziale della Corte di Strasburgo secondo il quale la traduzione può essere validamente surrogata dall'interpretazione orale: ad esempio, nel citato procedimento Husain c. Italia, la Corte ha statuito che «l'assistenza linguistica orale può soddisfare i requisiti della Convenzione», a condizione che consenta all'imputato di essere a conoscenza del procedimento a suo carico e di difendersi sottoponendo al giudice la sua versione dei fatti; analogo principio è stato affermato in Corte EDU, Sez. III, 11 gennaio 2011, Hacioglu c. Romania, in Corte EDU, Sez. III, 5 gennaio 2010, Diallo c. Svezia, ed in Corte EDU, Sez. IV, 24 febbraio 2009, Protopapa c. Turchia.

Può, dunque, rilevarsi che in plurime decisioni la Corte EDU ha statuito che la mancata traduzione scritta di una sentenza non rende di per sé il procedimento unfair.

2.1. I principi fin qui illustrati hanno trovato consacrazione negli artt. 3 e 4 della direttiva 2010/64/UE, e nell'art. 7 della direttiva 2012/29/UE, che hanno ribadito l'essenzialità dei diritti alla interpretazione ed alla traduzione, che si atteggiano quali “micro-diritti” sulla cui contestuale interazione poggia le proprie fondamenta il “macro-diritto” all'assistenza linguistica.

La direttiva 2010/64/UE trova applicazione, secondo quanto indicato dal suo primo articolo, al procedimento penale ed al procedimento di esecuzione del mandato di arresto europeo; essa non contiene una vera e propria definizione di “procedimento penale”, ma stabilisce, nel circoscrivere il proprio ambito di operatività, che il diritto all'interpretazione ed alla traduzione «si applica alle persone che siano messe a conoscenza dalle autorità competenti di uno Stato membro, mediante notifica ufficiale o in altro modo, di essere indagate o imputate per un reato, fino alla conclusione del procedimento, vale a dire fino alla decisione definitiva che stabilisce se abbiano commesso il reato, inclusi, se del caso, l'irrogazione della pena e l'esaurimento delle istanze in corso» (art. 1, par. 2): dunque, il diritto all'assistenza linguistica sorge sin dal momento in cui la persona ha notizia dell'esistenza del procedimento penale instaurato nei suoi confronti, e permane fino alla definitività della decisione sulla fondatezza dell'accusa.

Per ciò che concerne il diritto alla traduzione, l'art. 3 della direttiva sancisce l'obbligo per gli Stati membri di assicurare all'indagato ed all'imputato alloglotto, «entro un periodo di tempo ragionevole, una traduzione scritta di tutti i documenti che sono fondamentali per garantire che [gli imputati] siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa e per tutelare l'equità del procedimento»; tra i «documenti fondamentali» che devono sempre essere tradotti, individuati direttamente dal par. 2 del medesimo art. 3, vi sono, senza ulteriori specificazioni, «le sentenze». Gli ulteriori paragrafi dell'art. 3 della direttiva introducono due significativi temperamenti all'obbligo della traduzione dei «documenti fondamentali»: il primo, delineato dal par. 4, ha natura quantitativa («non è necessario tradurre i passaggi di documenti fondamentali che non siano rilevanti allo scopo di consentire agli indagati o agli imputati di conoscere le accuse a loro carico»), e conferma la strettissima correlazione tra la traduzione e l'esercizio dei diritti di difesa; il secondo, dettato dal par. 7, ha natura qualitativa («In deroga alle norme generali di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 6, è possibile fornire una traduzione orale o un riassunto orale di documenti fondamentali, anziché una traduzione scritta, a condizione che tale traduzione orale o riassunto orale non pregiudichi l'equità del procedimento»), prevedendo espressamente la possibilità di sostituire la traduzione scritta del documento fondamentale con forme immediate di traduzione orale, completa (la cd. sight translation, che investe l'intero atto), ovvero parziale (la cd. summary interpretation, riassunto delle parti essenziali dell'atto).

