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Confessione nel penale non è prova legale ma non servono riscontri (Cass. 13085/14)

20 marzo 2014, Cassazione penale

Nell'ordinamento processuale penale, che non conosce le prove legali e si affida al libero convincimento del giudice, la confessione costituisce un elemento probatorio da valutare senza alcun limite predeterminato e solo dando conto, nella obbligatoria motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati; i limiti alla formazione del libero convincimento che dell'art. 192 c.p.p., pongono i commi 2 e 3 sono eccezionali e non suscettibili di applicazione analogica, perchè mentre è stabilito per legge che gli elementi di prova ricavabili da chiamate in correità non siano autosufficienti e necessitino quindi di verifiche estrinseche, la confessione ben può costituire prova sufficiente di responsabilità del confidente, indipendentemente dall'esistenza di riscontri esterni, purchè il giudice, nel suo potere di apprezzamento del materiale probatorio, prenda in esame le circostanze obiettive e subiettive che hanno determinato ed accompagnato la confessione e dia ragione, con logica motivazione, del proprio convincimento circa l'affidabilità della stessa.

Nel giudizio abbreviato sono utilizzabili le dichiarazioni rese spontaneamente alla polizia giudiziaria da soggetto che non ha ancora formalmente assunto la qualità di indagato.

Possibile identificazione degli interlocutori delle conversazioni intercettate con le dichiarazioni degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che hanno riferito sul riconoscimento delle voci di taluni imputati, ovvero qualsiasi altra circostanza o elemento che consentano di risalire all'identità degli interlocutori: la parte che deduce la relativa eccezione ha l'onere di supportarne validamente la fondatezza con l'allegazione di elementi sintomatici, dotati di oggettiva incidenza ai fini della dimostrazione del mancato riconoscimento.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Sent., (ud. 03/10/2013) 20-03-2014, n. 13085

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovanni - Presidente -

Dott. CORTESE Arturo - Consigliere -

Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -

Dott. DI STEFANO Pierluigi - Consigliere -

Dott. DE AMICIS Gaetano - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.R. N. IL (OMISSIS);

A.F. N. IL (OMISSIS);

A.A. N. IL (OMISSIS);

AR.AN. N. IL (OMISSIS);

B.G. N. IL (OMISSIS);

B.F. N. IL (OMISSIS);

B.A. N. IL (OMISSIS);

C.C. N. IL (OMISSIS);

CA.CA. N. IL (OMISSIS);

C.R. N. IL (OMISSIS);

C.T. N. IL (OMISSIS);

C.L. N. IL (OMISSIS);

C.P. N. IL (OMISSIS);

CE.CA. N. IL (OMISSIS);

C.A. N. IL (OMISSIS);

C.G. N. IL (OMISSIS);

D.D.G. N. IL (OMISSIS);

D.M.V. N. IL (OMISSIS);

D.P.T. N. IL (OMISSIS);

D.L. N. IL (OMISSIS);

E.M. N. IL (OMISSIS);

E.F. N. IL (OMISSIS);

E.P. N. IL (OMISSIS);

F.G. N. IL (OMISSIS);

G.G. N. IL (OMISSIS);

G.C. N. IL (OMISSIS);

I.F. N. IL (OMISSIS);

L.D.B.A. N. IL (OMISSIS);

L.D.B.U. N. IL (OMISSIS);

L.P. N. IL (OMISSIS);

m.a. N. IL (OMISSIS);

M.A. N. IL (OMISSIS);

M.C. N. IL (OMISSIS);

M.M. N. IL (OMISSIS);

MA.AN. N. IL (OMISSIS);

MARRONE RAFFAELE N. IL (OMISSIS);

MARRONE TERESA N. IL (OMISSIS);

M.O. N. IL (OMISSIS);

M.F. N. IL (OMISSIS);

M.D. N. IL (OMISSIS);

N.E. N. IL (OMISSIS);

P.E. N. IL (OMISSIS);

P.R. N. IL (OMISSIS);

P.V. N. IL (OMISSIS);

P.G. N. IL (OMISSIS);

P.A. N. IL (OMISSIS);

S.O. N. IL (OMISSIS);

S.G. N. IL (OMISSIS);

S.S. N. IL (OMISSIS);

V.M. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 3025/2011 CORTE APPELLO di NAPOLI, del 09/05/2012;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/10/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro il quale ha chiesto:

- l'inammissibilità per A.F., A.A., Ar.An., B.G., B.F., B. A., C.C., Ca.Ca., C.T., Ce.Ca., C.G., D.M.V., D. L., E.M., E.F., E. P., F.G., G.G., I.F., L.D.B.U., m.a., M.A., M. M., M.F., M.D., N.E., P.V., S.G., V.M.;

- l'inammissibilità del ricorso e rigetto nel resto, in relazione ai capi S1), S2) e S3), per C.C.;

- il rigetto per A.R., C.R., C.L. (in relazione alle armi), D.P.T., L.D.B. A., L.P., Ma.An., M.R., P.E., P.R. e S.S.;

- l'annullamento con rinvio per C.P., C. A., D.D.G. e M.T.;

- l'annullamento con rinvio sull'aggravante del capo c) e rigetto nel resto per P.G.;

- l'annullamento senza rinvio per G.C.;

- l'annullamento senza rinvio per le contravvenzioni che sono prescritte e l'inammissibilità nel resto per S.O..

Uditi i difensori Avv.ti Giovanni ARICO'di Roma, BARONE Pierluigi di Ravenna, CARDILLO Edoardo di Napoli, CERABONA Michele di Napoli, COLA Sergio di Napoli, DA VINO Claudio di Napoli, LUBRANO Francesco di Napoli, MATTEIS Mauro Salvatore di Napoli, SENATORE Battolo Giuseppe di Napoli, VALENTINO Mauro di Napoli i quali, riportandosi ai motivi e chiedendone l'accoglimento, insistono per l'annullamento della sentenza impugnata.

Svolgimento del processo


1. Con sentenza del 9 maggio - 5 novembre 2012, la prima sezione della Corte d'Appello di Napoli, pronunciando sui procedimenti riuniti in grado d'appello e definiti in primo grado, all'esito di giudizio abbreviato, con le sentenze emesse dal G.i.p. presso il Tribunale di Napoli nelle date 25 maggio 2010 e 22 ottobre 2010, nei confronti di A.R., AM.An., A. F., A.A., Ar.An., B.G., B.F., B.A., C.C., CA. C., C.R., CA.Lu., C.T., CA.Gi., C.P., C.A., C.G., D.L., D.D.G., D. P.T., E.F., E.P., F. G., G.G., GR.Ma., G. C., I.F., L.D.B.A., L.D. B.U., L.P., m.a., M. A., M.C., M.M., Ma.

A., M.R., M.T., M.O., M.F., M.D., N.E., P. E., P.R., P.V., P.G., P.A., P.G., S.D., S. V., S.G., S.S., V. M., A.M., C.L., Ce.Ca., D.M.V., E.M., GA.Ge. e S.O., appellate dai predetti imputati ad eccezione di CA.Lu., C.P., D.D.G., G.C., M.T. e C.A. ed appellate dal P.M. nei confronti di questi ultimi, nonchè nei confronti di L.D.B.A., M.C., P. E., P.R. e P.C., ha così deliberato, in riforma delle predette decisioni:

A) dichiarato inammissibile l'appello proposto dal P.M. nei confronti di CA.Lu., nonchè di C.A., limitatamente al reato di cui al capo sub T);

B) dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'appellante CA.Gi. in ordine al reato a lui ascritto perchè estinto per morte del reo;

C) rideterminato la pena nei confronti di: AM.An. in anni 4 di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa; B.A. in anni 11 e mesi 4 di reclusione; L.D.B.U., esclusa l'aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 contestata in relazione al reato di cui all'art. 73 del D.P.R. sopra citato, in anni 4 e mesi 6 di reclusione ed Euro 21.000,00 di multa; M.F. in anni 10 di reclusione; P.G., ritenuta la continuazione con la sentenza del G.I.P. presso il Tribunale Napoli del 13.3.06, irrevocabile il 14.10.06, in anni 10 di reclusione; S.V. in anni 10 di reclusione; Ce.Ca., in anni 4 di reclusione; D.M.V., ritenuta la continuazione con la sentenza del G.I.P. presso il Tribunale di Napoli del 22.10.07, irrevocabile il 23.4.08, in anni 13 di reclusione;

