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Pena di morte? Estradizione sempre vietata (Cass. 39443/19)

26 settembre 2019, Cassazione penale

In presenza anche di una ragionevole probabilità ("fondato motivo") di non applicazione della pena di morte la estradizione va comunque negata: l’irrogazione deve essere esclusa con certezza, pena il contrsto con un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 11 giugno – 26 settembre 2019, n. 39443
Presidente Petruzzellis – Relatore Rosati

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza emessa il 18 febbraio 2019, ha dichiarato l’insussistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione del cittadino cinese X.C. , avanzata dal Governo della Repubblica popolare cinese per il reato di cui all’art. 382 c.p. in vigore in quello Stato.

La Corte ha motivato la propria decisione sul presupposto per cui, per tal specie di delitto, l’art. 383 c.p. cinese, per le ipotesi di maggiore gravità, prevede l’astratta possibilità di irrogare la pena di morte.

Pertanto, mancando nel Trattato bilaterale di estradizione tra l’Italia e la Cina del 7 ottobre 2010, reso esecutivo nel nostro ordinamento interno con la L. 24 settembre 2015, n. 161, una specifica disposizione regolatrice delle fattispecie in cui sia prevista l’applicazione della pena capitale, quel collegio ha ritenuto che dovesse trovare applicazione il disposto del comma 2 dell’art. 698 del nostro codice di rito, a tenor del quale, in siffatte ipotesi, l’estradizione può essere concessa soltanto in presenza di una "decisione irrevocabile" che, in concreto, abbia irrogato una pena diversa da quella.

Di conseguenza, non essendovi una pronuncia definitiva in tal senso e non essendo consentita al giudicante alcuna potestà discrezionale sul punto, la Corte ha ritenuto di dover disattendere la domanda di estradizione.

2. Ricorre per cassazione, per il tramite del difensore e procuratore speciale, il Direttore del Comitato di supervisione della città di (…), quale rappresentante dello Stato richiedente.

2.1. Con il primo motivo, deduce l’erronea applicazione dell’art. 698 c.p.p., comma 2, evidenziando, anzitutto, come l’autorità giudiziaria cinese, nella richiesta di estradizione, abbia espressamente affermato che l’estradando "sarebbe condannato alla reclusione invece dell’ergastolo o della morte".

Rileva, altresì, che il Trattato di estradizione tra i due Stati, all’art. 1, sancisce in via generale che essi, alle condizioni previste dalla disciplina pattizia e su domanda dell’altra parte, s’impegnano a dar corso all’estradizione, prevedendo che quest’ultima debba essere rifiutata soltanto qualora vi sia il "fondato motivo di ritenere che la persona richiesta, nello Stato richiedente, è stata o sarà sottoposta a tortura o altro trattamento o punizione crudele, inumana o umiliante, con riferimento al reato per il quale è domandata l’estradizione" (art. 3, lett. f). Pertanto, poiché l’art. 117 Cost., comma 1, come modificato dalla L. Cost. n. 3 del 2001, prevede l’obbligo per il legislatore interno di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, le norme pattizie debbono intendersi quali fonti di rango sub-costituzionale, prevalenti, di conseguenza, sulla legge ordinaria, e quindi sulla disciplina codicistica.

Ne riviene che, potendosi la pena di morte annoverare tra quei trattamenti o punizioni mai consentiti, il riferimento normativo pertinente non sarebbe rappresentato dal citato art. 698, comma 2, poiché recessivo rispetto al predetto art. 3, lett. f) della legge di ratifica del Trattato: con la conseguenza che il giudice dello Stato richiesto potrebbe - e dovrebbe - respingere la richiesta estradizionale soltanto se ed in quanto abbia "fondato motivo" di ritenere che detta pena sarà irrogata. Ipotesi, questa, che però, nel caso specifico, è scongiurata già dalla stessa richiesta avanzata dallo Stato cinese.

