La Convenzione di New York estende la rilevanza penale anche alle manifestazioni discriminatorie attinenti alla sfera "religiosa", oltre a quelle razziale, etnica e nazionale, e mediante l'incriminazione di singoli "atti" di contenuto discriminatorio accanto alle condotte di "incitamento" o di provocazione di altri a porre in essere azioni di tale natura.
Diffamazione aggravata da motivi razziali a mezzo Facebook: qualche riflessione
Come è stato scritto [1], una molteplicità di delitti commissibili in Internet offendono beni giuridici diversi, che sono indisponibili data la loro rilevanza collettiva o addirittura pubblica, per cui sono perseguibili d'ufficio.
L'utilizzo di Internet integra l'ipotesi aggravata di cui all'art. 595, co. 3, c.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l'agente meritevole di un più severo trattamento penale (cfr. Tribunale Livorno, ufficio GIP, sentenza 31.12.2012 n° 38912).
Le condotte di istigazione all'odio razziale e di propaganda di idee razziste [2], che violano o quantomeno mettono in pericolo il diritto fondamentale a non subire discriminazioni, in specie basate sulla razza e sull'origine etnica; il divieto di discriminazione è riconosciuto anche a livello internazionale dall'art. 14 CEDU, dall'art. 21 Carta di Nizza (che lo colloca nell'ambito di tutela dell'«uguaglianza» al pari dell'art. 3 Cost.), più in specifico dalla Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965, il cui art. 4, lett. a), impone agli Stati parte di punire «ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull'odio razziale».[3]
La principale questione che si pone, a proposito di questi reati, non è tanto quella della possibilità di loro commissione in Internet e nei social network, che purtroppo trova ampi riscontri empirici, ma quella più generale del corretto bilanciamento - a livello legislativo, prima che giurisprudenziale - fra diritti fondamentali contrapposti, in primis con il menzionato diritto di libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e, più in generale, di espressione (artt. 8 e 9 CEDU e art. 11 Carta di Nizza).
Al riguardo, la Corte di Strasburgo ha sviluppato un'ormai consolidata giurisprudenza, che muovendo dal carattere non assoluto di questi ultimi diritti, riconosce la legittimità delle menzionate incriminazioni, in quanto necessarie a garantire la tutela di esigenze di rango pari o superiore, nei limiti consentiti in una società democratica [4].
Ma con l'espandersi delle comunicazioni e la maggior facilità degli scambi di informazioni e di dati in Internet, la materia ha assunto un rilievo particolare, perché se realizzati nello cyberspazio - ed, in specie, anche nei social network - detti reati (c.d. informatici e cibernetici «in senso ampio») appaiono più temibili presentando una ben più elevata potenzialità diffusiva: per cui ricevono una speciale attenzione non solo da parte della dottrina e della giurisprudenza, ma anche dello stesso legislatore, come dimostrano fonti sopranazionali quale il Protocollo addizionale alla Convenzione Cybercrime del Consiglio d'Europa, adottato a Strasburgo il 28 gennaio 2003, che impone a ogni Stato parte (fra l'altro) di incriminare «la diffusione o altre forme di messa a disposizione al pubblico, tramite un sistema informatico, di materiale razzista e xenofobo» (art. 3, par. 1)[5].
Ciò premesso, con particolare riguardo alla circostanza aggravante della "finalità di discriminazione razziale"[6], sotto il profilo penalistico la normativa specificamente volta alla repressione di simili condotte è - come si è scritto - contenuta nella L. 13 ottobre 1975 n. 654, legge di attuazione della Convenzione di New York sulla "eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale", aperta alla firma il 7 marzo 1966, che ha tra i propri scopi principali il contrasto di qualsiasi forma di "discriminazione", intendendo con tale espressione "ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica".
La Convenzione di New York venne ratificata in Italia appunto con la L. n. 654/1975 sostituito dal d.l. 26 aprile 1993 n. 122 - c.d. "Decreto Mancino" - convertito con modifiche nella L. 25 giugno 1993 n. 205.