D) ritenuta nei confronti di P.E. e P.R. la originaria qualifica ex art. 648 bis c.p. in ordine alle imputazioni come a ciascuna rispettivamente ascritte, rideterminato la pena per P.E. in anni 6 di reclusione ed Euro 6.000,00 di multa e per P.R. in anni 4 di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa, dichiarando P.E. in stato di interdizione perpetua dai pp.uu. e legale durante la pena, nonchè P. R. in stato di interdizione dai pp.uu. per anni 5;

E) dichiarato la penale responsabilità degli imputati: C. P. e D.D.G. in ordine al reato di cui al capo sub L1) e, applicata la diminuente per il rito, condannato entrambi alla pena di anni 10 e mesi 8 di reclusione ciascuno; di G. C. in ordine al reato di cui al capo sub I) e, applicata la diminuente per il rito, condannato il predetto alla pena di anni 8 e mesi 8 di reclusione; di M.T. in ordine al reato di cui al capo sub A) e, applicata la diminuente per il rito, condannata la stessa alla pena di anni 8 di reclusione; di C.A., in ordine al reato di cui al capo sub C1) e, applicata la diminuente per il rito, condannato il medesimo alla pena di anni 8 e mesi 8 di reclusione; ha inoltre dichiarato i predetti imputati in stato di interdizione perpetua dai pp.uu. e in stato di interdizione legale durante l'espiazione della pena, condannandoli al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio;

F) dichiarato la penale responsabilità di L.D.B.A., in ordine ai reati di cui ai capi sub A) e sub B), e ritenuta la continuazione tra i detti capi e quelli di cui al capo sub I) ed al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, esclusa per quest'ultimo l'aggravante di cui all'art. 80 del D.P.R. sopra citato, applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni 16 e mesi 8 di reclusione;

G) revocato la interdizione legale durante la pena nei confronti di AM.An., L.D.B.U. e Ce.Ca. e sostituito nei loro confronti alla pena dell'interdizione perpetua dai pp. uu. quella temporanea per la durata di anni 5;

H) confermato nel resto le impugnate pronunzie, condannando al pagamento delle spese processuali del grado gli imputati: A. R.; A.F.; A.A.; B.G.;

B.F.; m.a.; Ar.An.;

Ca.Ca.; C.R.; C.T.; C. G.; D.L.; D.P.T.; E.F.;

E.P.; F.G.; G.G.;

GR.Ma.; I.F.; L.D.B.A.;

L.P.; M.A.; Ma.An.;

M.O.; M.D.; N.E.; P. E.; P.R.; P.V.; P.A.;

S.D.; S.G.; S.S.;

V.M.; A.M.; C.L.;

E.M.; GA.Ge.; M.C.;

P.G.; M.M.; M.R.;

C.C.; S.O.;

I) ordinato la trasmissione degli atti al G.I.P. presso il Tribunale Napoli per omessa pronuncia nei confronti di Ce.Ca. in relazione al reato di cui al capo sub B), di C.L. in relazione al reato di cui al capo sub I) e di E.M. in relazione a quello di cui al capo sub T2);

L) ordinato, infine, il dissequestro del computer e la sua restituzione a S.S..

2. Sulla base del materiale probatorio costituito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dalle risultanze delle operazioni di intercettazione telefonica ed ambientale, dagli esiti dell'attività investigativa e dai fatti accertati in sentenze irrevocabili, ovvero da altri provvedimenti giudiziari, la Corte d'appello di Napoli ha ricostruito le complesse vicende storico-fattuali oggetto della regiudicanda, concentrando in particolare la sua attenzione sulle direttrici relative ai seguenti, fondamentali, temi d'accusa: 1) i fatti delineati nel capo sub B) - art. 416 bis c.p. - relativo alla esistenza dell'associazione per delinquere di stampo camorristico facente capo a D.L.P. sino all'ottobre 2004; 2) i fatti individuati nel capo sub A) - art. 416 bis c.p. - relativo alla nascita, all'interno del predetto sodalizio, di un gruppo avversario, denominato degli "scissionisti" o degli "spagnoli", ovvero il gruppo "AMATO-PAGANO"; 3) i fatti di cui al capo sub I), relativo all'associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, contestati con condotta perdurante, correlata al gruppo AMATO-PAGANO;

4) i fatti indicati nel capo sub C) - art. 416 bis c.p., relativi alla perduranza dell'organizzazione criminale indicata al capo sub B), con gli inevitabili mutamenti indotti dalla su indicata scissione, dalla data del novembre 2004 in poi; 5) i fatti relativi al capo sub L1), concernenti l'associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, correlata al "gruppo DI LAURO dal novembre 2004 al febbraio 2006".

Al riguardo, la Corte di merito ha posto in rilievo come il preesistente "clan DI LAURO" operasse fin dal 1981 sul territorio di Napoli (nei quartieri nord-orientali di Secondigliano e Scampia, nonchè nei limitrofi Comuni di Melito, Mugnano e Casavatore), con interessi concentrati soprattutto nei settori della droga, del contrabbando e delle estorsioni. Ha dato conto, inoltre, delle sue modalità di organizzazione ed intervento sulle aree territoriali sottoposte al suo controllo, descrivendo la progressiva evoluzione delle vicende che, sin dall'aprile del 2003, portarono alla diaspora dei c.d. "scissionisti" ed allo scontro tra le due fazioni, la c.d. "faida" di Scampia o di Secondigliano, che cessò con una tregua nel 2005.

In tal senso, i Giudici di merito hanno ricostruito e messo in luce i presupposti storico-fattuali che determinarono l'allontanamento di alcuni affiliati dal predetto "clan", con la conseguente formazione di un autonomo gruppo, denominato per l'appunto degli "scissionisti", che scatenò una cruenta contrapposizione tra i due sodalizi, generando uccisioni, ferimenti, agguati in danno ed a carico dell'una e dell'altra fazione, con la morte di oltre settanta persone nell'arco temporale ricompreso fra il 2003 ed il 2005. Coloro che riuscirono a coagulare il crescente dissenso dei sodali e ad agevolare quindi la scissione, convogliandola verso la formazione di un autonomo gruppo, furono A.R. e P.C., donde la denominazione del gruppo "Amato-Pagano", ovvero, ancora, degli "Spagnoli", dalla nazione ove essi decisero di appoggiarsi, assieme ai loro più stretti familiari. Questo gruppo, proseguono i Giudici di merito, non perse mai i contatti con gli altri affiliati rimasti scontenti della nuova gestione, ed operanti ancora sul territorio campano: coloro che si erano appoggiati in Spagna, infatti, raggiungevano il territorio italiano in maniera riservata anche nel periodo in cui stava maturando la scissione e, a loro volta, erano raggiunti in Spagna per concordare la strategia da assumere assieme ai diversi affiliati che portavano loro aggiornamenti sulla situazione nel territorio napoletano.

Dal territorio spagnolo, ed in particolare dalla città di Barcellona e da altre città della Costa del Sol, l' A.R. inviava denaro, armi, droga ed anche uomini facenti parte dei c.d. "gruppi di fuoco"; alcuni affiliati da tempo risiedevano, anche stabilmente, nel territorio spagnolo, per collaborare con l' A.R. nelle attività relative al traffico internazionale di stupefacenti che questi gestiva proprio dall'estero. Tale organizzazione, decentrata nel territorio ispanico, consentiva di far giungere sul territorio controllato dal "clan Di Lauro" tutte le partite di droga necessarie a rifornire le c.d. "piazze di spaccio", nonchè gli altri "clan" che ne facevano richiesta.