La direttiva 2012/29/UE ha esteso alle vittime del reato la tutela linguistica già accordata agli indagati ed agli imputati, prevedendo, al terzo paragrafo dell'art. 7, che «Gli Stati membri assicurano che alla vittima che non comprende o non parla la lingua del procedimento penale in questione sia fornita [..] previa richiesta, la traduzione delle informazioni essenziali affinché possa esercitare i suoi diritti nel procedimento penale in una lingua da essa compresa, gratuitamente, nella misura in cui tali informazioni siano rese accessibili alla vittima. Le traduzioni di tali informazioni comprendono almeno la decisione che mette fine al procedimento penale relativo al reato da essa subito e, previa richiesta della vittima, la motivazione o una breve sintesi della motivazione della decisione, eccetto il caso di una decisione della giuria o di una decisione le cui motivazioni siano riservate, nel qual caso le stesse non sono fornite in base al diritto nazionale»: dunque, una previsione per un verso più ampia di quella contenuta nella direttiva del 2010 - poiché tra i provvedimenti che l'alloglotto può conoscere nella propria lingua rientrano non solo le sentenze, ma anche decreti ed ordinanze di archiviazione, che sono certamente «decisioni che mettono fine al procedimento» - e per altro verso più limitata, poiché il diritto alla traduzione è subordinato alla richiesta dell'interessato e può essere circoscritto alla sola decisione, senza ricomprenderne, se non in via sintetica, le motivazioni.

Anche per il diritto alla traduzione della vittima del reato sono previsti i medesimi temperamenti già innanzi analizzati, poiché il sesto paragrafo dell'art. 7 prescrive che «in deroga ai paragrafi 1 e 3, è possibile fornire una traduzione orale o un riassunto orale di documenti fondamentali, anziché una traduzione scritta, a condizione che tale traduzione orale o riassunto orale non pregiudichi l'equità del procedimento».

2.2. Nel nostro ordinamento, la riformulazione del terzo comma dell'art. 111 Cost., ed i decreti legislativi che hanno dato attuazione alle direttive di Stoccolma (d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32; d.lgs. 23 giugno 2016, n. 129), hanno scardinato il tradizionale impianto normativo basato sull'esclusività dell'uso della lingua nazionale.

Per quanto più direttamente concerne l'aspetto della traduzione degli atti, il sistema introdotto dai citati testi normativi ha natura binaria: per un verso, individua in termini tassativi gli atti a traduzione obbligatoria (art. 143, comma 2, cod. proc. pen.), con una elencazione certamente più ampia di quella contenuta nell'art. 3, par. 2, della direttiva 2010/64/UE; per altro verso, prevede che il giudice, d'ufficio o accogliendo la richiesta della parte, possa disporre «la traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico» (art. 143, comma 3, cod. proc. pen.), e riconosce alla persona offesa il diritto alla traduzione scritta, orale o per riassunto «di atti, o parte degli stessi, che contengono informazioni utili all'esercizio» dei suoi diritti (art. 143-bis, comma 4, cod. proc. pen.).

Il quadro normativo è completato dall'art. 51-bis disp. att. cod. proc. pen., che, al comma 2, consente all'autorità giudiziaria - in presenza di «particolari ragioni di urgenza» che impediscano di «avere prontamente una traduzione scritta» - di disporre con decreto motivato la traduzione orale, anche in forma riassuntiva, con contestuale riproduzione fonografica, degli atti a traduzione obbligatoria, a condizione che non vi sia pregiudizio per il diritto di difesa dell'imputato, e, al comma 3, prevede che l'imputato possa, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, consapevolmente ed espressamente rinunciare (non all'interpretazione, ma solo) alla traduzione scritta, che, in tali casi, verrà comunque surrogata da una traduzione orale, anche in forma riassuntiva, che dovrà essere fono registrata (di guisa che qualità e correttezza della traduzione siano documentate e sempre suscettibili di controllo).

Il nuovo impianto normativo riconosce, dunque, espressamente il diritto dell'imputato alla traduzione scritta dei principali atti del procedimento, da effettuarsi «entro un termine congruo tale da consentire l'esercizio dei diritti e della facoltà della difesa» (art. 143, comma 2, cod. proc. pen.), ed annovera tra tali atti le sentenze.