Inoltre, la difesa ricorrente, richiamando in dettaglio la richiesta estradizionale e la disciplina di riferimento del codice cinese, sottolinea che, stando all’imputazione concretamente formulata e secondo quanto formalmente rappresentato dalla competente autorità giudiziaria di quello Stato, allo X. non viene contestata una delle ipotesi di maggiore gravità, per le quali soltanto quella legislazione estera prevede la pena capitale, e tale contestazione, così come formulata, non può essere modificata.

2.2. In via subordinata, la difesa ricorrente chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 698, comma 2, per contrasto con gli artt. 3, 11, 80 e 117 Cost., nella parte in cui, in assenza di una decisione irrevocabile che abbia irrogato una pena diversa da quella capitale, impone al giudice italiano di respingere la domanda di estradizione, pur quando non vi sia fondato timore che l’estradando sia sottoposto a tortura o altro trattamento o punizione crudele, inumana o umiliante, nello Stato richiedente.

Interpretata in tal senso, così come ha fatto la Corte distrettuale con la sentenza impugnata, senza, quindi, possibilità di disapplicazione o di diversa interpretazione in presenza di norme pattizie di segno differente, detta disposizione codicistica - sostiene il difensore - si porrebbe in contrasto, essenzialmente, con gli artt. 11 e 117, Cost., per effetto dei quali, così come statuito dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, le norme interne di ratifica ed esecuzione dei trattati internazionali hanno rango intermedio tra le leggi costituzionali e quelle ordinarie.

Considerato in diritto

1. I motivi di ricorso sono entrambi manifestamente destituiti di fondamento giuridico.
2. Quanto al primo, erronea è la premessa dal quale esso muove: quella, ossia, della inclusione della pena di morte nelle nozioni di "altro trattamento o punizione crudele, inumana o umiliante", cui si riferisce l’art. 3, lett. f), del Trattato di estradizione tra Italia e Cina.
Trattandosi di ipotesi previste, in quel testo, in alternativa a quella della "tortura", suggestivamente ivi menzionata prima d’ogni altra, se ne deve coerentemente desumere che, al pari di questa, esse si riferiscano alle modalità esecutive di un pena, che dunque non può essere quella capitale.

Del resto, la diversa lettura proposta dalla difesa ricorrente, rendendo possibile - anzi, obbligatoria - l’estradizione in presenza anche di una ragionevole probabilità ("fondato motivo") di non applicazione della pena di morte, e non invece soltanto quando l’irrogazione di quest’ultima sia esclusa con certezza, porrebbe tale norma pattizia in contrasto con un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico, qual è quello sancito dall’art. 27 Cost., comma 4, precludendone perciò l’operatività.

Giova rammentare che - come ha puntualizzato la Corte costituzionale nella sentenza n. 223 del 27 giugno 1996, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del precedente testo dell’art. 698 c.p.p., comma 2, - "il divieto contenuto nell’art. 27 Cost., comma 4, ed i valori ad esso sottostanti, primo fra tutti il bene essenziale della vita, impongono, infatti, una garanzia assoluta"; aggiungendo che "l’assolutezza di tale garanzia costituzionale incide sull’esercizio delle potestà attribuite a tutti i soggetti pubblici dell’ordinamento repubblicano, e nella specie su quelle potestà attraverso cui si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziaria. Si che l’art. 27, comma 4, letto alla luce dell’art. 2 Cost., si pone quale essenziale parametro di valutazione della legittimità costituzionale della norma generale sulla concessione dell’estradizione e delle leggi che danno esecuzione a trattati internazionali di estradizione e di assistenza giudiziaria".