Sulla base delle risultanze probatorie offerte, in particolare, dal contributo narrativo dei collaboratori di giustizia e dagli esiti delle attività d'intercettazione, la Corte territoriale ha quindi ricostruito le diverse vicende che segnarono il conflitto tra le due fazioni, sino a sancire la prevalenza dell'alleanza scissionista, strutturata attorno all'asse, anche familiare, degli Amato-Pagano. Di tale organizzazione sono stati poi individuati la struttura, sempre meno di tipo federativo rispetto a quella del "clan Di Lauro", i rapporti di forza e di alleanza intercorsi con gli altri sodalizi criminali, la capacità di esercitare - avvalendosi di illeciti rapporti intrattenuti con esponenti delle Forze dell'ordine, e facendo leva sul sostegno economico ai sodali ed alle loro famiglie, nonchè sulla disponibilità di armi, alloggi e covi, autovetture e capitali - un capillare controllo del territorio attraverso i suoi affiliati, oltre ad una rilevante capacità economica, sia illecita che lecita, che le ha consentito di agire con modalità imprenditoriali sul circuito economico legale nazionale ed internazionale.

Alla cattura dei capi degli opposti schieramenti - ossia A. R. e D.L.C. - raggiunti da due distinti provvedimenti cautelari emessi l'8 dicembre 2004 ed il 26 gennaio 2005, seguì la fine della "faida", con la definizione di un accordo sancito attraverso una tregua raggiunta fra le due organizzazioni, i cui termini prevedevano, sulla base della costruzione di un nuovo sistema di alleanze, che nessuno dei due gruppi sconfinasse dal proprio ambito territoriale di riferimento.

3. Avverso la predetta sentenza della Corte d'appello di Napoli hanno proposto ricorso per cassazione i seguenti imputati, deducendo i motivi di doglianza qui di seguito rispettivamente riassunti.

3.1. B.A. e m.a. (rispettivamente condannati alla pena di anni tredici e mesi 4 di reclusione per i reati sub C) ed L1), ed a quella di anni cinque e mesi quattro di reclusione, per il solo capo sub L1) hanno proposto personalmente ricorso, lamentando la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), non avendo la Corte territoriale motivato in maniera congrua e logica i profili della pena concretamente irrogata e della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche.

3.2. P.A. condannato alla pena di anni nove e mesi quattro di reclusione per il reato di cui al capo sub A) ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, lamentando:

a) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'art. 192 c.p.p. - per l'erronea applicazione dei principii in tema di valutazione dell'attendibilità estrinseca dei collaboratori di giustizia, stante l'assenza di riscontri esterni ed individualizzanti quanto ai fatti oggetto di contestazione - ed in relazione agli artt. 110, 40 e 416 bis c.p., per l'insufficienza degli elementi di prova posti a fondamento del reato associativo ascrittogli sub A), stante il carattere lacunoso e generico delle intercettazioni telefoniche e delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia in merito al ruolo di spicco che egli avrebbe ricoperto nel clan camorristico Amato-Pagano: al riguardo non emerge, infatti, alcuna indicazione di fatti concreti, nè viene specificata la collocazione temporale della condotta addebitatagli;

b) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione agli artt. 62 bis, 69, 132 e 133 c.p., per l'erronea quantificazione della pena, che avrebbe dovuto essere contenuta nei minimi edittali in ragione dello stato di incensuratezza dell'imputato, dell'assenza di ulteriori procedimenti pendenti e della ridotta entità della sua partecipazione alla compagine associativa oggetto della regiudicanda.

3.3. M.O. - condannato alla pena di anni otto di reclusione per il reato di cui al capo sub A) - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, lamentando:

a) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., lett. e), art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 6, rinviando la motivazione dell'impugnata sentenza alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ed al contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, senza alcuna disamina del contributo causale offerto al perseguimento dei fini illeciti dell'associazione di cui al capo sub A) e senza la descrizione di specifici episodi attinenti al ruolo esecutivo di "vedetta" (scorta ai capi, vigilanza delle piazze di spaccio) a lui addebitato;

b) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'art. 192 c.p.p. - per l'erronea applicazione dei principii in tema di valutazione dell'attendibilità estrinseca dei collaboratori di giustizia Pa.An. e Pr.Ma., stante l'assenza di riscontri esterni ed individualizzanti quanto all'affermata affiliazione dell'imputato al clan degli "scissionisti"- ed in relazione agli artt. 110, 40 e 416 bis c.p., per l'inosservanza della legge penale quanto agli elementi integrativi del concorso di persone nel reato ed al principio di personalità della responsabilità penale, stante la genericità delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, il cui contenuto, solo presuntivamente dedotto, nulla aggiunge al racconto dei collaboratori, ed anzi conferma il carattere non univoco ed "esiguo" degli elementi fattuali a carico;

c) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione agli artt. 62 bis, 69, 132 e 133 c.p., per l'erronea quantificazione della pena, che avrebbe dovuto essere contenuta secondo criteri di proporzionalità, tenendo conto degli elementi di segno positivo (in particolare, dell'esercizio di un'attività lavorativa e dell'assenza di precedenti penali o di pendenze giudiziarie per fatti analoghi o diversi) indicati nei motivi di gravame al fine di giustificarne la riduzione.

3.4. B.F., F.G. e M.A. rispettivamente condannati alle pene di anni dieci e mesi otto di reclusione (per i reati di cui ai capi sub A) e B), di anni otto di reclusione (per il reato di cui al capo sub A) e di anni nove e mesi quattro di reclusione (per il reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, di cui al capo sub L1) - hanno proposto ricorso a mezzo del loro difensore, Avv. Giuseppe Ricciulli, deducendo:

a) il vizio di motivazione apparente ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), non consentendo l'impugnata pronuncia di seguire il percorso logico-giuridico che ha indotto la Corte territoriale a confermare la sentenza di primo grado, sia in ordine alla valutazione di attendibilità estrinseca ed intrinseca delle chiamate in correità da parte dei collaboratori, sia per quel che attiene alla valutazione del contenuto delle intercettazioni telefoniche, oltre che in merito agli elementi indicativi dell'esistenza dell'associazione prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e del ruolo in essa rivestito dagli imputati;

b) l'inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 416 bis c.p., in relazione alla posizione di F.G. e B. F., difettando qualsiasi indicazione idonea a fornire un connotato concreto di illiceità alle condotte descritte dai collaboratori, stante il generico riferimento ad un'affiliazione, senza alcuna precisazione del contributo partecipativo determinante da essi prestato alla vita dell'associazione;

c) vizi di motivazione ed erronea applicazione delle norme di cui agli artt. 62 bis, 132 e 133 c.p., difettando l'indicazione delle ragioni che hanno condotto la Corte a non riconoscere le attenuanti generiche invocate in sede di gravame, nonchè dei criteri valutativi adottati nell'applicazione della sanzione inflitta;

d) erronea applicazione della legge penale in relazione all'applicazione della sanzione prevista dall'art. 416 bis c.p. (capo suo A) dell'imputazione), così come modificata dalla L. n. 125 del 2008, avendo la difesa illustrato i fatti che consentivano di ritenere cessata la permanenza associativa in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, o, quanto meno, non provata la permanenza del vincolo associativo dopo l'anno 2005, e non essendovi alcuna certezza che la cessazione della permanenza sia avvenuta dopo l'entrata in vigore della su citata, e meno favorevole, novella legislativa.

3.4.1. Nell'interesse di M.A., inoltre, ha proposto ricorso per cassazione anche un altro difensore di fiducia, Avv. Roberto De Fusco, deducendo il vizio di violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 ed all'art. 530 c.p.p., in quanto la Corte d'appello si è limitata ad elencare le intercettazioni telefoniche ed ambientali riguardanti presumibilmente l'imputato, senza offrirne alcuna valutazione critica e senza procedere alla certa identificazione del M.A..

La Corte, inoltre, non ha valutato l'ipotesi alternativa prospettata dalla difesa circa il travisamento dei fatti in ordine alla contestata partecipazione dell'imputato alla consorteria criminale, ed in particolare il fatto che, per gran parte del periodo in contestazione, egli si è trovato in stato di detenzione ed in condizioni fisiche tali da impedirgli di rendersi utile all'associazione e di parteciparvi in modo attivo e consapevole.