La formulazione della norma sembrerebbe configurare un diritto assoluto alla traduzione scritta degli atti elencati dal capoverso dell'art. 143 cod. proc. pen., privando l'autorità procedente di ogni discrezionalità, tanto in merito all'an, quanto in merito all'estensione della traduzione: se ne dovrebbe, dunque, inferire che vi è un obbligo di tradurre per intero ogni sentenza, di condanna o di assoluzione, attesa la formula generica, e dunque potenzialmente omnicomprensiva, utilizzata dal legislatore, ed atteso che la possibilità di limitare la traduzione alle parti del provvedimento funzionali all'esercizio dei diritti di difesa è stata prevista solo per gli atti diversi da quelli menzionati dall'art. 143, comma 2, cod. proc. pen.

Occorre, tuttavia, considerare che tanto le fonti sovranazionali, quanto le disposizioni del nostro ordinamento prefigurano un necessario nesso di strumentalità tra l'assistenza linguistica ed i diritti della difesa: l'art. 3 della direttiva 2010/64/UE, nella parte in cui riconosce il diritto alla traduzione solo in relazione ai documenti che possano ritenersi «fondamentali» per garantire che gli indagati o imputati alloglotti «siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa», e per «tutelare l'equità del procedimento»; l'art. 143, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prescrive che la traduzione venga effettuata «entro un termine congruo tale da consentire l'esercizio dei diritti e delle facoltà della difesa»; l'art. 143-bis, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui limita il diritto alla traduzione della persona offesa a quegli atti che «contengono informazioni utili all'esercizio dei suoi diritti».

Il tenore testuale dell'art. 143 cod. proc. pen. lascia, dunque, chiaramente intendere che la traduzione scritta non viene eseguita per soddisfare una mera esigenza di conoscenza, ma è strumentale all'«esercizio dei diritti e delle facoltà della difesa»: ove così non fosse, non si spiegherebbe perché sia stata resa obbligatoria solo in relazione ad alcuni atti del procedimento, né perché sia stata prevista solo a favore dell'imputato, e non anche del condannato; si tratta, peraltro, di conclusioni perfettamente sovrapponibili a quelle - alle quali si è fatto cenno in precedenza - delle pronunce delle Corti sovranazionali, che hanno riconosciuto la massima espansione del diritto all'assistenza linguistica nei soli casi in cui la traduzione serva a mettere l'imputato nelle condizioni di conoscere l'accusa formulata nei suoi confronti onde difendersi efficacemente.

Ed allora, poiché non sarebbe concepibile un illimitato diritto alla traduzione di tutti i provvedimenti adottati e di tutti i documenti acquisiti nel corso del procedimento - che frustrerebbe immotivatamente esigenze di celerità, di efficienza e di contenimento dei costi, delle quali occorre certamente tenere conto -, appare ragionevole, oltre che perfettamente coerente con l'intentio legis, ritenere la massima espansione di quel diritto nei soli casi nei quali l'atto o il documento da tradurre siano effettivamente strumentali all'esercizio delle facoltà difensive dell'alloglotto: la traduzione non può, dunque, dipendere semplicemente dal nomen iuris del provvedimento, ma va accordata solo se e solo quando l'atto abbia una diretta e concreta incidenza sull'effettivo esercizio delle facoltà difensive dell'alloglotto.