3. Mancando, dunque, una disciplina convenzionale della specifica materia, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto applicabile il disposto dell’art. 696 c.p.p., comma 2, che, in tale situazione, rinvia alle norme dello stesso codice.
Tra queste, rileva nello specifico l’art. 698, comma 2, cit., stando al quale, "se il fatto per il quale è domandata l’estradizione è punito con la pena di morte secondo la legge dello Stato estero, l’estradizione può essere concessa solo quando l’autorità giudiziaria accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di morte o, se questa è stata inflitta, è stata commutata in una pena diversa".
Nel dichiarare l’insussistenza delle condizioni per l’estradizione, dunque, la Corte d’appello di Milano ha correttamente applicato tale disposto normativo, che, in assenza di una decisione giudiziaria irrevocabile estera che escluda l’applicazione della pena di morte nel caso concreto, sottrae all’autorità giudiziaria italiana ogni margine di discrezionalità, secondo il preciso intento della L. 21 luglio 2016, n. 149, che tale norma codicistica ha cosi modificato.
In base all’originario suo testo, infatti, la norma in rassegna prevedeva che l’estradizione potesse essere concessa, laddove lo Stato estero avesse comunque fornito "assicurazioni ritenute sufficienti", sia dall’autorità giudiziaria che dal Ministro, sul fatto che la pena di morte, pur prevista dal quell’ordinamento, comunque non sarebbe stata applicata o, se già inflitta, non sarebbe stata eseguita.
Su tale disposizione era però intervenuta la censura della Corte costituzionale, che, con la già richiamata sentenza n. 223 del 1996, ne aveva ravvisato il contrasto con l’art. 27 Cost., comma 4, e con la necessità di una garanzia assoluta per il bene indispensabile della vita, dichiarandone perciò l’illegittimità.
4. Nessun rilievo può, dunque, assegnarsi alle indicazioni contenute nella richiesta di estradizione e valorizzate dal ricorrente, secondo le quali la condotta contestata allo X. non rientrerebbe tra quelle suscettibili di essere sanzionate, in concreto, con la pena di morte, pur astrattamente prevista per tal specie di delitto, nè alle rassicurazioni od agli impegni in tal senso assunti dalli autorità cinesi secondo il relativo diritto interno (art. 50, codice dell’estradizione cinese).
Già secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi all’indomani della citata sentenza demolitoria della Corte costituzionale, ma oggi superata anch’essa dal più rigoroso testo normativo attualmente vigente, l’autorità giudiziaria italiana non avrebbe potuto pronunciare sentenza favorevole alla estradizione sulla base di assicurazioni dello Stato richiedente che comunque non avessero consentito di pervenire a conclusioni di certezza circa la ineseguibilità di detta pena (Sez. 6, n. 33980 del 02/10/2006, Dvorkin, Rv. 234877; Sez. 6, n. 1117 del 03/03/2000, Song Zhicai, Rv. 220533).
Nello specifico, poi, tali rassicurazioni non appaiono nemmeno così certe.
Nella nota verbale del 20 agosto 2018, inoltrata dall’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese nella Repubblica di San Marino al Ministero della Giustizia italiano, si comunica, infatti, la decisione della Corte Suprema cinese per cui il tribunale di merito, laddove ritenesse X. colpevole, non lo condannerebbe a morte, ma non si esclude espressamente che i reati a lui contestati rientrino tra quelli astrattamente punibili con la pena capitale: ivi si legge, invero, soltanto che, "nel caso in cui... venga giudicato colpevole dal tribunale cinese ed i delitti commessi rientrino nella previsione della pena di morte secondo le leggi, il tribunale di merito non lo condannerà a morte".
5. Manifestamente infondata si presenta pure la questione di legittimità costituzionale proposta in via subordinata.
Con essa, infatti, si mira sostanzialmente a reintrodurre un impianto normativo identico a quello previsto dall’originario testo della norma oggetto di censura e dichiarato, esso sì, costituzionalmente illegittimo nel 1996.
Del resto, la novella del 2016 è intervenuta proprio per colmare il vuoto normativo conseguente a tale declaratoria d’incostituzionalità, traducendo in legge quella esigenza di garanzia assoluta al bene essenziale della vita, affermata dalla Corte costituzionale e che non tollera spazi di discrezionalità per le autorità statuali.
6. Il ricorso, dunque, è inammissibile.
Tanto comporta obbligatoriamente - ai sensi dell’art. 616 c.p.p. la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila Euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p

 

Corte di Cassazione

sez. VI Penale, sentenza 11 giugno – 26 settembre 2019, n. 39443

Presidente Petruzzellis – Relatore Rosati

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza emessa il 18 febbraio 2019, ha dichiarato l’insussistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione del cittadino cinese X.C. , avanzata dal Governo della Repubblica popolare cinese per il reato di cui all’art. 382 c.p. in vigore in quello Stato.

