Vi è il rischio di costante e sistematica violazione dei diritti umani in Ucraina, con casi di illegittima ed arbitraria detenzione, di detenzione in luoghi segreti e di torture e trattamenti inumani, specie nelle strutture di detenzione per i detenuti in fase cautelare, anche in ragione del conflitto armato non ancora pacificato.
Nel prpocedimento estradizionale verso l'Ucraina chi sia filo-russo, anche in forza dell'attuale conflitto russo-ucraino possa essere sottoposto, in sede di esecuzione della pena, a trattamenti disumani e degradanti, ovvero a forme di lavoro forzato, come pure danno conto i rapporti annuali di organizzazioni come "Amnesty International" e "Human Rights Watch".
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
(ud. 05/07/2018) 09-08-2018, n. 38421
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMMINO Matilde - Presidente -
Dott. IMPERIALI Luciano - rel. Consigliere -
Dott. VERGA Giovanna - Consigliere -
Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere -
Dott. TUTINELLI Vincenzo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.M. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 52/2016 CORTE APPELLO di VENEZIA, del 18/05/2017;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCIANO IMPERIALI;
sentite le conclusioni del PG Dott.ssa FILIPPI Paola, che ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito il difensore avv. VM, che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l'accoglimento.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 28/6/2016 questa Corte di Cassazione, sezione sesta, decidendo su ricorso proposto dall'interessato, annullava la sentenza con la quale la Corte d'appello di Venezia il 18 febbraio 2016 aveva dichiarato sussistenti le condizioni per accogliere la domanda di estradizione proposta dalla Repubblica di Ucraina nei confronti di D.M., in esecuzione del mandato di arresto provvisorio a fini estradizionali emesso in data 21 gennaio 2015 per il reato di traffico di stupefacenti ex artt. 305 e 307 c.p. ucraino. La Corte di Cassazione respingeva la deduzione difensiva relativa alla dedotta violazione dell'art. 700 c.p.p., art. 705 c.p.p., comma 1, per l'asserita insussistenza del requisito dei gravi indizi di colpevolezza, e riconosceva, invece, la fondatezza del motivo di ricorso inerente la violazione di legge ed il vizio della motivazione riguardo al rispetto dei diritti fondamentali ex art. 705 c.p.p., comma 2, lett. a) e c), per non avere la Corte d'appello valutato l'eventualità che il ricorrente, di nazionalità moldava ma di madre russa, ed egli stesso filo-russo, anche in forza dell'attuale conflitto russo-ucraino potesse essere sottoposto, in sede di esecuzione della pena, a trattamenti disumani e degradanti, ovvero a forme di lavoro forzato, come pure avevano dato conto i rapporti annuali di organizzazioni come "Amnesty International" e "Human Rights Watch". La Corte evidenziava la necessità di valutare l'eventuale sussistenza di tale rischio sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi ed opportunamente aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro richiedente e comprovanti la presenza o meno di carenze sia sistemiche, o comunque generalizzate, sia limitate ad alcuni gruppi di persone o a determinati centri di detenzione ed indicava come necessario oggetto di motivato apprezzamento da parte della Corte distrettuale tutte le risultanze offerte da fonti conoscitive qualificate, quali le decisioni giudiziarie internazionali, e in particolare quelle della Corte EDU, le decisioni giudiziarie dello Stato membro richiedente, nonchè le decisioni, le relazioni e gli altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d'Europa, ovvero da quelli appartenenti al sistema delle Nazioni Unite. Una volta accertata la sussistenza di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, in conseguenza delle condizioni generali di detenzione nello Stato richiedente, l'Autorità giudiziaria di esecuzione, anche attraverso il ricorso allo strumento della richiesta di informazioni complementari a norma dell'art. 13 della su citata Convenzione europea di estradizione del 1957, doveva svolgere un'indagine mirata, volta cioè a stabilire se, nel caso concreto, l'interessato alla consegna sarebbe sottoposto, o meno, ad un trattamento inumano o degradante.
Infine, si evidenziava la necessità di considerare il divieto di estradizione, ex art. 705 c.p.p., comma 2, qualora il fatto per il quale l'estradando sia chiamato a rispondere venga sanzionato nella legislazione dello Stato richiedente con la pena dei lavori forzati, considerato che tale previsione contrasta con l'art. 4, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - per il quale nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio - con l'art. 5, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E., oltre che con il rispetto dei diritti fondamentali richiesto in linea generale dalla disposizione di cui all'art. 698 c.p.p., comma 1: conseguentemente, annullando la sentenza impugnata, la Corte di Cassazione rinviava alla Corte territoriale anche per l'accertamento in merito alla effettiva tipologia della sanzione applicabile ed ai criteri di scelta tra le diverse possibili sanzioni.