Queste considerazioni hanno, ad esempio, spinto questa Corte, all'indomani della modifica dell'art. 613 cod. proc. pen., a statuire che l'omessa traduzione della sentenza di appello non è causa di nullità, proprio in considerazione della funzione servente della traduzione rispetto alla facoltà riconosciuta dall'ordinamento di proporre impugnazione avverso l'atto da tradurre: in particolare, Sez. 5, n. 15056 del 11/03/2019, Nasim, Rv. 275103 - 01 ha statuito che «In tema di traduzione degli atti, in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa, l'omessa traduzione della sentenza di appello in lingua nota all'imputato alloglotta non integra di per sé causa di nullità della stessa, atteso che, dopo la modifica dell'art. 613 cod. proc. pen., ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, l'imputato non ha più facoltà di proporre personalmente ricorso per cassazione». Analogo principio è stato statuito da Sez. 5, n. 32878 del 05/02/2019, Molla, Rv. 277111 - 02, in relazione alle sentenze di applicazione della pena: «In tema di traduzione degli atti, in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa, l'omessa traduzione della sentenza di patteggiamento in lingua nota all'imputato alloglotta non integra di per sé causa di nullità della stessa, atteso che, dopo la modifica dell'art. 613 cod. proc. pen., ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, l'imputato non ha più facoltà di proporre personalmente ricorso per cassazione».

Si può, allora, ritenere che la traduzione di una sentenza che l'imputato alloglotto non può impugnare personalmente non incrementa né quantitativamente né qualitativamente i suoi diritti di difesa, e che nessuna concreta limitazione di quei diritti può realmente conseguire alla mancata traduzione: in sintonia con la giurisprudenza nazionale e sovranazionale, pare difficile argomentare che essa possa provocare una lesione dei diritti di difesa dell'alloglotto, che, comunque, mantiene il diritto di partecipare personalmente al giudizio con l'ausilio di un interprete, e gode continuativamente dell'assistenza tecnica del proprio difensore.

Queste conclusioni hanno, infine, trovato conferma nella più recente pronuncia del massimo consesso nomofilattico in materia: nelle motivazioni di Sez. U, n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, Rv. 286356 - 01, infatti, si è chiarito che l'alloglotto che lamenti la violazione delle sue prerogative difensive, per effetto della mancata traduzione del provvedimento adottato nei suoi confronti e della sequenza procedimentale che da tale atto trae origine, non si può semplicemente limitare «a dolersi dell'omissione, ma, in coerenza con la natura generale a regime intermedio delle nullità, che, nella specie, vengono in rilievo, ha l'onere di indicare l'esistenza di un interesse a ricorrere, concreto, attuale e verificabile, non rilevando, in tal senso, la mera allegazione di un pregiudizio astratto o potenziale».

Il principio è stato recentemente ribadito, negli stessi esatti termini, da Sez. 1, n. 44251 del 16/10/2024, Pllumaj, Rv. 287282 - 01, relativa ad un ricorso per cassazione ritualmente presentato dal difensore di fiducia di imputato alloglotto; la Corte ha dichiarato inammissibile il motivo con il quale si deduceva l'omessa traduzione della sentenza di appello, poiché il ricorrente non aveva dimostrato se ed in che misura la mancata tempestiva conoscenza personale della sentenza impugnata aveva influito sulle sue strategie difensive: in motivazione può leggersi che «L'interesse a dedurre una tale patologia processuale, infatti, sussiste soltanto se e in quanto il soggetto alloglotta abbia allegato di avere subito, in conseguenza della mancata traduzione del provvedimento di cui si controverte, tenuto conto della sequenza procedimentale nel quale si inserisce, un pregiudizio illegittimo. Sul punto, è opportuno richiamare Sez. 1, n. 13291 del 19/11/1998, Senneca, Rv. 211870 - 01, espressamente citata da Sez. U, n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, cit., secondo cui non si può prefigurare alcuna nullità dell'atto, laddove “sia solo l'imputato a dolersene, senza indicare un suo concreto e attuale interesse al riguardo, non avendo alcun valore la semplice allegazione di un pregiudizio del tutto astratto”. Si tratta, a ben vedere, di una conclusione imposta dalla giurisprudenza consolidata in tema di interesse a impugnare, risalente a Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693 - 01, secondo cui tale nozione deve essere ricostruita “in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un'utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo”».