La Corte ha motivato la propria decisione sul presupposto per cui, per tal specie di delitto, l’art. 383 c.p. cinese, per le ipotesi di maggiore gravità, prevede l’astratta possibilità di irrogare la pena di morte.

Pertanto, mancando nel Trattato bilaterale di estradizione tra l’Italia e la Cina del 7 ottobre 2010, reso esecutivo nel nostro ordinamento interno con la L. 24 settembre 2015, n. 161, una specifica disposizione regolatrice delle fattispecie in cui sia prevista l’applicazione della pena capitale, quel collegio ha ritenuto che dovesse trovare applicazione il disposto del comma 2 dell’art. 698 del nostro codice di rito, a tenor del quale, in siffatte ipotesi, l’estradizione può essere concessa soltanto in presenza di una "decisione irrevocabile" che, in concreto, abbia irrogato una pena diversa da quella.

Di conseguenza, non essendovi una pronuncia definitiva in tal senso e non essendo consentita al giudicante alcuna potestà discrezionale sul punto, la Corte ha ritenuto di dover disattendere la domanda di estradizione.

2. Ricorre per cassazione, per il tramite del difensore e procuratore speciale, il Direttore del Comitato di supervisione della città di (…), quale rappresentante dello Stato richiedente.
2.1. Con il primo motivo, deduce l’erronea applicazione dell’art. 698 c.p.p., comma 2, evidenziando, anzitutto, come l’autorità giudiziaria cinese, nella richiesta di estradizione, abbia espressamente affermato che l’estradando "sarebbe condannato alla reclusione invece dell’ergastolo o della morte".
Rileva, altresì, che il Trattato di estradizione tra i due Stati, all’art. 1, sancisce in via generale che essi, alle condizioni previste dalla disciplina pattizia e su domanda dell’altra parte, s’impegnano a dar corso all’estradizione, prevedendo che quest’ultima debba essere rifiutata soltanto qualora vi sia il "fondato motivo di ritenere che la persona richiesta, nello Stato richiedente, è stata o sarà sottoposta a tortura o altro trattamento o punizione crudele, inumana o umiliante, con riferimento al reato per il quale è domandata l’estradizione" (art. 3, lett. f). Pertanto, poiché l’art. 117 Cost., comma 1, come modificato dalla L. Cost. n. 3 del 2001, prevede l’obbligo per il legislatore interno di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, le norme pattizie debbono intendersi quali fonti di rango sub-costituzionale, prevalenti, di conseguenza, sulla legge ordinaria, e quindi sulla disciplina codicistica.
Ne riviene che, potendosi la pena di morte annoverare tra quei trattamenti o punizioni mai consentiti, il riferimento normativo pertinente non sarebbe rappresentato dal citato art. 698, comma 2, poiché recessivo rispetto al predetto art. 3, lett. f) della legge di ratifica del Trattato: con la conseguenza che il giudice dello Stato richiesto potrebbe - e dovrebbe - respingere la richiesta estradizionale soltanto se ed in quanto abbia "fondato motivo" di ritenere che detta pena sarà irrogata. Ipotesi, questa, che però, nel caso specifico, è scongiurata già dalla stessa richiesta avanzata dallo Stato cinese.
Inoltre, la difesa ricorrente, richiamando in dettaglio la richiesta estradizionale e la disciplina di riferimento del codice cinese, sottolinea che, stando all’imputazione concretamente formulata e secondo quanto formalmente rappresentato dalla competente autorità giudiziaria di quello Stato, allo X. non viene contestata una delle ipotesi di maggiore gravità, per le quali soltanto quella legislazione estera prevede la pena capitale, e tale contestazione, così come formulata, non può essere modificata.
2.2. In via subordinata, la difesa ricorrente chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 698, comma 2, per contrasto con gli artt. 3, 11, 80 e 117 Cost., nella parte in cui, in assenza di una decisione irrevocabile che abbia irrogato una pena diversa da quella capitale, impone al giudice italiano di respingere la domanda di estradizione, pur quando non vi sia fondato timore che l’estradando sia sottoposto a tortura o altro trattamento o punizione crudele, inumana o umiliante, nello Stato richiedente.
Interpretata in tal senso, così come ha fatto la Corte distrettuale con la sentenza impugnata, senza, quindi, possibilità di disapplicazione o di diversa interpretazione in presenza di norme pattizie di segno differente, detta disposizione codicistica - sostiene il difensore - si porrebbe in contrasto, essenzialmente, con gli artt. 11 e 117, Cost., per effetto dei quali, così come statuito dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, le norme interne di ratifica ed esecuzione dei trattati internazionali hanno rango intermedio tra le leggi costituzionali e quelle ordinarie.