3.5. N.E. (condannato alla pena di anni venti di reclusione per i reati di cui ai capi sub A), B) ed I) dell'imputazione) ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, lamentando:

a) la nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e lett. e), in relazione all'art. 192 c.p.p., sia per quel che attiene alla prova certa della sua partecipazione all'associazione per delinquere denominata "clan Di Lauro", sia per quel che attiene alla ritenuta sussistenza dell'aggravante della qualità di promotore, tenuto conto delle palesi discrasie ravvisabili nelle - peraltro generiche - dichiarazioni rese dai collaboratori (segnatamente, da Mi.Gi. e M.E.Z.) circa l'appartenenza del ricorrente al predetto sodalizio ed il ruolo che vi avrebbe in concreto esercitato;

b) la nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e lett. e), in relazione all'art. 192 c.p.p., per quel che attiene ai profili dell'appartenenza all'associazione di stampo camorristico di cui al capo sub A) e della relativa aggravante di esserne uno dei promotori o dirigenti, non avendo la Corte d'appello evidenziato, al riguardo, quali elementi probatori consentano di sostenere che, a seguito della scissione dal "clan Di Lauro", i soggetti protagonisti abbiano dato vita contemporaneamente ad un'autonoma associazione di stampo camorristico e ad una più peculiare associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74; nè, inoltre, possono ritenersi rilevanti, ai fini della configurabilità della suddetta aggravante, il semplice fatto che il ricorrente sia stato ritenuto uno degli appartenenti al gruppo armato dell'associazione, ovvero l'episodio di un "favore" legato ad una richiesta di punizione da lui avanzata al Ci.

S. per motivi di sgarbo familiare, e da quest'ultimo, peraltro, neppure evasa;

c) la nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e lett. e), in relazione all'art. 192 c.p.p., per quel che attiene alla sussistenza di un'autonoma associazione di cui al su menzionato art. 74 (capo sub I) ed alla ritenuta aggravante di esserne uno dei promotori, poichè il ricorrente, pur descritto nella motivazione della sentenza impugnata quale gestore di una o più piazze di spaccio, non può, per ciò solo, essere ritenuto uno dei dirigenti dell'associazione, rinviando la stessa "gestione" della piazza a concetti di rifornimento, di approvvigionamento e di rendicontazione che stridono con il ruolo di capo o promotore;

d) la nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e lett. e), per carenze motivazionali in relazione alla quantificazione della pena, agli aumenti per la continuazione e per la recidiva, ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

3.6. L.D.B.U. ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, lamentando la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), in relazione all'art. 192 c.p.p., non avendo la Corte d'appello preso in esame le istanze e richieste difensive avanzate in sede di gravame.

3.7. C.C. - condannato alla pena di anni dieci di reclusione per il reato di cui al capo sub A), ritenuto in continuazione con quelli di cui ai capi sub S), S1) ed S2) - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore (Avv. Valerio de Martino), deducendo:

a) la nullità del procedimento di primo grado per la violazione del diritto di difesa verificatasi a mezzo dell'omissione dell'avviso, al predetto difensore, della fissazione del giudizio camerale nelle forme del rito abbreviato;

b) la nullità della sentenza per la violazione del diritto di difesa denunziata nell'atto di appello, riguardo alla carenza di motivazione ed alla violazione delle norme relative alla notifica dell'avviso al difensore della fissazione del giudizio di prime cure (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e lett. e).

3.7.1. Nell'interesse del C.C. ha altresì proposto ricorso per cassazione altro difensore di fiducia (Avv. Lucio Mariano Sena), formulando le censure di seguito sinteticamente illustrate.

1) Violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all'art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 180 c.p.p., poichè ad uno dei difensori, l'avv. Valerio de Martino, non è stato mai notificato l'avviso di fissazione dell'udienza camerale dinanzi al G.i.p., a seguito della notifica del decreto di giudizio immediato e della scelta dell'imputato di accedere al rito abbreviato. La motivazione al riguardo fornita dalla Corte d'appello non può essere condivisa, poichè non tiene conto delle peculiarità del caso concreto, essendo stato l'avviso regolarmente notificato, ma ad altro avvocato, omonimo del primo, e presso altro studio professionale: se è vero che il difensore presente in udienza ha l'onere di sollevare la relativa eccezione, è anche vero che tale onere non si spinge sino al punto di dover verificare le ragioni della mancata comparizione del codifensore.

2) Violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e lett. e), in relazione all'art. 416 bis c.p., ed all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., art. 533 c.p.p., comma 1, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per avere la Corte d'appello condannato il C.C. sulla scorta di indizi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, contenendo le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia riferimenti tropo generici ed insufficienti a dare atto dell'affectio societatis, oltre che contraddette, nel caso del D.B., dalle dichiarazioni di altri collaboratori ( Pa.An.) e da altri elementi di prova acquisiti al giudizio.

3.8. A.F. (condannato per i reati di cui ai capi sub A) e B) ha proposto ricorso a mezzo dei suoi difensori, lamentando la violazione dell'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), art. 416 bis c.p. e art. 192 c.p.p., comma 3, in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), sull'assunto dell'erronea valutazione del contenuto della conversazione intercettata in data 15 gennaio 2006 (n. 93), che non reca alcuna indicazione sulla natura delle attività illecite specificamente attribuibili al ricorrente ed omette di considerare elementi di prova favorevoli e di rilievo decisivo, dalla difesa prospettati nei motivi d'appello: dalle dichiarazioni rese dai collaboratori Pr. e Pi.An. si evince, infatti, che il ricorrente non è un soggetto organico dell'associazione ex art. 416 bis c.p., ma una persona esclusivamente impegnata nelle attività di vendita al dettaglio dello stupefacente, e dunque incaricata dello svolgimento di attività riconducibili ad ipotesi di reato ben diverse da quelle oggetto di condanna.

3.9. S.S. (condannato alla pena di anni otto di reclusione per il reato di cui al capo sub L1) ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, Avv. Antonio Abet, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) violazione di legge ed erronea applicazione dell'art. 192 c.p.p. e del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, in ordine alla valutazione delle intercettazioni ambientali, quale unica fonte di prova a carico del ricorrente, con conseguente manifesta illogicità della motivazione e travisamento del fatto per quel che inerisce alla loro interpretazione ed alla mancanza di riscontri alle dichiarazioni rese dal collaboratore Pi.An. (peraltro generiche e riguardanti non il delitto qui contestato, ma un altro fatto di reato).

La motivazione, in particolare, viene ritenuta carente in ordine alla rilevanza delle videoriprese, dalle quali non è possibile evincere alcun tipo di attività di cessione di stupefacenti, nonchè in merito alle deduzioni difensive circa la provenienza delle somme di denaro che vi si vedono maneggiate dal ricorrente, in quanto non riconducibili all'attività contestata, ma frutto di alcune scommesse clandestine.

La genericità delle intercettazioni ambientali, inoltre, al di là del dato, di per sè insufficiente, della mera presenza del ricorrente nell'area territoriale ove si verificavano le attività di spaccio, non consente di rinvenire alcun elemento dimostrativo del suo stabile inserimento in un contesto associativo, nè di un preteso ruolo di controllo del territorio, stante l'assenza di condotte delittuose oggettivamente riscontrate.

Peraltro, al di là dell'irrilevanza del contenuto dell'intercettazione n. 380 del 7 febbraio 2005, intercorsa con il coimputato B.A., vi sarebbero dubbi sull'identificazione di uno degli interlocutori nella persona del ricorrente, identificazione avvenuta sulla base di un elemento di prova ricavato da una annotazione di P.G. del 24 giugno 2005 - non presente agli atti - in cui si asserisce sic et simpliciter l'avvenuto riconoscimento della voce dell'imputato, senza spiegarne le modalità.

Si tratta, dunque, di una risultanza probatoria affetta da inutilizzabilità patologica, in quanto acquisita con modalità sconosciute, ma soprattutto inidonea costituire la prova certa dell'appartenenza all'associazione, tenuto conto del fatto che l'omessa identificazione inficia anche la ricostruzione delle altre conversazioni oggetto di intercettazione.

Parimenti non significative, al riguardo, devono ritenersi le risultanze offerte dalle intercettazioni n. 941 e n. 3121 del 7 giugno 2005, il cui contenuto non mostra alcunchè di rilevante ai fini dell'asserito coinvolgimento del ricorrente nell'attività di spaccio.