L'intervento legislativo si è tradotto in un inasprimento del trattamento sanzionatorio, nonché in un ampliamento dell'ambito di tutela, attraverso l'estensione della rilevanza penale anche alle manifestazioni discriminatorie attinenti alla sfera "religiosa", oltre a quelle razziale, etnica e nazionale, e mediante l'incriminazione di singoli "atti" di contenuto discriminatorio accanto alle condotte di "incitamento" o di provocazione di altri a porre in essere azioni di tale natura.
Con quest'ultima previsione, ad una finalità di tutela dell'ordine pubblico e di repressione di condotte lesive dei valori della convivenza sociale "si sovrappone una disciplina che, attraverso la criminalizzazione dei singoli atti discriminatori, appare orientata alla tutela della persona e della sua dignità sociale", in armonia con i principi personalistici e di uguaglianza sanciti dalla Costituzione [7].
La repressione penale di singoli "atti" discriminatori, infatti, realizza "non soltanto una tutela, per così dire, "preventiva", volta cioè ad evitare, colpendo le attività di incitamento, una potenziale "propagazione" a livello sociale di atteggiamenti o pratiche discriminatorie, ma anche uno specifico intervento "repressivo" nei confronti di coloro che, seppure in forma isolata, pongono in essere un comportamento idoneo a sottoporre anche un singolo individuo ad una disciplina differenziata"[8].
Corre peraltro l'obbligo di soffermare l'attenzione in particolare sull'art. 3, comma 1, L. n. 205/1993, che disciplina una circostanza aggravante applicabile a tutti i reati "punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità", corretto negli anni attenuando la sanzione prevista per la condotta di "diffusione" di idee "fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico" ovvero di "incitamento" o di "commissione" di "atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali", dall'altro riqualificando in termini di "istigazione" la precedente condotta di "incitamento" alla commissione di atti di violenza per i medesimi motivi.
Accanto alle specifiche disposizioni legislative fin qui richiamate, che rappresentano la fonte normativa primaria per la repressione delle condotte discriminatorie, la giurisprudenza della Corte di cassazione, ampliando la prospettiva legislativa - come emblematicamente emerge dalla più recente delle sentenze in commento - ha altresì rievocato principi fondamentali contemplati nella nostra Costituzione [9].
La tutela contro la discriminazione razziale ha trovato allora un autorevole sostegno nella disposizione di cui art. 3 Cost. - norma che sancisce la "pari dignità sociale" e l'uguaglianza di tutti i "cittadini" davanti alla legge, a prescindere dalle differenze di sesso, di razza, di lingua, di religione [10] - nonché nell'art. 2 Cost., attribuendo rilievo ai diritti inviolabili della persona, patrimonio di ogni individuo in quanto tale.
Così facendo, la condotta discriminatoria non rileva soltanto sotto il profilo e secondo i criteri indicati dal legislatore internazionale, ma anche quale forma di negazione dei diritti fondamentali della persona, che non può andare esente da reazioni punitive proprio in virtù dell'ispirazione garantista della nostra Costituzione.
Ma quello che più interessa ai nostri fini è rilevare come, tra i diritti fondamentali della persona contemplati agli artt. 2 e 3 Cost. cui spetta una rigorosa protezione, attuata ove occorra anche attraverso la severità e l'autorevolezza della sanzione penale, possa essere annoverato, nonostante l'assenza di un espresso riferimento in tal senso da parte del legislatore, anche il diritto all'onore [11].
Esso trova una specifica tutela penale - come è noto - nel delitto di ingiuria, ora depenalizzato ma già disciplinato dall'art. 594 c.p., secondo una formulazione codicistica che scompone in "onore" in senso soggettivo e "decoro" un bene giuridico di carattere unitario. Il valore della dignità personale è quindi tutelato sia in una dimensione privata che in un contesto relazionale, dove il destinatario di una manifestazione di discredito può subirne in modo tangibile i negativi effetti [12].