Considerato in diritto

1. I motivi di ricorso sono entrambi manifestamente destituiti di fondamento giuridico.

2. Quanto al primo, erronea è la premessa dal quale esso muove: quella, ossia, della inclusione della pena di morte nelle nozioni di "altro trattamento o punizione crudele, inumana o umiliante", cui si riferisce l’art. 3, lett. f), del Trattato di estradizione tra Italia e Cina.
Trattandosi di ipotesi previste, in quel testo, in alternativa a quella della "tortura", suggestivamente ivi menzionata prima d’ogni altra, se ne deve coerentemente desumere che, al pari di questa, esse si riferiscano alle modalità esecutive di un pena, che dunque non può essere quella capitale.

Del resto, la diversa lettura proposta dalla difesa ricorrente, rendendo possibile - anzi, obbligatoria - l’estradizione in presenza anche di una ragionevole probabilità ("fondato motivo") di non applicazione della pena di morte, e non invece soltanto quando l’irrogazione di quest’ultima sia esclusa con certezza, porrebbe tale norma pattizia in contrasto con un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico, qual è quello sancito dall’art. 27 Cost., comma 4, precludendone perciò l’operatività.

Giova rammentare che - come ha puntualizzato la Corte costituzionale nella sentenza n. 223 del 27 giugno 1996, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del precedente testo dell’art. 698 c.p.p., comma 2, - "il divieto contenuto nell’art. 27 Cost., comma 4, ed i valori ad esso sottostanti, primo fra tutti il bene essenziale della vita, impongono, infatti, una garanzia assoluta"; aggiungendo che "l’assolutezza di tale garanzia costituzionale incide sull’esercizio delle potestà attribuite a tutti i soggetti pubblici dell’ordinamento repubblicano, e nella specie su quelle potestà attraverso cui si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziaria. Si che l’art. 27, comma 4, letto alla luce dell’art. 2 Cost., si pone quale essenziale parametro di valutazione della legittimità costituzionale della norma generale sulla concessione dell’estradizione e delle leggi che danno esecuzione a trattati internazionali di estradizione e di assistenza giudiziaria".

3. Mancando, dunque, una disciplina convenzionale della specifica materia, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto applicabile il disposto dell’art. 696 c.p.p., comma 2, che, in tale situazione, rinvia alle norme dello stesso codice.

Tra queste, rileva nello specifico l’art. 698, comma 2, cit., stando al quale, "se il fatto per il quale è domandata l’estradizione è punito con la pena di morte secondo la legge dello Stato estero, l’estradizione può essere concessa solo quando l’autorità giudiziaria accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di morte o, se questa è stata inflitta, è stata commutata in una pena diversa".

