Per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità del mobbing, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti, la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.
Corte di Cassazione
sez. Lavoro, sentenza 9 maggio – 27 novembre 2018, n. 30673
Presidente Napoletano – Relatore De Gregorio
Fatti di causa
La Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 758 in data sei giugno - sei agosto 2013, in parziale riforma dell’impugnata pronuncia, confermata del resto, accoglieva per quanto di ragione la domanda del lavoratore subordinato S.A. , terapista della riabilitazione, annullando la sanzione disciplinare applicata all’attore con lettera del 27 novembre 2009, condannando per l’effetto la società appellata - convenuta, PDGa. S.r.l., a restituire le somme trattenute all’appellante in virtù di detta sanzione.
Rigettava per il resto le ulteriori richieste del ricorrente, giudicate non provate, concernenti il preteso mobbing posto in essere ai suoi danni da parte datoriale. La Corte di Appello, quindi, compensava per un terzo tra le parti le spese di secondo grado, liquidate in complessivi Euro 4000,00 oltre i.v.a. e c.p.a., ponendo la residua quota dei due terzi a carico dell’appellante, in quanto rimasto soccombente su tutte le altre questioni proposte.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione S.A. con cinque motivi come da atto del 29 gennaio - tre febbraio 2014. La PDGA è rimasta intimata.
Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
I motivi del ricorso possono essere sintetizzati nei termini seguenti:
1) ex art. 360 n. 3 c.p.c. - violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in punto di valutazione delle prove testimoniali;
2) ex art. 360 n. 3 c.p.c. - violazione degli art. 115, 116, 191 e ss. c.p.c., nonché 2697 e 2727 c.c., 18 lettera c del dl. vo n. 81/2008 - violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame del punto "mansioni svolte dall’ex dipendente e loro lesività" - mancata nomina di c.t.u.;
3) ex art. 360 n. 5 c.p.c., per omesso esame del punto "contestazioni disciplinari impugnate con l’atto di appello" (lamenta che la Corte di merito avrebbe erroneamente considerato impugnata una sola delle sanzioni disciplinari, che si assumevano illegittimamente inflitte da parte convenuta, ossia quella del 28-10-2009, poi annullata con l’impugnata sentenza);
4) ex art. 360 n. 3 c.p.c., violazione degli art. 2697 e 2727 c.c., 115, 116 e 416 co. III c.p.c. - violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per omesso esame sul punto "esistenza del mobbing lavorativo".
I giudici di merito avevano erroneamente e/o illegittimamente sminuito la portata di tutte quelle circostanze emerse dall’istruttoria e dalla non specifica contestazione di alcuni passaggi del ricorso introduttivo, in grado di configurare comportamenti rientranti nella fattispecie del mobbing (in part., mutamenti dell’orario di lavoro, ritardati e anche mancati pagamenti di alcuni stipendi, mancata consegna di numerose buste paga, sorveglianza indebita sul posto di lavoro, applicazione di sanzioni disciplinari pretestuose, comportamenti vessatori del dott. M. - amm.re della società - e della figlia E. alla presenza di dipendenti e clienti, anche nell’assegnazione delle mansioni da svolgere - sistematicità delle condotte vessatorie attuate nel corso del tempo con intento persecutorio, finalizzate ad ottenere le dimissioni del dipendente non gradito, con conseguenti pregiudizi psicofisici da costui lamentati, però non riscontrati a causa della mancata ammissione di apposita c.t.u.); 5) ex art. 360 n. 3 c.p.c. - violazione degli artt. 91 e 92 dello stesso codice, nonché del d.m. 20-07-2012 n. 140 in punto di parziale condanna del ricorrente appellante alle spese del giudizio (regolamento delle spese senza alcun riferimento ai parametri utilizzati per la loro liquidazione, citando Cass. sez. un. civ. n. 17405 del 12/10/2012, secondo cui agli effetti dell’art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all’art. 9, secondo comma, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l’accezione omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata), contestando però la ripartizione delle spese effettuata con la sentenza impugnata... Non si comprendeva inoltre, né risultava sufficientemente motivata, la ripartizione effettuata sulla base di un criterio di soccombenza di un terzo.
Tanto premesso, il ricorso va disatteso in forza delle seguenti considerazioni.
Ed invero, quanto ai primi quattro motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, va rilevata in primo luogo la forte carenza di rituali allegazioni, occorrenti a norma dell’art. 366, co. 1 nn. 3 e 6 c.p.c., con conseguente difetto di autosufficienza.