Del tutto labili, e privi di significato univoco, risultano, poi, gli esiti dei servizi di osservazione e videoripresa effettuati dalla P.G., nel periodo ricompreso fra il 30 settembre ed il 15 ottobre 2005, presso l'abitazione del coimputato C.P. - ritenuta dagli investigatori la base operativa del narcotraffico, ed in particolare la centrale di raccolta del denaro provento delle attività di spaccio - tenuto conto del mancato rinvenimento di somme di denaro, del carattere innocuo e totalmente irrilevante dei comportamenti oggetto di osservazione, nonchè del fatto che il ricorrente abita proprio nei pressi della casa del C.P., sicchè la sua presenza in loco non può assumere il significato che le è stato attribuito, risultando essere, in realtà, una circostanza del tutto naturale e neutra.

B) Violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), per omessa valutazione della memoria difensiva in ordine all'identificazione del ricorrente, laddove si sottolineava, senza risposta da parte della Corte territoriale, come non risultasse agli atti l'annotazione dell'operazione di P.G. del 24 giugno 2005 e si ignorassero, altresì, i dati relativi all'autore ed alle modalità del relativo riconoscimento vocale: circostanza, questa, di valore pregnante, poichè le conversazioni ambientali risultano essere l'unica fonte d'accusa a carico del ricorrente.

3.9.1. Con ulteriore ricorso proposto nell'interesse di S. S. a mezzo di altro difensore, Avv. Diego Abate, si deducono carenze motivazionali riguardo alle modalità del riconoscimento vocale del ricorrente ed alla utilizzabilità di un'operazione di ascolto incerta anche sull'autore.

Insufficienti, inoltre, vanno ritenute sia le risultanze dell'osservazione filmata, che non forniscono la prova della partecipazione al sodalizio criminale in assenza di un'attività di sequestro di stupefacenti nel periodo e nei luoghi oggetto di osservazione, sia i necessari riscontri delle dichiarazioni accusatorie formulate dall'unico collaboratore di giustizia, Pi.

A., sulla cui attendibilità intrinseca, peraltro, nessun vaglio è stato effettuato dalla Corte partenopea.

Non soddisfacente, infine, deve ritenersi la parte della motivazione relativa al trattamento sanzionatorio ed al diniego delle attenuanti generiche, tenuto conto anche della risalente collocazione temporale dei precedenti penali.

3.10. L.D.B.A. (condannato per i reati di cui capi sub A), B) ed I) ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, lamentando:

a) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, art. 416 bis c.p. e art. 192 c.p.p., poichè la motivazione dell'impugnata pronuncia - che ha riformato quella di assoluzione emessa, per i delitti di cui ai capi sub a) e b), all'esito del giudizio di primo grado - si fonda su dichiarazioni di collaboratori il cui generico contenuto non consente di individuare elementi sufficienti per ritenere l'imputato partecipe anche delle associazioni di cui all'art. 416 bis c.p.: al riguardo, infatti, l'unico collaboratore di giustizia - il Pr.

M. - che individua un ruolo ulteriore e diverso che il L. D.B.A. avrebbe assunto rispetto a quello della sola gestione degli stupefacenti (ossia, lo svolgimento di compiti di guardaspalle), rende sul punto dichiarazioni prive di riscontro;

insufficienti e lacunose appaiono, inoltre, le risultanze delle intercettazioni ambientali menzionate nella motivazione dell'impugnata decisione, il cui contenuto non consente di ritenere dimostrata la condivisione e l'opera prestata in settori diversi da quello relativo agli stupefacenti;

b) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, art. 533 c.p.p., art. 441 c.p.p., comma 5 e art. 603 c.p.p., risultando le affermazioni dei Giudici di merito smentite dall'elaborato tecnico del consulente di parte, secondo cui era impossibile, in considerazione della distanza dal punto di osservazione e delle scarsissime condizioni di visibilità descritte, ipotizzare una nitida percezione, da parte dei verbalizzanti, di coloro che transitavano sul lastrico solare al fine di occultare lo stupefacente poi rinvenuto: conclusione, questa, che i Giudici di merito avrebbero potuto contraddire solo attraverso un'eventuale integrazione istruttoria;

c) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione all'art. 62 bis c.p., non avendo la Corte d'appello adeguatamente valorizzato, per un verso, l'ottimo comportamento processuale dell'imputato, sfociato in una piena ammissione delle proprie responsabilità con riferimento al delitto di cui al capo sub I), e, per altro verso, il ruolo da gregario da lui rivestito all'interno della compagine associativa, essendo sostanzialmente addetto alla vigilanza delle piazze di spaccio;

d) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione agli artt. 133 e 81 c.p. e art. 3 Cost., stante la eccessiva severità del trattamento sanzionatorio, palesemente sproporzionato rispetto alle posizioni di altri coimputati, S.V. e V.M., nonostante agli stessi fosse stato addebitato il medesimo ruolo all'interno della compagine associativa D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74.

3.11. D.M.V. (condannato per i reati di cui ai capi sub A), B) ed I) ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, lamentando violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, con particolare riferimento ai punti di seguito evidenziati:

a) per quel che attiene al reato di cui al capo sub I) - D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 - la Corte d'appello fa riferimento al contenuto di conversazioni intercorse su un'utenza mobile accertata essere in uso al ricorrente, senza però indicarne la rilevanza come prova del suo inserimento, oltre che nell'associazione di cui al capo sub A) - art. 416 bis c.p., relativo al "clan" Amato-Pagano - nella parallela associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti; inoltre, la prova del suo coinvolgimento nel delitto associativo di cui al capo sub I) viene affermata sulla base della dichiarata esistenza di una pluralità di contatti telefonici con il M.F. ed il R.S., nonchè dell'utilizzo di telefoni cellulari riservati ai contatti illeciti con i sodali - per la gestione dell'attività relativa al commercio di stupefacenti - travisando, tuttavia, i risultati della prova acquisita per le ragioni appresso indicate:

a1) l'unica utenza cellulare stabilmente in uso al D.M.V. è stata intercettata per diversi mesi, senza condurre all'acquisizione di elementi di prova che ne attestassero la partecipazione all'associazione finalizzata al commercio di stupefacenti;

a2) la pluralità di "contatti telefonici" sulla cui base l'impugnata sentenza ha attribuito al ricorrente il ruolo di affiliato all'associazione non è stata mai verificata, tanto che la stessa motivazione riporta la sintesi di un'unica, occasionale, conversazione telefonica intercorsa con il M.F. l'11 luglio 2005, dal cui contenuto, anche in ragione del linguaggio ivi utilizzato, non è possibile desumere la prova che egli conoscesse i soggetti riforniti dal M.F., ovvero che vi fossero dei contatti con gli altri affiliati, per la gestione della piazza di spaccio facente capo al N.E.;

a3) non è stata data risposta ai dubbi sollevati nei motivi d'appello relativi alla identificazione, nella persona del ricorrente, di uno degli interlocutori della conversazione dell'11 luglio 2005, trattandosi di un dato fattuale - identificazione basata unicamente sul riconoscimento della voce da parte della P.G. - non supportato da garanzie di certezza;

a4) non sono stati valutati dalla Corte d'appello gli elementi di prova favorevoli, rappresentati dalle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia intranei all'associazione di cui al capo sub I) - ossia, D.B., Pi.Gi. e P. A. - che mai hanno indicato il D.M.V. tra i soggetti coinvolti nel settore del commercio degli stupefacenti riferibile al gruppo c.d. degli scissionisti;

b) per quel che attiene al reato di cui al capo sub B) - partecipazione al "clan" Di Lauro - l'unico riscontro alla chiamata in correità proveniente dal collaboratore Pr.Ma. è stato individuato dalla Corte d'appello nella dichiarazione accusatoria resa dal collaboratore Mi.Gi., sebbene la documentazione prodotta dalla difesa dimostrasse un possibile errore di persona nella valutazione delle dichiarazioni del Mi.

G. (in due provvedimenti giudiziari relativi al "clan" Misso figura, infatti, un omonimo del ricorrente).

3.12. Ar.An. e M.T. - rispettivamente condannati alle pene di anni diciotto e di anni otto di reclusione per i reati di cui ai capi sub A) - entrambi - sub C) ed L1), solo l' Ar.An. - hanno proposto ricorso a mezzo del loro difensore, deducendo vizi di violazione di legge e carenze motivazionali ex art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., art. 192 c.p.p., comma 3 e art. 187 c.p.p., non avendo i Giudici di merito rispettato i criteri di valutazione prescritti per le dichiarazioni, talvolta de relato, dei collaboratori di giustizia, in quanto generiche e tra loro non sovrapponibili, oltre che riferibili a periodi esulanti dalle contestazioni formulate nei capi di imputazione.