Tali principi di carattere generale assumono particolare significato se applicati nella società attuale, nella quale si affacciano - a seguito dei flussi migratori particolarmente intensi negli ultimi anni - individui di differente estrazione etnica e culturale, che incontrano una serie di ostacoli pratici sulla via per l'integrazione, e che risultano spesso vittime di pregiudizi razziali proprio in ragione della loro nazionalità di origine[13].
L'appartenenza etnica e l'aspetto esteriore[14] possono allora divenire una facile occasione di offesa ai beni dell'onore e della dignità personale[15], esprimendo ad es. il disprezzo verso le persone di pelle nera o - più semplicemente - verso il "diverso", vero fondamento del razzismo moderno o neorazzismo[16].
In una recente sentenza, la Corte di Cassazione (con riferimento all'ingiuria razziale "sporco negro", Cassazione penale sez. V, 20/01/2006, n. 9381) ha esplicitamente statuito come all'elemento soggettivo rilevante ai fini dell'applicabilità dell'aggravante ed indicato dall'art. 3 L. n. 205/1993 nel concetto di "odio", la medesima Corte chiarisce che il sostantivo in questione debba essere "inteso senza alcuna accentuazione, rispetto a sentimenti di minore intensità".
Sulla scorta di tale precisazione la Cassazione giunge a sostenere che ai fini dell'inasprimento sanzionatorio non si richieda, da parte del Giudice di merito, alcuna "autonoma verifica" più di quanto non sia già necessario ai fini dell'art. 43 c.p., con la conseguenza che, in relazione all'elemento soggettivo "non sono possibili graduazioni, se il fatto costitutivo di reato [...] si rapporta all'identità nazionale, etnica, razziale o religiosa, quale ragione di conflitto tra persone".
Il passaggio argomentativo successivo prende poi direttamente in considerazione l'espressione incriminata, ovvero l'epiteto ingiurioso "sporco negro": esso contiene secondo la Suprema Corte un accostamento semantico idoneo ad attribuire una caratterizzazione dispregiativa: l'appellativo "negro", infatti, "non definisce semplicemente il colore della persona", ma rievoca "la designazione antonomastica dell'indigeno africano, quale appartenente ad una razza inferiore". Nessun dubbio appare possibile, pertanto, in ordine alla valenza dispregiativa del termine "negro", e all'univoco riferimento alla condizione di schiavitù e di sottomissione "razziale" in esso contenuto.
L'effettiva idoneità dell'epiteto ingiurioso utilizzato dall'agente nel caso concreto potrà integrare la finalità di discriminazione o di odio razziale - e quindi costituire reato - quando "inquini il costume sino al punto da radicare manifestazioni di gruppo" (sentenza Cass. V, cit.): in questo senso sarà infatti punibile per incitamento all'odio razziale ogni condotta idonea a suscitare nel prossimo il medesimo sentimento di avversione, creando il pericolo o favorendo le condizioni per la realizzazione di ulteriori e più gravi comportamenti offensivi.
[1] L. Picotti, I diritti fondamentali nell'uso ed abuso dei social network. Aspetti penali, Giurisprudenza di Merito, fasc.12, 2012, pag. 2522B
[2] Cfr. artt. 1 e 3 l. 13 ottobre 1975, n. 654, come modificata dalla c.d legge Mancino (d.l. 26 aprile 1993, n. 122, conv. in l. 25 giugno 1993, n. 205, da ultimo modificato dalla l. 24 febbraio 2006, n. 85). In argomento sia consentito rinviare a Picotti, Istigazione e propaganda della discriminazione razziale fra offesa dei diritti fondamentali della persona e libertà di manifestazione del pensiero, in Riondato(cur.), Discriminazione razziale, Xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Padova 2006, 117 s. e indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali ivi richiamate; cui adde Visconti, Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino, 2008, in specie 139 s.
