Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, non può essere esteso fino alla giustificazione di atti o comportamenti che, pur estrinsecandosi in una esternazione delle proprie convinzioni, ledano tuttavia altri principi di rilevanza costituzionale ed i valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno ed internazionale.
La nozione di razzismo, rilevante ai fini della applicazione delle norme contro la discriminazione razziale - così come di quelle che vietano la riorganizzazione del partito fascista - indica tutte le dottrine che postulano l’esistenza di razze diverse superiori ed inferiori, le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione.
Perciò la lettera e la “ratio” delle due leggi si identificano e le comuni proibizioni sono dirette ad impedire che le ideologie contenenti il germe della sopraffazione o teorie quali il primato delle razze superiori, la purezza della razza, conducano ad aberranti discriminazioni e ne derivi il pericolo di odio, violenza, persecuzione. Non è perciò dubitabile che le ipotesi delittuose di incitamento all’odio razziale e di partecipazione ad associazione che abbiano come scopo tale incitamento, tutelano non solo i cittadini ma anche e soprattutto gli stranieri.
Organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, sono vietati indipendentemente dalla sussistenza della ulteriore eventuale finalità di eversione dell’ordine democratico (che è una aggravante).
Corte di Cassazione - sez. I
sentenza 28.2.2001 n. 341
relatore Dott. La Gioia
Sul ricorso proposto da: A. S. più altri
Svolgimento del processo
1. Gli attuali ricorrenti, insieme ad altri soggetti, sono stati giudicati per una serie di reati connessi con la attività di una associazione, denominata “Base autonoma” ed articolata in altri gruppi e movimenti, operante in Milano ed altre città italiane, avente lo scopo di difendere la razza bianca ed ariana e di contrastare l’ingresso in Italia di persone appartenenti ad altre razze.
I reati contestati, che ancora interessano avendo formato oggetto di condanna, sono quelli indicati nei capi sotto elencati:
A) reato previsto dall’art. 3 della legge 13.10.1975, n. 654 (ratifica della Convenzione internazionale di New York per la eliminazione delle forme di discriminazione razziale), sotto due profili:
1. aver diffuso, tramite volantini, periodici, libri, interviste e trasmissioni televisive, idee fondate sulla diversità e superiorità della razza ariana nei confronti di quella ebrea e di colore, incitando altresì alla discriminazione nei confronti delle persone delle razze suddette, nonché esaltando tematiche naziste, in particolare proponendo la lotta alla società multirazziale e l’espulsione dal territorio di persone immigrate di colore e commettendo atti di provocazione alla violenza ai danni delle suddette persone di razza ebrea;
2. aver promosso, diretto ovvero partecipato ad una associazione denominata “Skin heads d’Italia” o “Azione Skinhead”, operante in Milano ed avente tra i suoi scopi quello di incitare all’odio o alla discriminazione razziale, caratterizzata da una strutturazione gerarchica e paramilitare, tramite l’acquisto e la disponibilità di armi improprie, l’effettuazione di esercitazioni e la propensione allo scontro fisico con persone di diverse ideologie politico sociali; reato commesso in Milano e altrove e tuttora permanente;
C) reato previsto dall’art. 4 della legge 8.6.1952, n. 645 (norme contro la riorganizzazione del partito fascista), per avere pubblicamente esaltato esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo ed idee o metodi razzisti, in particolare scandendo “slogans” contro l’immigrazione ed inneggianti il fascismo, la segregazione razziale, Rudolf Hess, il Ku Klux Klan e frasi quali “lavoro agli italiani, botte agli africani”, “Violentano le donne, massacrano i bambini, Stato di Israele, banda di assassini”, “Duce, Duce”, “Sieg Heil”, ed esibendo il saluto romano; reato commesso in Milano il 1.2.1992;
G) detenzione illegale di tre bombolette spray contenenti gas tossico - irritanti ed una pistola ad aria compressa priva di matricola; reato commesso in Milano il 21.1.1993;