2.3 In conclusione, quando, come nel caso di specie, venga in rilievo una sentenza avverso la quale l'unico rimedio esperibile è il ricorso per cassazione, l'omessa traduzione in favore dell'imputato alloglotto - in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa - non può di per sé sola integrare causa di nullità di una sentenza che, dopo la modifica dell'art. 613 cod. proc. pen., l'imputato non può più impugnare personalmente (lo ius postulandi, inteso come capacità di chiedere in giudizio e di sollecitare una risposta del giudice presentando atti, istanze e deduzioni, è invero riservato esclusivamente al difensore; pur mantenendo l'imputato la titolarità del diritto di ricorrere in cassazione in via del tutto autonoma rispetto al proprio difensore, è solo ed esclusivamente quest'ultimo, ai sensi dell'art. 613, comma 1, cod. proc. pen., il soggetto legittimato alla proposizione dell'atto di impugnazione: cfr., sul punto, le riflessioni sviluppate da Sez. U, n. 8914 del 21/12/2017, dep. 2018, Aiello, Rv. 272010 - 01, § 8).

Il principio, espresso tra le altre dalla già citata Sez. 5, n. 15056 del 11/03/2019, Nasim, Rv. 275103 - 01, è stato in epoca recente ribadito da Sez. 4, n. 41196 del 27/06/2024, El Mehdi, n.m., nelle cui motivazioni si illustra in maniera del tutto condivisibile che la questione dell'omessa traduzione assume aspetti peculiari quando venga in rilievo una sentenza di appello (identiche considerazioni valgono quando venga in rilievo, come nel caso di specie, una sentenza di primo grado non appellabile), «dovendosi tenere presente la modifica apportata all'art. 613 cod. proc. pen. dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, che ha soppresso la facoltà dell'imputato di proporre personalmente ricorso per cassazione. Per tale ragione, deve escludersi che essa determini - sic et simpliciter - la nullità della sentenza di appello. In tema di traduzione degli atti, invero, in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa, l'omessa traduzione della sentenza di appello in lingua nota all'imputato alloglotta non integra di per sé causa di nullità della stessa [..] Alla violazione dell'art. 143 cod. proc. pen. non sono infatti collegate nullità formali specifiche, sicché l'eventuale sanzione configurabile per il caso di inosservanza di tali disposizioni è esclusivamente quella prevista dall'art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., concernente la violazione delle disposizioni relative all'assistenza dell'imputato, per la quale tuttavia si richiede che una qualche effettiva lesione di tale diritto possa dirsi realizzata, in quanto si tratta di disposizioni volte ad assicurare l'effettività e la piena consapevolezza della partecipazione al giudizio e la possibilità della completa esplicazione del diritto di difesa, sicché quando queste si siano comunque realizzate non può dirsi sussistente alcuna violazione».

Poiché nel caso di specie il difensore dell'imputato, in forza del mandato ed esercitando i poteri conferitigli dal suo assistito (cfr., in proposito, le condivisibili riflessioni di Sez. 7, n. 30042 del 06/06/2023, Simon, Rv. 285097 - 01, secondo cui «L'omessa notifica all'imputato dell'estratto contumaciale della sentenza di appello non produce effetti sul ricorso per cassazione ritualmente proposto dal suo difensore di fiducia, dovendosi presumere che, in forza del rapporto tra patrocinatore e patrocinato, la sentenza impugnata sia stata dal primo portata a conoscenza di quest'ultimo e che l'esercizio del potere d'impugnazione sia stato tra i medesimi condiviso»), ha proposto tempestivo e rituale ricorso per cassazione, e non ha dedotto alcun particolare pregiudizio conseguente all'omessa traduzione della sentenza impugnata (pur potendo senz'altro farlo: cfr. Sez. 6, n. 3993 del 30/11/2023, dep. 2024, Dabo, Rv. 286113 - 02: «Il difensore dell'imputato alloglotto è legittimato ad eccepire l'omessa traduzione della sentenza emessa nei confronti dell'assistito, trattandosi di attività rientrante nella complessiva difesa tecnica a lui affidata e non invece di atto personalissimo riservato in esclusiva all'imputato»), il primo motivo di ricorso deve essere rigettato.