[3] Ulteriori delitti di istigazione, propaganda ed apologia riguardano la «propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo» fascista, nonché l'«esaltazione pubblica» di «esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo» ovvero sue «finalità antidemocratiche» o «idee o metoditi razzisti» (fr. in specie l'art. 4, commi 1 e 2, l. 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba), attuativa della XII disposizione finale della Costituzione.), mentre altri delitti consistono nell'istigazione a commettere reati o nella loro apologia, specie nel campo del terrorismo e del diritto penale «politico» (Oltre agli art. 414 e 415 c.p., su cu si tornerà fra breve, si considerino i numerosi delitti collocati fra i delitti contro la personalità dello Stato nel titolo I del libro II del codice penale, ed in specie l'art. 266 c.p. (Istigazione di militari a disobbedire alle leggi, che al comma 3 definisce anche i casi in cui «il reato si considera avvenuto pubblicamente», menzionando, al numero 1), accanto alla «stampa», qualunque «altro mezzo di propaganda», categoria nella quale dottrina e giurisprudenza riconducono da tempo la diffusione tramite Internet e le reti telematiche (così già Picotti, Profili penali, cit., 283 s.; e Cass., sez. V, 17 novembre 2000, n. 4741, cit.; Cass., sez. V, 21 giugno 2006, n. 25875); ed in prospettiva de jure condendo bisogna considerare anche i delitti c.d. di negazionismo, che dovranno essere introdotti nel nostro ordinamento, come già lo sono stati in altri, in attuazione della decisione quadro del Consiglio dell'Unione europea 2008/913/GAI del 28 novembre 2008, sulla «lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale» (Per l'attuazione ? seppur tardiva ? della decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, il cui termine è venuto a scadere nel 2010, è stata annunciata pubblicamente la presentazione al Senato, in data 8 ottobre 2012, del d.d.l. n. 3511, a firma Amati ed altri, che prevede l'aggiunta, all'art. 3 l. 654/1975 e succ. modifiche (sopra cit.) della seguente fattispecie, con cui si punirebbe, alla lettera «b-bis) con la reclusione fino a tre anni chiunque, con comportamenti idonei a turbare l'ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli artt. 6, 7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232, e dei crimini definiti dall'articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945, ovvero nega la realtà, la dimensione o il carattere genocida degli stessi».In argomento si veda da ultimo, con accenti critici, Fronza, Il negazionismo come reato, Milano 2012, con ampi richiami a suoi precedenti lavori, nonché a dottrina e fonti anche internazionali.). Sioveda sempre opera cit. sub nota (1).
[4] Per tutti cfr. E. NICOSIA, Convenzione europea dei diritti dell'uomo e diritto penale, Giappichelli, Torino,. 2006, pp. 209 ss.
[5] In argomento sia consentito - se non altro per rendere onore all'autore ampiamente saccheggiato per la redazione del presente paragrafo con citazioni testuali - rinviare a Picotti, Internet e diritto penale: il quadro attuale alla luce dell'armonizzazione internazionale, in Dir. internet, 2005, 189 s
[6] Cfr. Lara Ferla, L'applicazione della finalità di discriminazione razziale in alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 2007, pag. 1449, che verrà ampiamente citata per brani interi per quanto qui interessa.
[7] In questi termini, A. Caputo, Discriminazioni razziali e repressione penale, in Quest. giust., 1997, 2, p. 477, il quale definisce l'innovazione legislativa del 1993 un "indubbio salto di qualità".