I) reato previsto dall’art. 697 c.p. per aver detenuto un pugnale a doppia lama, in Milano 21.1.1993;
L) reato previsto dall’art. 5 della legge 645/52 per aver compiuto manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, indossando giubbotti neri, inquadrandosi militarmente ed effettuando il saluto romano; reato commesso nel cimitero Maggiore di Milano il 25.4.1993;
N) reato previsto dall’art. 697 c.p. per aver detenuto un pugnale a doppia lama il 4.5.1993;
P) illegale detenzione di una pistola ad aria compressa priva di matricola, in Milano il 4.5.1993;
q) illegale detenzione di una bomba a mano tipo “ananas” costituente parte di arma da guerra in Cinisello Balsamo il 4.5.1993;
V) detenzione illegale di una penna lanciarazzi, in Milano il 7.7.1993;
Y) illegale detenzione di una pistola ad aria compressa, reato accertato in Vittuone il 7.7.1993;
2. La sentenza di primo grado pronunziata dal tribunale di Milano il 26.2.1997 ha ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 3 legge 654/75 sotto entrambi i profili dei capi A.1 e A.2, ed ha disatteso la eccezione di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 21 Cost. Sul punto ha osservato che il diritto di libera manifestazione del pensiero non può dilatarsi sino a comprendere la diffusione di idee ed altre condotte che neghino la personalità e la dignità dell’uomo, valori questi che sono affermati dalla Costituzione come principi fondamentali e non tollerano alcuna forma di gerarchia fondata sull’appartenenza ad un gruppo etnico, nazionalità o razza. Il tribunale ha anche precisato che la norma deve essere applicata nel suo testo originario perché le modifiche apportate con la legge 25.6.1993, n. 205, hanno introdotto nuove figure criminose ed hanno inasprito le pene, sicché la primitiva formulazione è più favorevole agli imputati.
In punto di fatto la sentenza del tribunale ha attribuito importanza fondamentale alle dichiarazioni testimoniali del dr. C. […], commissario presso la Digos di Milano, dalle quali è emersa la formale costituzione delle associazioni “Azione skinhead” e “Associazione degli scudi” in Milano, nonché il contenuto dei rispettivi statuti. Sono stati inoltre descritti i vari episodi indicati nei capi di imputazione.
3. Con sentenza di secondo grado pronunziata il 28.10.1998 la Corte d’appello di Milano ha sostanzialmente confermato l’impostazione della decisione di primo grado. Premesso che i fatti storici possono considerarsi pienamente accertati e che non è contestata l’esistenza della associazione “Azione skinhead” e la sua operatività negli anni dal 1991 al 1994, la sentenza ha esaminato in particolare la natura degli scopi perseguiti dal sodalizio e la partecipazione effettiva dei singoli imputati. A tal fine ha esaminato da un lato i documenti rinvenuti nella sede sociale, dall’altro lato le attività effettivamente svolte. Ha così accertato che tra gli scopi dell’associazione rientrava certamente quello di incitamento all’odio e alla discriminazione razziale, scopo dimostrato chiaramente dal programma, attività svolta dal sodalizio, dalle condotte degli aderenti. Sui concetti di “razza” e “razzismo” la sentenza ha richiamato la decisione di questa sezione del 30.9.1993 sul ricorso Freda, ricordando anche le recenti acquisizioni dei genetisti secondo cui la teoria di una differenza biologica tra le varie razze non avrebbe una base scientifica. Ha anche esaminato i rapporti tra razzismo e nazismo ed ha condiviso le affermazioni del tribunale nel senso che, pur non potendo essere equiparato il nazismo al razzismo, è tuttavia certo che nell’ambito del nazismo si sono attuati comportamenti chiaramente razzisti. Il regime nazional-socialista avrebbe infatti “teorizzato” il razzismo additando negli ebrei in quanto razza (non in quanto professanti la religione ebraica) la causa di ogni male e disagio, e sarebbe poi passato scientificamente dalla teoria alla prassi, prima favorendo ogni sorta di violenza e di discriminazione, poi annientando fisicamente oltre agli ebrei anche altri esseri ritenuti inferiori, come gli zingari.