3. Quanto al secondo motivo, occorre premettere che l'art. 4 del Protocollo n. 7 C.E.D.U. prevede che «Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato»; nel diritto interno il divieto di un secondo giudizio, come conseguenza dell'irrevocabilità della sentenza e degli altri provvedimenti giurisdizionali ad essa assimilati, è previsto dall'art. 649 cod. proc. pen., ed è ricondotto dalla giurisprudenza costituzionale agli artt. 24 e 111 Cost. (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 501/2000, 284/2003, 129/2008 e 200/2016): la Corte costituzionale ha in particolare osservato – nelle motivazioni della sentenza da ultimo citata - che tra le garanzie processuali del “giusto processo” vi è il principio di civiltà giuridica espresso dal divieto di bis in idem, «grazie al quale giunge un tempo in cui, formatosi il giudicato, l'individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. In caso contrario, il contatto con l'apparato repressivo dello Stato, potenzialmente continuo, proietterebbe l'ombra della precarietà nel godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale, che si pone, invece, al centro dell'ordinamento costituzionale».

Il divieto di un secondo processo è, dunque, principio generale, avente valenza sostanziale e processuale, che, in quest'ultima dimensione, assicura l'esigenza di certezza del diritto e di economia dei giudizi, mentre nella sua accezione sostanziale mira a evitare l'irrazionale ingiustizia di una pluralità di condanne per il medesimo fatto: ne consegue che se il fatto storico oggetto del secondo giudizio coincide, in tutti gli elementi della triade “condotta - nesso causale - evento naturalistico”, con quello già accertato dalla sentenza definitiva, la prosecuzione del processo è preclusa dalla previsione dell'art. 649 cod. proc. pen.

Ciò posto, si deve rilevare che nel caso di specie non vi è identità tra i fatti in relazione ai quali il M.A. è stato giudicato.

Il presente giudizio è sorto a seguito dell'informativa di reato del 23 settembre 2020 della Questura di Pistoia, dalla cui lettura si evince che il M.A. si presentò presso quegli uffici per avere informazioni sulla sua istanza di rinnovo di permesso di soggiorno per motivi umanitari, riferendo di essere entrato nel territorio dello Stato il 7 dicembre 2015 da Agrigento; che egli era risultato essere titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari scaduto il 30 maggio 2019; che la richiesta di rinnovo presentata il 15 gennaio 2020 era stata rigettata dal Questore di Pistoia il 3 aprile 2020, con provvedimento notificatogli il 27 maggio 2020; che il M.A. aveva impugnato quel provvedimento il 29 giugno 2020 con ricorso presentato presso il Tribunale di Firenze, il cui esito, alla data del 23 settembre 2020, non era ancora noto.

Deve, allora, senz'altro affermarsi che l'oggetto dell'odierno giudizio non coincide con quello oggetto della sentenza emessa il 24 marzo 2021 dal giudice di pace di Firenze: ed invero, il M.A. fu in quella sede assolto con la formula «perché il fatto non sussiste» dal reato di cui all'art. 10 bis del d.lgs. n. 286 del 1998 accertato in Firenze il 15 ottobre 2016, poiché il suo difensore documentò che egli era titolare del permesso di soggiorno rilasciatogli in data 12 ottobre 2016.

Il fatto oggi contestato differisce, altresì, anche da quello oggetto della sentenza emessa il 28 novembre 2022 dal giudice di pace di Firenze, che fu accertato in Firenze il 4 agosto 2019, e, dunque, poco più di un anno e un mese prima: vale, sul punto ricordare che quello in contestazione è un reato permanente, la cui consumazione si protrae sino all'interruzione della condotta o sino alla sua legalizzazione, e che, come ha ripetutamente statuito questa Corte, «In tema di reato permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda la condotta delineata nell'imputazione ed accertata con sentenza, di condanna o di assoluzione, divenuta irrevocabile e non anche la prosecuzione della stessa condotta o la sua ripresa in epoca successiva, giacché si tratta di "fatto storico" diverso non coperto dal giudicato» (Sez. 3, n. 9988 del 19/12/2019, dep. 2020, La Pietra, Rv. 278534 - 01).

Anche il secondo motivo del ricorso va, dunque, rigettato, non essendovi stata violazione del divieto di bis in idem.

4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.