[8] "In definitiva, la ratio dell'intervento penale sembrerebbe oggi incentrarsi, non più sull'esigenza di scongiurare un ricorso a livello diffuso a pratiche di natura discriminatoria, bensì sull'obiettivo di reprimere (sia nella forma dell'incitamento, sia in quella della realizzazione effettiva) il singolo comportamento con cui la discriminazione venga attuata", G. De Francesco, Commento all'art. 1, cit., p. 180 s. Risulta inoltre particolarmente innovativo il riferimento recepito dal legislatore ai "motivi" che hanno suscitato la condotta discriminatoria, fondati sulla diversità etnica, razziale, nazionale e religiosa della vittima. Tale scelta ha peraltro sollevato in dottrina fondati rilievi critici, diretti ad evidenziare l'assenza nella norma incriminatrice di un sicuro supporto di oggettività, con la conseguenza che è in sostanza "lasciato alla fantasia di ognuno ipotizzare come, in una siffatta previsione senza più confine alcuno, possano rientrare i casi più disparati, meno censurabili e, soprattutto, del tutto privi di qualsiasi contenuto razzista", L. Stortoni, Le nuove norme contro l'intolleranza: legge o proclama), in Crit. dir., 1994, p. 17. L'A. rileva altresì efficacemente che "l'accertamento dei motivi - come ogni penalista ben sa - sfocia inevitabilmente nel "tipo d'autore". Ma non basta: qui lo stesso tipo normativo non c'è o è del tutto vago ed inafferrabile posto che ai motivi razziali ed etnici si sono aggiunti anche quelli nazionali o religiosi, contenuti, questi, di per sé per nulla negativamente valutabili".
[9] Cfr. Cassazione penale, sez. I, 7 giugno 2001, CED 219994, in http.//www.giustizia.it, in cui la Suprema Corte indica nell'art. 3 Cost. il referente normativo per la repressione delle condotte discriminatorie attuate nei confronti degli stranieri.
[10] La norma in questione - benché contempli letteralmente soltanto i "cittadini" - trova in realtà applicazione anche nei confronti degli stranieri, poiché prevede diritti fondamentali, riconosciuti ad ogni persona in quanto tale. In questo senso, E. Grosso, Straniero (status costituzionale dello), in Dig. disc. pubbl., XV, Torino, 1999, p. 166. Si veda altresì A. Celotto, Sub art. 3, comma 1, in R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Milano, 2006, I, p. 69, il quale evidenzia che l'impostazione per cui l'art. 3 Cost. potesse trovare applicazione soltanto nei confronti dei "cittadini" "è stata superata fin dagli anni '60, sia dalla giurisprudenza costituzionale, sia dalla dottrina, orientatasi in maniera pressoché unanime ad estendere soggettivamente i precetti dell'eguaglianza". In tema di diritti costituzionalmente garantiti allo straniero cfr. altresì E. Grosso, Straniero (status dello) (Voce), in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, VI, Milano, 2006, p. 5787. Anche la Corte costituzionale ha riconosciuto che diritti fondamentali quali l'onore, il decoro, la reputazione e la riservatezza spettano in quanto tali anche ai non cittadini. In questi termini, tra le altre, Corte costituzionale n. 38/1973.