Nel dichiarare l’insussistenza delle condizioni per l’estradizione, dunque, la Corte d’appello di Milano ha correttamente applicato tale disposto normativo, che, in assenza di una decisione giudiziaria irrevocabile estera che escluda l’applicazione della pena di morte nel caso concreto, sottrae all’autorità giudiziaria italiana ogni margine di discrezionalità, secondo il preciso intento della L. 21 luglio 2016, n. 149, che tale norma codicistica ha cosi modificato.

In base all’originario suo testo, infatti, la norma in rassegna prevedeva che l’estradizione potesse essere concessa, laddove lo Stato estero avesse comunque fornito "assicurazioni ritenute sufficienti", sia dall’autorità giudiziaria che dal Ministro, sul fatto che la pena di morte, pur prevista dal quell’ordinamento, comunque non sarebbe stata applicata o, se già inflitta, non sarebbe stata eseguita.

Su tale disposizione era però intervenuta la censura della Corte costituzionale, che, con la già richiamata sentenza n. 223 del 1996, ne aveva ravvisato il contrasto con l’art. 27 Cost., comma 4, e con la necessità di una garanzia assoluta per il bene indispensabile della vita, dichiarandone perciò l’illegittimità.
4. Nessun rilievo può, dunque, assegnarsi alle indicazioni contenute nella richiesta di estradizione e valorizzate dal ricorrente, secondo le quali la condotta contestata allo X. non rientrerebbe tra quelle suscettibili di essere sanzionate, in concreto, con la pena di morte, pur astrattamente prevista per tal specie di delitto, nè alle rassicurazioni od agli impegni in tal senso assunti dalli autorità cinesi secondo il relativo diritto interno (art. 50, codice dell’estradizione cinese).

Già secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi all’indomani della citata sentenza demolitoria della Corte costituzionale, ma oggi superata anch’essa dal più rigoroso testo normativo attualmente vigente, l’autorità giudiziaria italiana non avrebbe potuto pronunciare sentenza favorevole alla estradizione sulla base di assicurazioni dello Stato richiedente che comunque non avessero consentito di pervenire a conclusioni di certezza circa la ineseguibilità di detta pena (Sez. 6, n. 33980 del 02/10/2006, Dvorkin, Rv. 234877; Sez. 6, n. 1117 del 03/03/2000, Song Zhicai, Rv. 220533).

Nello specifico, poi, tali rassicurazioni non appaiono nemmeno così certe.

Nella nota verbale del 20 agosto 2018, inoltrata dall’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese nella Repubblica di San Marino al Ministero della Giustizia italiano, si comunica, infatti, la decisione della Corte Suprema cinese per cui il tribunale di merito, laddove ritenesse X. colpevole, non lo condannerebbe a morte, ma non si esclude espressamente che i reati a lui contestati rientrino tra quelli astrattamente punibili con la pena capitale: ivi si legge, invero, soltanto che, "nel caso in cui... venga giudicato colpevole dal tribunale cinese ed i delitti commessi rientrino nella previsione della pena di morte secondo le leggi, il tribunale di merito non lo condannerà a morte".

5. Manifestamente infondata si presenta pure la questione di legittimità costituzionale proposta in via subordinata.
Con essa, infatti, si mira sostanzialmente a reintrodurre un impianto normativo identico a quello previsto dall’originario testo della norma oggetto di censura e dichiarato, esso sì, costituzionalmente illegittimo nel 1996.

Del resto, la novella del 2016 è intervenuta proprio per colmare il vuoto normativo conseguente a tale declaratoria d’incostituzionalità, traducendo in legge quella esigenza di garanzia assoluta al bene essenziale della vita, affermata dalla Corte costituzionale e che non tollera spazi di discrezionalità per le autorità statuali.

6. Il ricorso, dunque, è inammissibile.

Tanto comporta obbligatoriamente - ai sensi dell’art. 616 c.p.p. la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila Euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p