In particolare, non risulta sufficientemente riprodotto quanto rappresentato da parte attrice con il ricorso introduttivo del giudizio, né con la conseguente memoria difensiva della società resistente in prime cure (sicché non è possibile nemmeno rilevare la pretesa mancanza di contestazioni da parte convenuta), né con l’atto d’appello e neanche quanto dichiarato dai vari testi escussi.
Per soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366, primo comma, n. 3), cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito.
Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. VI civ. - 3 n. 1926 del 03/02/2015. Conformi Cass. lav. n. 31082 del 28/12/2017, I civ. n. 19018 del 31/07/2017, II civ. n. 7825 del 04/04/2006, I civ. n. 12688 del 30/05/2007. V. parimenti Cass. I civ. n. 15952 del 17/07/2007, secondo cui il ricorso per cassazione - per il principio di autosufficienza - deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito.
Pertanto, il ricorrente che denuncia, sotto il profilo di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, l’omessa o erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l’onere di indicarne specificamente il contenuto.
Nella specie, quindi, è stato ritenuto inammissibile il motivo con il quale il ricorrente aveva, in parte, rivolto censure contro la sentenza di primo grado, anziché contro quella di appello, oggetto dell’impugnazione, e, in parte, prospettato l’errore d’interpretazione del giudice di appello senza cogliere la "ratio decidendi" della sentenza di secondo grado, avendo altresì sollecitato una diversa lettura delle risultanze documentali ad opera della Corte di legittimità, senza riportare in modo puntuale ed esauriente il contenuto degli atti asseritamente male o insufficientemente valutati dal giudice di merito. Conformi Cass. nn. 2527 del 2003, n. 12362 del 2006, n. 14751 e 14767 del 2007.
Cfr. ancora Cass. V civ. n. 14784 del 15/07/2015, secondo cui il ricorso per cassazione - per il principio di autosufficienza - deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicché il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione. Conforme, tra le altre, Cass. VI civ. - 1 n. 18679 del 27/07/2017.
V. pure Cass. III civ. n. 6440 del 19/03/2007: è privo di autosufficienza il ricorso fondato su motivo con il quale viene denunziato vizio di motivazione in ordine all’assunta prova testimoniale, omettendo di indicare nel ricorso i capitoli di prova non ammessi ed asseritamente concludenti e decisivi al fine di pervenire a soluzioni diverse da quelle raggiunte nell’impugnata sentenza).
Orbene, la sentenza qui impugnata nella parte espositiva ha sufficientemente riportato quanto dedotto e richiesto dall’attore S. con il ricorso introduttivo depositato il 21 marzo 2011 (mansioni di fisioterapista svolte da ricorrente, infortuni sul lavoro in data 8 novembre 2002 e 18 agosto 2004, nonché in itinere nel febbraio 2009, con relative conseguenze; adibizioni successive che si assumevano non compatibili con le condizioni di salute; ulteriori azioni lesive e persecutorie poste in essere da parte datoriale, tra cui cambiamenti arbitrari dell’orario di lavoro, ritardati pagamenti delle retribuzioni, comportamenti oltraggiosi ed offensivi, nonché a partire dalla fine dell’anno 2009 molteplici contestazioni e sanzioni disciplinari conservative; mobbing quindi da parte della convenuta, da cui erano derivati l’aggravamento delle patologie contratte a seguito dei menzionati infortuni, nonché l’insorgenza di nuovi stati morbosi; pretese risarcitorie per danno alla salute, alla dignità ed al decoro, personale e professionale, revoca delle sanzioni disciplinari), nonché nella parte motiva le ragioni della pronuncia di rigetto in data 19 aprile - 15 maggio 2012, poi appellata con atto depositato il 27 luglio successivo, in ordine alle pretese risarcitorie connesse al denunciato mobbing ed in relazione all’impugnativa delle menzionate sanzioni disciplinari, ed i quattro motivi posti a sostegno dell’interposto gravame, che in quanto connessi sono stati congiuntamente esaminati.
Di conseguenza, la Corte territoriale ha escluso il preteso mobbing, per cui occorreva la dimostrazione di una connessione teleologica delle varie azioni o condotte asseritamente lesive, poste in essere da parte datoriale con finalità vessatorie e persecutorie in danno del lavoratore, che in quanto attore ne era probatoriamente onerato, concordando con le valutazioni in proposito operate da primo giudicante, secondo cui le acquisite emergenze istruttorie, più che sufficientemente nello specifico indicate, inducevano a propendere per l’assegnazione di mansioni compatibili con le condizioni di salute del lavoratore, contrariamente all’assunto dell’appellante (cfr. in part. pgg. 11 - 13, laddove inoltre si evidenziava come con il ricorso introduttivo fosse stata prospettata una valenza persecutoria a condotte riguardanti la quasi totalità dei dipendenti, però in contrasto con la fattispecie ipotizzata, ossia del mobbing, richiedente invece condotte reiterate e mirate contro un solo soggetto, specialmente riguardo alla vigilanza per controllare l’attività dei lavoratori, ancorché demandata alla figlia dell’amministratore, a taluni ritardi nei pagamenti degli stipendi, all’istallazione di telecamere per controllare l’attività dei dipendenti emersa soltanto nel corso del giudizio).