Nel caso di specie, infatti, i collaboratori genericamente riferiscono di "aver visto frequentare", oppure di "aver visto parlare" gli imputati con persone ritenute affiliate ai sodalizi criminali in contestazione.

Censurabile risulta, in particolare, la soluzione fornita rispetto alla questione della genericità delle dichiarazioni relative alla partecipazione degli imputati alle ipotizzate associazioni, perchè il Giudice dell'appello avrebbe dovuto riportare in motivazione il risultato cui è pervenuto attraverso la lettura integrale del contributo dichiarativo di ciascun collaboratore, previa valutazione della credibilità soggettiva di ogni dichiarante e dell'attendibilità oggettiva di ogni dichiarazione relativamente a ciascun imputato, piuttosto che fare riferimento ad un "convincente significato accusatorio", sulla base di una lettura contestualizzata di tutte le dichiarazioni rese nei confronti degli imputati.

I Giudici di merito, dunque, non hanno esposto le argomentazioni, con specifici riferimenti agli elementi di riscontro, che li hanno indotti a ritenere credibili le chiamate di correo, nè hanno effettuato la verifica estrinseca delle accuse in tal modo formulate.

3.12.1. Per quel che attiene, in particolare, alla posizione di Ar.An., la difesa deduce che le contestazioni inerenti ai reati associativi di cui ai capi sub C) ed L1) riguardano fatti che si sarebbero verificati dal novembre 2004 al febbraio 2006, mentre le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia si riferiscono ad episodi risalenti nel tempo, e dunque non utilizzabili nei confronti dell'imputato per il principio della correlazione tra prova ed imputazione.

Nessuna valenza probatoria può attribuirsi a tali dichiarazioni, poichè le stesse non solo hanno ad oggetto circostanze generiche e prive di riscontri (ad es., Mi.Gi., M.E. Z., Es.Pi. e Co.Ga.), ma si riferiscono a periodi esulanti dalle contestazioni cristallizzate nei capi sub C) ed L1), e provengono da soggetti che talvolta non hanno mai fatto parte delle associazioni ivi ipotizzate; le scarne conoscenze riferite, peraltro, non sono state apprese direttamente, ma de relato, e la relativa fonte diretta non è stata indicata.

In sede di gravame, ulteriori obiezioni erano state formulate dalla difesa in merito alle risultanze delle conversazioni tra presenti intercettate nel corso delle indagini, nonchè in merito alle risultanze del servizio di videoripresa effettuato su quello che sarebbe stato individuato come il territorio di diretta influenza del sodalizio criminale, ossia il "Rione dei Fiori (c.d. Terzo Mondo)", ma la Corte d'appello, pur in presenza di dubbi sul riconoscimento delle voci degli interlocutori, non ha fornito al riguardo alcuna motivazione, omettendo di dar conto, per quel che inerisce alla ritenuta appartenenza al "clan Di Lauro", delle ragioni che l'hanno portata ad offrire determinate interpretazioni degli esiti delle conversazioni intercettate, ovvero dei servizi di videoripresa effettuati in loco, tenuto conto del fatto che da quelle immagini non è osservabile alcun passaggio di sostanza stupefacente e che non sono state rinvenute ingenti somme di denaro.

Sulla base di elementi, erroneamente interpretati, desunti da conversazioni intercettate e da annotazioni inerenti ai servizi di appostamento, la Corte di merito perviene ad un giudizio di colpevolezza per il delitto associativo di cui all'art. 74 del su citato D.P.R., facendone poi derivare un giudizio di colpevolezza anche per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p., senza tuttavia spiegare quali dati fornirebbero la prova della sua partecipazione ad altre attività del sodalizio diverse dalla droga.

Per quel che inerisce, infine, al delitto associativo di cui al capo sub A), contestato a far data dal marzo 2006, la Corte d'appello non ha indicato gli elementi probatori da cui possa evincersi la presenza di un contributo effettivo ed attuale dell' Ar.An. all'esistenza stessa ed al rafforzamento dell'entità associativa nel suo complesso, attraverso l'assunzione di un ruolo continuativo, e comunque nell'ottica della realizzazione degli scopi propri della su menzionata associazione criminale.

3.12.2. Per quel che attiene, inoltre, alla posizione di M. T., assolta in primo grado dal delitto associativo sub A) e condannata in appello a seguito di gravame proposto dal PM., la sua responsabilità è stata affermata prendendo in considerazione solo alcune intercettazioni telefoniche e trascurando, invece, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, i quali hanno escluso che la stessa sia un'affiliata al sodalizio in oggetto.

Il primo Giudice, dunque, non aveva omesso di valutare l'intero quadro probatorio, poichè aveva preso in considerazione tutti gli elementi di prova, sia quelli risultanti dalle conversazioni intercettate, sia quelli dichiarativi, fornendo dei primi una interpretazione che non consentiva di giungere ad un giudizio di responsabilità.

Il Giudice dell'appello, per contro, ha tratto gli elementi a carico dell'imputata soltanto da alcune conversazioni oggetto di intercettazione, trascurando in toto le dichiarazioni rese dai collaboratori Pi.An. e Pa.An., i quali non hanno riferito di alcun legame di natura criminale al clan. Le stesse intercettazioni, peraltro, presentano un contenuto equivoco e non univocamente indiziante riguardo all'affiliazione dell'imputata, come evidenziato in una memoria difensiva che la Corte d'appello non ha tenuto in considerazione, anche sotto il profilo della sua partecipazione all'organizzazione dell'omicidio di De.Sa.: su tale punto, infatti, la ricostruzione del contenuto delle conversazioni telefoniche, sì come accolta nella motivazione dell'impugnata pronuncia, presenta dubbi ed anomalie specificamente evidenziate dalla difesa - anche per quel che inerisce alla identificazione di De.Sa. nel soggetto di cui parlerebbero gli interlocutori - e non trova alcun riscontro nelle dichiarazioni di Pa.An., laddove esclude una partecipazione della M.T. all'omicidio.

3.13. Ma.An. - condannato alla pena di anni dieci di reclusione per il reato associativo ex art. 416 bis c.p. - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 416 bis c.p., all'erronea applicazione della disciplina valutativa della prova ex art. 192 c.p.p. ed all'erronea valutazione dei risultati delle intercettazioni, non avendo i Giudici del merito rilevato la mancanza di certezza nell'identificazione degli interlocutori.

Si deduce, in particolare, la mancata valutazione dell'elemento a favore proveniente dalle dichiarazioni del collaboratore Pa.

A. - soggetto intraneo al sodalizio e dalla stessa Corte d'appello ritenuto attendibile - che ha chiaramente escluso l'affiliazione del Ma.An. nel corso dell'interrogatorio del 29 febbraio 2007.

La Corte d'appello, inoltre, pur in costanza di un'assoluzione non appellata in primo grado dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ha valorizzato, per dimostrare la configurabilità della condotta associativa ex art. 416 bis c.p. capo d'imputazione sub A), elementi di prova relativi a condotte strutturalmente diverse, quali quella associativa ex art. 74 del su citato D.P.R. e quella di omicidio, deducendo apoditticamente dal contenuto di alcune intercettazioni (tuttora oggetto di autonomo accertamento da parte della Corte d'assise di Napoli) l'intraneità del Ma.An. al traffico di droga ed il suo coinvolgimento nell'omicidio di De.Sa., la cui causale potrebbe essere alternativa a quella dell'omicidio di camorra.

Nè, peraltro, risulta con certezza identificato l'interlocutore delle conversazioni oggetto di intercettazione, il cui contenuto non presenta neanche i necessari connotati di chiarezza ed univocità, avuto altresì riguardo alla genericità degli elementi di riscontro offerti dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, che riferiscono di aver visto l'imputato "frequentare" o "parlare"con soggetti che "si sa" essere mafiosi.

B) Mancanza di motivazione riguardo alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche, fondata sul ruolo marginale attribuito al ricorrente in relazione ai contestati episodi delittuosi.