Dopo queste premesse, la sentenza di appello ha valutato il contenuto degli articoli editoriali pubblicati sul periodico “Azione Skinhead” nelle parti in cui esaltano il regime nazista, criticano l’atteggiamento di tolleranza verso gli immigrati e il conseguente pericolo di imbastardimento della razza, rivalutano il principio del “sangue e suolo” come giustificazione della politica razzista ed antisemita del nazismo. Particolare attenzione è stata dedicata al testo dei manifesti e volantini distribuiti durante le manifestazioni pubbliche, nonché all’atteggiamento tenuto nel corso di manifestazioni e riunioni, escludendo la rilevanza di alcuni fatti considerati come lecita manifestazione del pensiero. In conclusione, per quello che ora interessa, con la sentenza di secondo grado sono state inflitte le pene di reclusione (da un minimo di 5 mesi ad un massimo di anni 1 e mesi 4 n.d.r.) e della multa [¼]. Tutte le pene suddette sono state sospese condizionalmente.
Nel dispositivo della sentenza manca la pronunzia sulle richieste della parte civile e nella motivazione si dà atto che la omissione deriva da “mera dimenticanza”.
4. Contro la sentenza di appello sono stati proposti i [¼] ricorsi per Cassazione.
[¼].
Motivi della decisione
1. Tutti i ricorrenti, ad eccezione del P., il quale non è stato condannato per il reato di cui al capo A, hanno riproposto la questione, già ampiamente trattata nel giudizio di merito, concernente la interpretazione ed applicazione della disciplina della discriminazione razziale contenuta nell’art. 3 della l. 13.10.1975, n. 654, con le successive modifiche, in ordine alle pene, introdotte con la legge 25.6.1993, n. 205. Sotto vari profili è stato sostenuto che la semplice manifestazione del pensiero in materia di razza, differenze razziali, superiorità di una razza rispetto alle altre, e così via, non può essere sanzionata penalmente in quanto rientrante in una elaborazione culturale di temi sociali e politici, già presenti nel pensiero di Fichte e poi fatti propri dal nazismo. In sostanza gli imputati si sarebbero limitati ad esporre e propagandare le loro idee approfondendo, di volta in volta, gli aspetti controversi dell’olocausto ed alla luce del cosiddetto “revisionismo storico” […], la stigmatizzazione della società multirazziale, la presa d’atto di un flusso migratorio pacifico, la valorizzazione delle tesi revisioniste […], le differenze razziali, la natura del nazismo, i crimini commessi dagli americani contro i prigionieri giapponesi nella seconda guerra mondiale, i caduti nelle foibe …], la evoluzione del principio “sangue e suolo” già presente nel pensiero di Fichte e poi elaborato dal nazismo […].
Sul punto questa Corte ricorda che già con sentenza 16.3.1994, n. 556, P.M. in processo Ferri, sono state affrontate le problematiche relative alla interpretazione ed applicazione delle norme contro la discriminazione razziale introdotte con la legge 13.10.1975, n. 654, in adempimento degli obblighi internazionali assunti con la ratifica della convenzione di New York del 17.3.1966. Tra l’altro è stato chiarito che le condotte incriminate confliggono con il principio costituzionale di uguaglianza e perciò è giustificata la repressione della diffusione di idee o comportamenti contrari ai valori tutelati dalla Costituzione.
Inoltre è stato precisato che le organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, sono vietati indipendentemente dalla sussistenza della ulteriore eventuale finalità di eversione dell’ordine democratico, finalità, quest’ultima che può costituire aggravante ai sensi dell’art. 1 co. 1 della legge 6.2.1980, n. 15, ma non è richiesta per la sussistenza del reato.