2. Nel giudizio di rinvio la Corte di Appello di Venezia ha acquisito: a) un report delle sentenze emanate dalla Corte EDU tra il 2005 ed il 2016 e riguardanti violazioni dell'art. 3 CEDU da parte dell'Ucraina, in particolare con riferimento a torture da parte delle forze dell'ordine e condizioni di detenzione degradanti sia in fase cautelare che in fase esecutiva; b) 13 sentenze integrali Corte EDU degli anni 2015-2016 con riferimento a condizioni di detenzione inadeguate, trattamenti disumani o degradanti; c) 11 sentenze integrali della Corte EDU degli anni 2015-2016 con riferimento a maltrattamenti durante operazioni di polizia o interrogatori; d) Report 2015-2016 di Amnesty International riguardante torture e maltrattamenti in Ucraina; d) Report dell'ONU dal novembre 2015 al febbraio 2016 sulla condizione in Ucraina; e) Codice penale ucraino tradotto in inglese.
Con ordinanza in data 14/11/2016, quindi, la Corte territoriale ha rivolto alle Autorità Ucraine richiesta di informazioni in ordine: alle condizioni di detenzione preventiva alle quali sarà sottoposto l'interessato; alla durata massima della carcerazione preventiva; alle modalità dell'eventuale lavoro obbligatorio in esecuzione pena; all'istituto carcerario di destinazione; allo spazio intramurario minimo riservato; alle condizioni igieniche e di salubrità dell'alloggio; all'esistenza ed attuabilità di meccanismi di controllo nazionali ed internazionali sulle condizioni di detenzione. Ricevuta la risposta inviata dall'Ufficio del Procuratore Generale dell'Ucrran' a, con sentenza in data 18/5/2017 la Corte di Appello di Venezia ha dichiarato sussistenti le condizioni per accogliere la domanda di estradizione proposta nei confronti del D..
3. Anche avverso questa decisione è stato proposto ricorso per cassazione dal difensore dell'interessato, Avv. Vittorio Manfio, che ha dedotto i seguenti motivi di doglianza:
3.1. Violazione di legge per essere meramente apparenti le motivazioni del provvedimento impugnato, che si assume aver riportato le fonti acquisite, senza però operare poi una valutazione critica di queste, che non avevano dato rassicurazioni in ordine all'etnia russa del D. e si erano riservate di dare le richieste indicazioni in ordine al luogo di detenzione all'esito della condanna definitiva.
3.2. Vizio di motivazione e violazione dell'art. 627 c.p.p., comma 3 per non aver valutato la Corte territoriale, come richiesto da questa Corte di Cassazione, il rischio di condizioni di detenzione disumane o degradanti in considerazione dell'etnia russa, atteso anche che si riferisce essere stato documentato che D. esentato il 21/2/2015 istanza di riconoscimento dello status di rifugiato nei confronti della Moldavia. Ha dedotto a tal proposito il ricorrente che l'Autorità ucraina avrebbe fornito risposte solo parziale alle richieste della Corte veneta, atteso che queste non riguardavano in alcun modo i detenuti di nazionalità russa - nazionalità che non sarebbe in alcun modo considerata nella sentenza, pur riconoscendosi un "pericolo generico" di trattamenti degradanti - essendosi limitate tali informazioni ad assicurare il rispetto della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, elencando i riferimenti normativi del proprio ordinamento. La motivazione del provvedimento impugnato sarebbe, pertanto, contraddittoria, laddove da un lato riferisce di violazioni di diritti dei detenuti nella fase dell'accertamento delle loro responsabilità e, dall'altro, non considera che nel caso in esame si tratta proprio di un procedimento volto ad accertare la responsabilità dell'estradando.