C) Violazioni di legge e carenze motivazionali con riferimento agli artt. 132, 133 e 81 cpv. c.p., non avendo la Corte d'appello indicato i criteri in forza dei quali ha in concreto determinato la pena, muovendo da una pena base che si discosta sensibilmente dal minimo edittale; analoghe considerazioni investono, poi, l'aumento a titolo di continuazione, operato dalla Corte rispetto alla pena per il reato più grave, già maggiorata per effetto delle aggravanti, laddove l'art. 81 prevede che l'aumento deve essere effettuato per il reato più grave, senza menzionare gli eventuali aumenti per effetto delle aggravanti.

3.14. Nell'interesse di S.O. - condannato alla pena di anni dodici di reclusione - ha proposto ricorso il suo difensore di fiducia, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 - capi sub A) ed I) - per erronea applicazione della disciplina valutativa della prova ex artt. 192 e 499 c.p.p., e per non avere i Giudici del merito rilevato la mancanza di certezza in ordine all'identificazione dei soggetti interlocutori nelle conversazioni oggetto di captazione ambientale, perchè avvenuta all'interno di un'autovettura ritenuta nella disponibilità dello S.O., ma indistintamente in uso ad un gruppo di sodali.

Sotto tale profilo, in particolare, la sentenza fonda il proprio convincimento sulla scorta di un dato incerto, aderendo acriticamente agli sconosciuti criteri utilizzati dalla P.G. in ordine all'attribuzione degli interlocutori, senza chiarire su quali basi sia avvenuto l'ipotetico riconoscimento e senza disporre alcuna perizia fonica ex art. 603 c.p.p..

Il contenuto delle conversazioni, inoltre, non può dirsi connotato dai caratteri di chiarezza e decifrabilità dei significati, nè la riferita condotta partecipativa dell'imputato a due distinti sodalizi criminali può ritenersi supportata da ulteriori riscontri, non essendo emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (ossia, D.B., Pa.An., Pi.Gi., Pr.An. e Pi.An.) il preciso ruolo che secondo l'accusa egli avrebbe svolto nell'ambito delle associazioni contestate.

La genericità delle stesse - peraltro intrinsecamente inattendibili - è tale che i collaboratori si limitano a riferire della mera presenza dell'imputato in determinate circostanze di tempo e di luogo, mentre parla (con) o frequenta soggetti ritenuti affiliati al sodalizio, senza attribuirgli alcuno specifico ruolo e senza neanche indicarne il nome.

Anche per quel che attiene alla configurabilità del reato di cui all'art. 74 del su citato D.P.R. le dichiarazioni dei su indicati collaboratori appaiono, oltre che generiche, del tutto divergenti, laddove collocano lo S.O. su due piazze di spaccio completamente diverse.

B) Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 703 e 157 c.p. e alla L. n. 203 del 1991, art. 7 (capi sub S6) ed S7), avendo l'impugnata pronuncia, erroneamente ed in modo contraddittorio, attribuito allo S.O. il ruolo di armiere del clan Amato-Pagano, laddove nessun elemento di prova in tal senso può ricavarsi dal contenuto delle intercettazioni e dalle stesse dichiarazioni dei collaboratori.

Con riferimento al capo sub S6) - per avere illecitamente detenuto un numero imprecisato di proiettili in data 15 febbraio 2006 - la contestazione evidentemente non rientra nell'ambito di applicazione proprio della norma incriminatrice contestata e la su menzionata aggravante non è alla stessa applicabile, trattandosi di un reato contravvenzionale - peraltro ormai prescritto - e non di un delitto.

Con riferimento al capo sub S7) - per avere, in concorso con altre persone, illecitamente detenuto e portato in luogo pubblico un'arma del tipo "Scarfoglio" ed il suo munizionamento, ex artt. 110 e 703 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 10 - 14 e della L. n. 203 del 1991, art. 7 - non v'è alcuna prova che la "Scarfoglio" sia propriamente un'arma, pur avendo la Corte apoditticamente ritenuto che si tratti di una pistola, nè dalle intercettazioni risulta che la condotta delittuosa si sia consumata, emergendo solo che tale Ba.

chiede allo S.O. di procurargli quell'oggetto, senza che la richiesta risulti essere stata poi adempiuta.

C) Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 605 c.p. e alla L. n. 203 del 1991, art. 7 (capo sub T), in ragione dell'assenza di elementi di prova riguardo all'ipotizzato reato, laddove l'unico reato che potrebbe configurarsi nel caso in esame è quello delle lesioni ex art. 582 c.p..

D) Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche, nonostante la marginalità del ruolo attribuito al ricorrente in relazione agli episodi oggetto di contestazione.

E) Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 132 e 133 c.p., art. 81 c.p., u.c., non avendo la Corte d'appello indicato i motivi che l'hanno indotta a discostarsi sensibilmente dal minimo edittale, ai fini dell'individuazione della pena in concreto applicabile; erroneo, inoltre, risulta l'aumento a titolo di continuazione, in quanto operato rispetto alla pena già maggiorata per effetto delle aggravanti.

3.15. C.G. - condannato in primo grado alla pena di anni cinque di reclusione per il reato di cui all'art. 418 c.p., aggravato dalla L. n. 203 del 1991, art. 7 così qualificata l'originaria imputazione sub A), ed assolto dai reati-satellite contestati - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazione di legge in relazione all'art. 418 c.p. e alla L. n. 203 del 1991, art. 7 ed erronea applicazione della disciplina valutativa della prova ex art. 192 c.p.p., avuto riguardo alla genericità ed all'assenza di riscontri individualizzanti nelle chiamate in correità provenienti dai collaboratori di giustizia, ed in particolare da D.B., Pi.Gi., P. A., Pr.An. e V.S., che fanno riferimento, talora sulla base di fonti de relato e senza essere neanche in grado di indicarne il nome, ad un generico ruolo di "vivandiere" svolto dall'imputato in favore degli associati al sodalizio Amato-Pagano. Anche la riferita presenza del C. G. alla riunione tra i vertici che sarebbe avvenuta in Bacoli è oggetto di dichiarazioni de relato, senza il conforto di riscontri esterni certi e dotati di efficacia individualizzante. Nè, infine, è possibile rinvenire, nelle affermazioni dei propalanti, alcun riferimento al contributo che egli avrebbe apportato nella consumazione dei reati-scopo del'organizzazione.

B) Mancanza di motivazione riguardo alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche, fondata sul ruolo marginale attribuito al ricorrente in relazione ai contestati episodi delittuosi.

C) Violazioni di legge e carenze motivazionali con riferimento agli artt. 132, 133 e 81 cpv. c.p., non avendo la Corte d'appello indicato i criteri in forza dei quali ha in concreto determinato la pena, muovendo da una pena base che si discosta sensibilmente dal minimo edittale; analoghe considerazioni investono, poi, l'aumento a titolo di continuazione, operato dalla Corte rispetto alla pena per il reato più grave, già maggiorata per effetto delle aggravanti, laddove l'art. 81 c.p. prevede che l'aumento deve essere effettuato per il reato più grave, senza menzionare gli eventuali aumenti per effetto delle circostanze aggravanti.

3.16. L.P. - condannato alla pena complessiva di anni dieci e mesi otto di reclusione per i reati di cui ai capi sub A) e B) - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazione di legge in relazione all'art. 192 c.p.p., comma 3, art. 125 c.p.p., artt. 63 e 64 c.p.p. e carenze motivazionali nella parte della sentenza in cui si afferma la convergenza tra le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia.

In relazione al reato di cui al capo sub B) - relativo alla partecipazione al "clan Di Lauro"- la Corte d'appello ha ritenuto il L.P. inserito in tale consorteria criminale sino al 2006, senza che nessuna delle dichiarazioni acquisite indichi con precisione i termini specifici di tale affiliazione; sono state al riguardo valorizzate le dichiarazioni rese dalla persona offesa in relazione al reato di cui al capo sub U) della rubrica - da cui il L.P. è stato assolto in primo grado - ossia g.

g., sebbene le stesse fossero inutilizzabili per violazione dell'art. 63 c.p.p., comma 2, e srt. 64 c.p.p., poichè fin dal primo momento, sulla base di quanto affermato dal G.u.p. nella sentenza di primo grado, egli avrebbe dovuto rivestire la qualifica di indagato di procedimento connesso: il g.g., infatti, non sarebbe stato vittima di una condotta estorsiva, dal momento che il rapporto con il "clan" egemone sul territorio si caratterizzava per un accordo, in base al quale gli sarebbe stata garantita la gestione del parcheggio di un centro commerciale, ed egli, a fronte di tale conferimento, si sarebbe impegnato a versare la somma di Euro cinquemila mensili all'organizzazione.