In questa occasione deve essere ribadito che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, non può essere esteso fino alla giustificazione di atti o comportamenti che, pur estrinsecandosi in una esternazione delle proprie convinzioni, ledano tuttavia altri principi di rilevanza costituzionale ed i valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno ed internazionale.
Le norme in tema di repressione delle forme di discriminazione razziale, oltre a dare attuazione ed esecuzione agli obblighi assunti verso la comunità internazionale con l’adesione alla Convenzione di New York, costituiscono anche applicazione del fondamentale principio di uguaglianza indicato nell’art. 13 della Costituzione, sicché è ampiamente giustificato il sacrificio del diritto di libera manifestazione del pensiero.
Pertanto le censure mosse in via generale contro la interpretazione e applicazione delle norme incriminatrici contenute nell’art. 3 della legge 13.10.1975, n. 654, sono manifestamente infondate.
Peraltro la sentenza di appello ha puntualmente esaminato e valutato il complesso degli elementi di fatto costituiti dal contenuto dei volantini distribuiti nel corso delle manifestazioni pubbliche o rinvenuti nelle sedi della associazione, dagli accertamenti di polizia in ordine alle persone che hanno partecipato alle varie manifestazioni, dal testo dell’atto costitutivo e dello statuto della associazione. Sicché la motivazione sullo svolgimento dell’attività di incitamento alla discriminazione ed all’odio razziale, sulla partecipazione degli imputati, sulla esistenza, natura e fini della associazione e sulla appartenenza ad essa dei singoli imputati è completa e logica. […].
3. Sempre con riferimento all’art. 3 della legge 654/75 è anche manifestamente infondata la questione di carattere generale, sollevata dall’avv. […] per […] e […] con riferimento alla configurabilità del reato nell’ipotesi in cui l’incitamento alla discriminazione razziale sia compiuto in danno di stranieri.
Secondo il ricorrente la Convenzione di New York definisce come discriminazione razziale solo quella commessa verso i cittadini dello Stato e non anche verso gli stranieri, sicché la legge italiana di ratifica ed esecuzione di detta Convenzione dovrebbe anch’essa essere interpretata nel senso che non sono punibili le eventuali istigazioni ad attuare un trattamento preferenziale dei cittadini rispetto agli stranieri.
La tesi contrasta con il chiaro dettato dell’art. 3 che vieta gli atti di discriminazione razziale, nazionale o religiosa indipendentemente dallo Stato di appartenenza delle persone eventualmente discriminate. Del resto, essendo inesistenti in Italia conflitti di natura etnica o razziale tra cittadini, è evidente che eventuali atti di discriminazione possono essere commessi soltanto nei confronti degli stranieri.
Perciò la legge che ha dato attuazione alla Convenzione internazionale e la ha inserita nel complessivo sistema giuridico retto dalla Costituzione repubblicana, ha equiparato la tutela dello straniero a quella del cittadino in omaggio al fondamentale principio di uguaglianza indicato dall’art. 3 della Carta costituzionale.
Già con sentenza 29.10.1993, n. 3791, Freda, questa Corte ha precisato che la nozione di razzismo, rilevante ai fini della applicazione delle norme contro la discriminazione razziale così come di quelle che vietano la riorganizzazione del partito fascista (l. 20.6.1952, n. 645) indica tutte le dottrine che postulano l’esistenza di razze diverse superiori ed inferiori, le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione.
Perciò la lettera e la “ratio” delle due leggi si identificano e le comuni proibizioni sono dirette ad impedire che le ideologie contenenti il germe della sopraffazione o teorie quali il primato delle razze superiori, la purezza della razza, conducano ad aberranti discriminazioni e ne derivi il pericolo di odio, violenza, persecuzione. Non è perciò dubitabile che le ipotesi delittuose di incitamento all’odio razziale e di partecipazione ad associazione che abbiano come scopo tale incitamento, tutelano non solo i cittadini ma anche e soprattutto gli stranieri.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.