Quanto, poi, alla modifica dell’orario di lavoro, la Corte di merito ne ha accertato in punto di fatto una sola circostanza, risalente al settembre 2005, peraltro giudicata irrilevante, trattandosi di full - time, non sussistendo quindi motivi ostativi alla legittima facoltà del datore di lavoro di operare unilateralmente modifiche.
Quanto alle asserite offese e ingiurie, la Corte d’Appello ha rilevato la totale assenza di prova.
In ordine alle reiterate contestazioni disciplinari, a conferma del preteso mobbing, la sentenza qui impugnata ha dato atto del fatto che il primo giudicante aveva escluso la pretesa condotta persecutoria, poiché tali iniziative (nove, dall’ottobre 2009 al dicembre 2009) erano risultate giustificate, essendo fondati gli addebiti, laddove poi l’appellante sul punto si era limitato a contestare la decisione unicamente in relazione alla contestazione del 28 ottobre 2009, di cui alla successiva sanzione in data 27 novembre, di dieci giorni di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con riferimento all’alterco avutosi tra lo S. ed il dr. M. , amma.re della società. E sul punto la Corte territoriale ha ritenuto, esclusivamente, fondato l’appello, però correttamente osservando che l’esclusione di ogni valenza disciplinare al citato episodio non comportava alcun mutamento in ordine alle precedenti argomentazioni in tema di mobbing, essendo evidente che l’infondatezza di una sola delle contestazioni disciplinari, tra quelle dedotte da parte attrice, non era idonea a dimostrare il complessivo comportamento vessatorio, dunque mobbizzante, denunciato dal lavoratore.
Infine, la Corte di merito ha ritenuto che, come si evinceva dalle varie argomentazioni della sentenza appellata, nonché dallo stesso ordine logico della relativa esposizioni, l’episodio del sinistro stradale, in cui rimase coinvolto il ricorrente con altra persona, e le connesse vanterie dello S. erano stati utilizzati dal primo giudice "ad colorandum", per trarre da episodi “esterni” una conferma della ritenuta inattendibilità delle ragioni addotte dall’attore, peraltro desunta dalle vicende “centrali” di causa e dal robusto corredo di argomentazioni delineate nella decisione del tribunale.
Pertanto, appare evidente come la Corte distrettuale abbiano esaminato e valutato tutte le risultanze istruttorie acquisite, nei limiti di quanto devolutole con l’appello, concludendo, motivatamente, in base ad un lineare percorso argomentativo, per l’insussistenza del mobbing lamentato dal ricorrente, nell’ambito del proprio esclusivo potere di apprezzamento degli elementi probatori raccolti, perciò insindacabile in sede di legittimità, a maggior ragione, poi, in base alla più rigorosa formulazione dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., secondo il testo attualmente vigente, qui ratione temporis applicabile in relazione alla sentenza di appello pronunciata e pubblicata nel corso dell’anno 2013 (cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. - che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio -, né in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. - dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante).
Va infatti ricordato (cfr. Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016) che in tema di ricorso per cassazione concernente asseriti vizi della motivazione della sentenza impugnata, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 - 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata.
In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007.
Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, numero 5), c.p.c., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 - 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove - salvo che non abbiano natura di prova legale-, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati.
Cass. n. 11892/16: la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre). Né può venire in rilievo la mancata ammissione di apposita c.t.u., che come è noto non costituisce mezzo di prova, essendo la sua ammissione riservata, d’ufficio, alla discrezionale valutazione del giudice di merito, il quale nella fattispecie di cui è processo non l’ha disposta, evidentemente, per la rilevata carenza di prova circa la sussistenza di indebiti comportamenti di parte datoriale, tali da aver determinato i danni lamentati, sicché in mancanza di idonei presupposti l’accertamento tecnico si rivelava palesemente superfluo.