3.3. Con l'ultimo motivo di ricorso, infine, è stata dedotta la violazione dell'art. 705 c.p.p., lett. a) e c) relativamente alle condizioni per rifiutare l'estradizione, in forza dell'attuale conflitto russo-ucraino, essendo il ricorrente filo-russo e figlio di madre russa e quindi in pericolo di essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti tWeete, pericolo escluso dalla sentenza impugnata invocando una pronuncia di questa Corte in data 8/4/2014, nel periodo prebellico, senza considerare le sentenze di condanna dell'Ucraina nel periodo successivo 2015-2016 per violazione dell'art. 3 della Carta EDU. Si contesta che la Corte territoriale non abbia valutato ogni elemento utile in tal senso, sia andata di contrario avviso a quanto ritenuto da questa Corte, proprio con riferimento ad un'estradizione per l'Ucraina, con sentenza sez. 6 n. 53741 del 17/11/2016, con riferimento alle fonti di Amnesty International più aggiornate.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e va accolto, in considerazione dei profili di contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, che non risulta essersi del tutto uniformata, nel giudizio di rinvio, alle indicazioni formulate da questa Corte con la sentenza del 28/6/2016.
2. Questa, infatti, anche in considerazione dell'attuale conflitto russo-ucraino, aveva prescritto di valutare la sussistenza del pericolo concreto che il ricorrente, soprattutto perchè di nazionalità moldava ma di madre russa, ed egli stesso filo-russo, potesse essere sottoposto in sede di esecuzione della pena a trattamenti disumani e degradanti, ovvero a forme di lavoro forzato, anche alla luce delle indicazioni emergenti dai rapporti di organizzazioni come "Amnesty International" e "Human Rights Watch", ed aveva indicato come necessario oggetto di motivato apprezzamento da parte della Corte distrettuale tutte le risultanze offerte da fonti conoscitive qualificate, quali le decisioni giudiziarie internazionali, e in particolare quelle della Corte EDU, le decisioni giudiziarie dello Stato membro richiedente, nonchè le decisioni, le relazioni e gli altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d'Europa, ovvero da quelli appartenenti al sistema delle Nazioni Unite. Una volta accertata la sussistenza di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, in conseguenza delle condizioni generali di detenzione nello Stato, la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare, poi, sulla base di un'indagine mirata, se l'interessato alla consegna sarebbe stato sottoposto ad un simile trattamento.
Tali valutazioni, invece, non risultano espresse in maniera coerente nella sentenza impugnata, alla luce degli elementi indicati nella sentenza di questa Corte, atteso che la Corte territoriale, pur avendo dato atto che le pronunce della C.E.D.U. riguardanti l'Ucraina acquisite evidenziavano "un rischio generico" legato alle condizioni di sovraffollamento carcerario o di scarso interesse alle condizioni di salute dei detenuti e, in particolare, alla violazione dei diritti dei detenuti nelle fasi dell'accertamento della loro responsabilità penale, essendo state segnalate perfino confessioni estorte, è giunta ad escludere un rischio concreto di trattamento disumano e degradante dell'interessato senza valutare, in primo luogo, che il D. deve essere ancora giudicato e, conseguentemente, senza valutare se possa essere sottoposto ai metodi di violenza finalizzati all'accertamento della sua responsabilità evidenziati nelle sentenze della CEDU (tra le quali Pomiliyako V. Ucraina sez. 5 del 3/3/2016, pur menzionata nella sentenza impugnata).
Come richiesto da questa Corte ai fini dell'apprezzamento della concretezza di tale rischio, invece, la valutazione doveva fondarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi ed opportunamente aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente e comprovanti la presenza di carenze sia sistemiche, o comunque generalizzate, sia limitate ad alcuni gruppi di persone o a determinati centri di detenzione (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu).
A tal fine, si era ricordata la necessità che costituiscano oggetto di motivato apprezzamento tutte le risultanze offerte da fonti conoscitive qualificate, come le decisioni giudiziarie internazionali, i documenti predisposti dagli organi del Consiglio d'Europa e da quelli appartenenti al sistema delle Nazioni Unite e, in tale ottica, la sentenza di annullamento del precedente provvedimento, emessa dalla sezione sesta il 28/6/2016, aveva espressamente richiesto di valutare anche le risultanze dei rapporti di organizzazioni come "Amnesty International".