[11] Già nella sentenza n. 86 del 1974 la Corte costituzionale dichiarava che il diritto all'onore trova collocazione tra i beni o interessi garantiti a livello costituzionale, cfr. Corte costituzionale, 27 marzo 1974 n. 86, in Foro it., 1974, I, p. 1285. Tale principio è stato poi ribadito in numerose altre occasioni sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità. Si vedano, a tale proposito, Cassazione, Sezioni Unite, 27 maggio 1999, in DII, 1999, 11, p. 611; Cassazione, sez. III, 10 gennaio 2001, in D & G, 2001, n. 22, p. 17; Cassazione, sez. V, 16 febbraio 1988, in Riv. pen., 1988, p. 733; Cassazione, sez. V, 16 gennaio 1986, in DII, 1986, p. 465; Corte di Appello di Roma, 20 gennaio 1989, in Giust. pen., 1991, II, p. 519; Tribunale di Roma, sez. 11, 3 febbraio 1975, in Arch. pen., 1975, II, p. 224. In dottrina, rileva che l'onore "forma oggetto di sicura tutela costituzionale" M. Liotta, Onore (diritto all'), in Enc. dir., XXX, 1980, p. 205. Osserva inoltre che l'onore - insieme alla vita, alla libertà personale, alla salute ed alla libertà di domicilio - si inserisce tra quei beni "senza i quali l'uomo non può realizzarsi nelle sue forme minime esistenziali", ovvero tra i "beni costituzionali primari" F. Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 203
[12] L'onore in senso stretto ha carattere soggettivo, e rappresenta il sentimento delle proprie qualità morali, la "opinione che una persona ha della propria onorabilità, cioè dell'assenza delle cause di disonore", V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VIII, Torino, 1964, p. 505. Rileva che l'onore in senso soggettivo comprende la consapevolezza della propria dignità e del proprio onore, A. Jannitti Piromallo, Ingiuria e diffamazione, Torino, 1953, p. 11. Il decoro attiene, in particolare, all'apparire sociale dell'uomo, poiché rappresenta un aspetto delle manifestazioni esteriori collegate allo svolgimento della vita di relazione. Esso ha, pertanto, natura tipicamente oggettiva. Per una definizione di "decoro" cfr. V. Manzini, Trattato di diritto penale, cit., p. 475, oltre a F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2002, p. 196. In dottrina il "decoro" è stato definito come "quel complesso di comportamenti e di atteggiamenti che l'individuo tiene apertamente in connessione con il suo ruolo sociale", G. Gulotta, Il concetto di decoro e la tutela penale della vita privata, in Ind. pen., 1968, p. 140. In giurisprudenza, sulla distinzione tra "onore", inteso con riferimento alle "qualità morali della persona" e "decoro", come "complesso di quelle altre qualità e condizioni che ne determinano il valore sociale", Cassazione penale, sez. V, 30 novembre 1988, CED 183931, in http://www.giustizia.it e, tra le altre, Cassazione penale, sez. VII, 16 ottobre 2001, in Riv. pen., 2002, p. 119; Cassazione penale, sez. V, 9 luglio 1997, in Riv. pen., 1997, p. 923; Cassazione penale, sez. V, 3 febbraio 1988, in Riv. pen., 1988, p. 1185. L'articolo 594 c.p., in realtà, tutela contemporaneamente l'onore ed il decoro individuali, diversificando nella terminologia un bene giuridico che - ad avviso della dottrina dominante - deve essere invece considerato unitariamente. Cfr. E. Musco, Bene giuridico e tutela dell'onore, Milano, 1974, p. 134; M. Spasari, Diffamazione e ingiuria (diritto penale), in Enc. dir., XII, 1964, p. 482.
Già la dottrina risalente aveva efficacemente messo in luce gli effetti normalmente prodotti sull'animo umano dalle manifestazioni personali di discredito: "io risento dolore allo intendere che altri mi tiene a vile", così F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, III, Firenze, 1897, p. 11
[13] Alcuni fattori concorrono alla genesi ed alla diffusione di pregiudizi razziali nei confronti degli immigrati: da un lato, il loro coinvolgimento sempre più evidente in ben determinate tipologie di reati, attuati anche con modalità proprie di organizzazioni di stampo mafioso (cfr. Relazione sull'attività svolta dalla D.I.A. - Divisione Investigativa Antimafia - relativamente all'anno 2006, che evidenzia il coinvolgimento della criminalità "allogena" nel traffico degli stupefacenti e nel commercio di esseri umani, finalizzato alla prostituzione ed al lavoro nero, nonché nella contraffazione di marchi e nella commercializzazione di prodotti - medicinali, alimentari ed elettronici - non conformi alla normativa europea. Dall'altro lato, l'azione svolta dai mezzi di comunicazione di massa: da una recente analisi empirica condotta sui contenuti delle informazioni fornite quotidianamente da televisioni e carta stampata in Italia è emerso, infatti, che - soprattutto in seguito agli eventi terroristici dell'11 settembre 2001 - i mass media, assimilando il senso di inquietudine diffuso nella società a causa delle gravi manifestazioni di violenza avvenute, troppo spesso elaborano "letture parziali" dei fenomeni collegati ai flussi immigratori, giungendo a deformare inconsciamente la percezione della realtà, anche attraverso una vera e propria "enfatizzazione dei temi del coinvolgimento dell'immigrato in episodi di delittuosità", cfr. D. Bramati, La rappresentazione mediatica della criminalità dell'immigrato, in G. Forti-M. Bertolino (a cura di), La televisione del crimine, Milano, 2005, 635 ss.