Dunque, la Corte di merito si è pronunciata sul petitum della domanda, ma nei limiti consentiti dall’effetto devolutivo dell’appello, impugnazione, che come è noto, ha natura di revisio prioris instantiae, e non già di novum judicium (cfr. tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 3033 - 08/02/2013 e n. 28498 del 23/12/2005; da ultimo v. ancora Cass. III civ. n. 11797 del 9/06/2016: nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata, assumendo l’appellante sempre la veste di attore rispetto al giudizio d’appello e con essa l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale di attore o convenuto assunta nel giudizio di primo grado).
Nemmeno può dirsi violato il principio (v. Cass. lav. n. 26684 del 10/11/2017), secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti, la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.
Del tutto corretto, anche sotto il profilo sostanziale, in punto di diritto, appare la decisione qui impugnata, siccome aderente al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, condiviso da questo collegio, secondo cui per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009. Conformi Cass. lav. n. 898 del 17/01/2014.
In senso analogo, Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014, secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing devono ricorrere:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
V. altresì Cass. lav. n. 18836 del 07/08/2013: costituisce mobbing la condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo. Più recentemente, nei sensi secondo i quali è elemento costitutivo del mobbing, unitamente agli altri occorrenti, anche quello soggettivo, connotato dall’intento persecutorio, cfr. ancora Cass. lav., sentenza n. 9380 del 02/11/2016 - 12/04/2017, nonché Sez. 6 - L, ordinanza n. 14485 depositata il 9/6/2017).
Risulta, altresì, inconferente il quinto e ultimo motivo di ricorso, laddove nulla di specifico è stato dedotto per confutare il criterio della soccombenza (prevalente), in base al quale la Corte d’Appello, avendo accolto solo in minima parte l’impugnazione, per il resto respinta, compensava in ragione di un terzo le spese di secondo grado, per la restante quota invece poste a carico dello S. , all’uopo liquidandole complessivamente in 4000,00 Euro, oltre accessori. Né il ricorrente ha precisato in quali effettivi termini la liquidazione operata, in data 6 giugno 2013, dalla Corte distrettuale avrebbe violato il d.m. 20-07-2012 e la collegata normativa di legge, per cui non basta di certo la sola enunciazione del principio affermato dalla citata pronuncia di Cass. sez. un. n. 17405/12, principio che peraltro non sembra nemmeno incompatibile con l’anzidetta liquidazione, laddove d’altro canto il ricorrente non ha neppure allegato il deposito, a suo tempo, di alcuna nota specifica di parte. Ad ogni modo il vizio di motivazione, in proposito vagamente denunciato in quanto tale non è ammissibile in base al vigente art. 360 n. 5 c.p.c., né per altro verso in fatto ravvisabile. avendo la Corte torinese sufficientemente chiarito le ragioni dell’anzidetta parziale compensazione.
Infine, visto che la società convenuta è rimasta intimata e non ha depositato neppure alcuna memoria difensiva, né ha partecipato alla pubblica udienza, nonostante il rigetto del ricorso, nulla deve lo S. per le spese di questo giudizio. Allo stato, inoltre, non ricorrono i presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, poiché il ricorrente risulta ammesso la beneficio del patrocinio a spese dello Stato, in via provvisoria e anticipata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino il 17-09-2013, previa domanda in data 11-92013 (perciò in attesa di definitivo provvedimento al riguardo, in sede di liquidazione degli onorari spettati al procuratore speciale all’uopo nominato da parte della competente Corte di merito. Cfr., tra le altre, Cass. lav. n. 18523 del 02/09/2014: il ricorrente in cassazione ammesso al patrocinio a spese dello Stato non è tenuto, in caso di rigetto dell’impugnazione, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
V. per altro verso pure Cass. I civ. n. 22616 del 02/12/2004, secondo cui in tema di patrocinio a spese dello Stato, in base al regime di cui al D.Lgs. n. 113 del 2002, deve ritenersi che la competenza sull’istanza e sul procedimento di liquidazione degli onorari del difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetti al giudice di rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. I civ., sentenza n. 3122 del 16/02/2005 e n. 16986 del 25/07/2006. Cfr. pure Cass. III civ., ordinanza n. 11028 del 13/05/2009, secondo la quale la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetta, ai sensi dell’art. 83 del decreto n. 115/2002, come modificato dall’art. 3 della legge 24 febbraio 2005 n. 25, al giudice di rinvio, oppure a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione. Nel caso di cassazione e decisione nel merito, la competenza spetta a quello che sarebbe stato il giudice di rinvio ove non vi fosse stata decisione nel merito. Conforme Cass. I civ., ordinanza n. 23007 del 12/11/2010).
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma I quater d.P.R. n. 115/2002, dà atto allo stato della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.