Pur avendo la Corte territoriale richiesto alle Autorità Ucraine ogni informazione necessaria anche "con specifico riferimento all'etnia russa di appartenenza" del ricorrente, invece, il provvedimento impugnato non ha in alcun modo specificato l'incidenza o meno, ai fini della valutazione del predetto rischio, della particolare condizione del D., filo-russo di nazionalità moldava e di madre russa, anche alla luce dell'attuale conflitto russo-ucraino: al contrario, la sentenza impugnata ha riconosciuto che "le pronunce della CEDU che riguardano l'Ucraina hanno dato conto del pericolo del rischio legato alle condizioni di detenzione nelle carceri ed alla violazione dei diritti dei detenuti nella fase di accertamento delle responsabilità", adducendo però che le stesse pronunce non avrebbero evidenziato un rischio specifico di discriminazioni giudiziarie o carcerarie legate alla nazionalità e suffragando tale assunto con l'affermazione di questa Corte di Cassazione (sez. 6, n. 699 del 08/04/2014) secondo cui da talune condanne non poteva desumersi l'insufficienza ed inadeguatezza dell'intero sistema carcerario ucraino a garantire i diritti fondamentali dei detenuti.
Come fondatamente rilevato nel ricorso, però, si tratta di una valutazione espressa da questa Corte in periodo prebellico, mentre la sentenza impugnata non esprime alcuna valutazione degli elementi addotti con riferimento ai rapporti - pur menzionati nella sentenza di annullamento con rinvio del 28/6/2016 - provenienti da associazioni non governative, quali Amnesty International, The Un Refugee Agency ed organismi internazionali e convenzionali come il Commissariato per i diritti umani del Consiglio di Europa: si tratta di elementi che, come riconosciuto anche nella pronuncia di questa Corte di cassazione, sez. 6, n. 53741 del 17/11/2016, risultano confermare la costante e sistematica violazione dei diritti umani in Ucraina, con casi di illegittima ed arbitraria detenzione, di detenzione in luoghi segreti e di torture e trattamenti inumani, specie nelle strutture di detenzione per i detenuti in fase cautelare, anche in ragione del conflitto armato non ancora pacificato.
Ha ricordato tale pronuncia, in particolare, che dal report del Commissario per i diritti umani del Consiglio di Europa, relativo alla situazione in Ucraina dal 16 novembre 2015 al 15 febbraio 2016, risultano ancora riscontrate condizioni di detenzioni illegali negli istituti penitenziari nei territori controllati dai gruppi armati, condizioni sanitarie assolutamente inadeguate e frequenti abusi anche psichici come misure disciplinari, e che analoghe violazioni dei diritti umani risultano dal report di Amnesty International del 2015 e dal report del settembre 2015 dell'UNHCR (Ufficio dei Rifugiati delle Nazioni unite).
Il provvedimento, impugnato, invece, nell'evidenziare che le pronunce della CEDU esaminate non evidenzierebbero specificità di rischi con riferimento all'etnia degli interessati, e nel richiamare una pronuncia di questa Corte antecedente al conflitto armato, non si è in alcun modo confrontata con tali elementi, pur allegati dal ricorrente, nè con l'allegazione di un'istanza di riconoscimento dello status di rifugiato presentata dal D. all'Italia in data 21/2/2015 nei confronti della Moldavia, epoca indicata come non sospetta.
3. Nessun vizio motivazionale può riconoscersi, invece, in ordine al riconoscimento dell'insussistenza di un concreto pericolo che il D. possa essere sottoposto a lavori forzati, pericolo che è stato escluso sul rilievo che, alla luce della documentazione trasmessa dallo Stato richiedente, i detenuti vengono coinvolti in lavori retribuiti, di regola, nelle fabbriche o in imprese di proprietà del governo con contratti di lavoro a tempo determinato conclusi tra gli stessi detenuti e la colonia penitenziale, a condizione di garantire loro una custodia ed un isolamento adeguati: la Corte territoriale, senza incorrere in vizi logici, ha riconosciuto che le pene dei lavori pubblici e dei lavori correzionali previsti dal codice penale ucraino non possono essere ricondotti nella nozione di lavori forzati e non presentano modalità lesive della dignità umana, vietate dall'art. 4 CEDU e dall'art. 698 c.p.p., comma 1, così come già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione (sez. 6, n. 28714 del 12/07/2012).
4. Sulla base delle considerazioni dinanzi espresse, pertanto, limitatamente ai profili critici sopra evidenziati al par. 2, si impone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata per un nuovo giudizio che dovrà porre rimedio ai vizi riscontrati confrontandosi con le circostanze dinanzi indicate.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello dí Venezia.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 203 disp. att. c.p.p..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2018