[14] La lingua ed il colore della pelle dell'immigrato sono segni esteriori che "di per sé valgono a caratterizzarlo come straniero". Egli "si renderà conto che è "diverso" dagli appartenenti all'ambito culturale dominante, diverso in rapporto alla razza, alla formazione, al linguaggio e alla concezione sociale". In tal modo, "spesso la situazione dell'"esistere marginale" non è altro che il risultato di condizionamenti sociali, collegati all'essere "differente"", G. Kaiser, Criminologia, trad. it., Milano, 1985, p. 266.
[15] È quanto è accaduto anche in una recente vicenda decisa dalla Corte di cassazione, in cui l'aggettivo "marocchino", di per sé innocuo, in quanto idoneo ad identificare semplicemente la nazionalità dello straniero, era utilizzato come vero e proprio sostitutivo del nome. Nell'occasione la Corte di cassazione non ha mancato di cogliere nel reiterato comportamento di un datore di lavoro, che deliberatamente ignorava il nome di battesimo del lavoratore immigrato nonostante questi fosse "validamente inserito nella realtà operativa dello stabilimento" e che utilizzava l'espressione "marocchino" con evidente atteggiamento di disprezzo, il riflesso tangibile di un atteggiamento psicologico ispirato quanto meno da insofferenza per il dipendente straniero, che subiva di fatto nel contesto lavorativo un trattamento personale deteriore rispetto ai propri colleghi italiani. Cfr. Cassazione penale, sez. V, 20 maggio 2005 n. 19378, in Cass., pen., 2006, 1, p. 59, con nota di M. Bellina, Sostantivazione dell'aggettivo che riflette la provenienza etnica della persona e delitto di ingiuria: il caso del "marocchino", ivi, p. 60 ss., ed in Giudice di pace, 2007, 1, p. 78, con nota di L. D. Cerqua, L'appellativo di "marocchino" rivolto ad una persona proveniente dal Marocco integra il delitto di ingiuria?, ivi, p. 78 s.
[16] Il razzismo contemporaneo, o neorazzismo, evita il tabù di evocare esplicitamente il concetto culturalmente sospetto di "razza" in quanto tale, per presentarsi "implicitamente" sotto la forma di una teoria (c.d. razzismo implicito), che attua un compromesso tra le pulsioni di ostilità nei confronti dell'"Altro", ritenuto diverso da sé per razza, etnia o nazione, ed il rispetto formale della normativa antirazzista "interiorizzato grazie all'educazione o al senso di utilitaristico interesse socio-politico-economico" (http://www.canestrinilex.it/articoli/razzismo.html). Si vedano, sul punto, le riflessioni di A. Piazza, Come definire il razzismo?, in Cass. pen., 1995, 3, p. 689 ss. L'A., Professore di genetica umana nell'Università di Torino, osserva che "i genetisti contemporanei hanno provato che la suddivisione in "razze" applicata alla Specie umana deriva da una teoria biologicamente falsa, senza basi scientifiche valide": infatti, "non solo non esistono discontinuità genetiche così rilevanti da identificare differenze che non si limitano all'apparenza superficiale, ma ogni individuo costituisce, per così dire, una "razza" a sé: di conseguenza il concetto di razza si frammenta in un universo di diversità genetiche, ed almeno dal punto di vista biologico diventa inconsistente"