Escludendo le dichiarazioni rese dal g.g. - quale indiziato di reato cui avrebbero dovuto applicarsi le garanzie ex art. 63 c.p.p. - nessun elemento dimostrativo della partecipazione dell'imputato all'organizzazione criminale del "clan Di Lauro" emerge dalle chiamate in reità de relato provenienti dai collaboratori di giustizia: il Pa.An., infatti, riferisce circostanze non direttamente percepite, ma apprese da altri imputati, e le sue dichiarazioni non sono riscontrate da quelle del Pr.An. - che non ha riconosciuto in foto la persona del ricorrente (circostanza che aveva indotto il G.u.p. a ritenerne l'inutilizzabilità a fini di accusa) -nè da quelle del Pi.

A., che non ricorda il nome del ricorrente e nulla di preciso riferisce circa la sua intraneità alla consorteria capeggiata da D. L.P., o da quelle di altri collaboratori (ad es., il Pr.Ma., le cui dichiarazioni, del tutto generiche, sono state effettuate dopo l'emissione del provvedimento genetico).

Privo di efficacia individualizzante, inoltre, deve ritenersi il riscontro proveniente dai controlli dell'imputato in compagnia del B.F. o del ba., che non consentono di attribuire il fatto-reato in contestazione al L.P..

Per quel che attiene, poi, alla ritenuta partecipazione al reato associativo di cui al capo sub A) - consorteria Amato-Pagano, ovvero gruppo degli "scissionisti" - è totalmente assente nella pronuncia della Corte d'appello il percorso argomentativo teso a spiegare le ragioni della ritenuta intraneità del ricorrente alla predetta organizzazione criminale.

B) Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), in relazione agli artt. 62 bis, 81 e 133 c.p., per carenze motivazionali in merito al diniego del riconoscimento delle invocate attenuanti generiche, nonchè riguardo alla mancata indicazione dei criteri in concreto utilizzati nella determinazione della pena e per l'applicazione del reato continuato (il cui aumento, pari a quattro anni, pare decisamente sproporzionato rispetto alle specifiche condotte contestate al L.P.).

3.17. B.G. - condannato alla pena di anni nove e mesi quattro di reclusione per il reato associativo di cui al capo sub A) dell'imputazione - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore, deducendo violazione di legge e carenze motivazionali in relazione al reato di cui all'art. 416 bis c.p., avendo la Corte d'appello affermato la colpevolezza del ricorrente sulla base di dichiarazioni etero-accusatorie che necessitavano di un vaglio critico maggiore in punto di attendibilità estrinseca dei collaboratori.

Alcuni di essi, infatti, hanno limitato il ricordo ad incontri isolati, sulla base di deduzioni slegate da conoscenze dirette o anche solo mediate, senza porre in risalto l'organicità del ricorrente al "clan degli scissionisti" ( D.B. e M. G.).

La disponibilità di alcune strutture nel "lotto G", presso cui trovavano alloggio e ricovero gli affiliati del gruppo Amato-Pagano (secondo le dichiarazioni rese da Pi.Gi. e P. A.), costituisce un dato inidoneo ad avallare la ricostruzione della vicenda operata dalla impugnata sentenza, difettando, per la genericità della narrazione, elementi circostanziali tali da delineare la prestazione di un contributo causale effettivo nei confronti dell'associazione.

Le stesse dichiarazioni, peraltro, non sono confermate, ed anzi trovano smentita, nel racconto di un altro collaboratore ( V. S., intraneo al gruppo dei Bastone nello spaccio di stupefacenti), che ha riferito che il "lotto G", sempre sotto il controllo dei Bastone, "anche senza essere legati a nessuna organizzazione", fu affidato a loro per il controllo di tutte le attività di spaccio.

Costituiscono, infine, elementi circostanziali inconferenti rispetto all'ipotesi accusatoria i controlli di P.G. effettuati sul territorio o la latitanza dell'imputato, in difetto di intercettazioni telefoniche ed ambientali allo stesso riferibili, ed in assenza di elementi indicativi dell'attribuzione di un ruolo nel contesto definito degli "scissionisti".

3.18. G.G. ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore di fiducia, deducendo vizi di violazione di legge riguardo all'inosservanza degli artt. 63 c.p.p. e ss., nonchè carenze motivazionali per avere la Corte d'appello posto a fondamento della sentenza di condanna una dichiarazione autoaccusatoria resa dal G.G. alla Polizia penitenziaria nel maggio 2007, mentre egli era detenuto da oltre due anni presso il carcere di Catanzaro per i reati di cui all'art. 416 bis c.p. e al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, quale appartenente al "clan Di Lauro".

Si deduce, al riguardo, che, pur dichiarando di essere transitato dal "clan Di Lauro" a quello degli "scissionisti", il G.G. all'epoca non era indagato quale aderente a quest'ultima consorteria, con la conseguenza che la relativa dichiarazione doveva essere ribadita nelle opportune sedi, con il rispetto delle garanzie difensive.

Nè, peraltro, la predetta dichiarazione può ritenersi riscontrata dalle dichiarazioni de relato del collaboratore D.B., che fa riferimento ad un incontro avvenuto con l'imputato in un luogo frequentato da appartenenti al "clan degli scissionisti", e ad una frase pronunciata da S.V. - ma da quest'ultimo mai confermata - che in quell'occasione ebbe a presentargli il G. G. quale persona affiliata alla predetta organizzazione.

3.19. S.G. ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore di fiducia, deducendo carenze motivazionali riguardo alla ritenuta partecipazione al sodalizio criminale denominato "clan Di Lauro", sotto il profilo dell'errata valutazione delle dichiarazioni rese dal collaboratore Pa.An. in data 12 giugno 2007, non riscontrate dalle dichiarazioni rese dagli altri collaboratori di giustizia.

Nessuna motivazione, inoltre, è stata fornita dalla Corte d'appello sul ragionevole dubbio che la frequentazione con il Pi.Gi., unico dato certo emerso, fosse dovuta a ragioni familiari, e non a motivi legati al traffico di stupefacenti.

Non soddisfacente, infine, deve ritenersi la parte della motivazione relativa al trattamento sanzionatorio ed al diniego delle attenuanti generiche, tenuto conto anche della risalente collocazione temporale dei precedenti penali.

3.20. C.L. - condannato alla pena di anni 12 di reclusione per i reati di cui all'art. 416 bis c.p., contestati nei capi sub A) e B), nonchè per i reati di cui ai capi sub S), S1) ed S2) - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore di fiducia (Avv. Lucio Mariano Sena), deducendo un unico motivo incentrato sulla violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), in relazione agli artt. 110 - 112 c.p., e della L. n. 497 del 1974, artt 10-14, della L. n. 110 del 1975, art. 23 e art. 648 c.p., per non avere la Corte d'appello fornito alcuna risposta alle doglianze difensive espresse circa le illogiche argomentazioni attraverso cui il Giudice di prime cure aveva riconosciuto la penale responsabilità del ricorrente a titolo di concorso nei reati di illegale detenzione di armi clandestine e ricettazione di cui ai capi sub S), S1) ed S2) dell'imputazione.

Al riguardo, infatti, i Giudici del merito hanno ritenuto irrilevante, ai fini della configurabilita del concorso nella detenzione delle armi occultate nelle autovetture parcheggiate nel cortile della villa occupata da più persone - tra cui anche il ricorrente - ivi presenti in occasione degli arresti operati dalla P.G. il 19 febbraio 2005, il decisivo accertamento, in punto di fatto, relativo alla sicura disponibilità materiale delle autovetture, e quindi del relativo contenuto, da parte degli imputati.

L'apparato giustificativo delle pronunce di merito prescinde, dunque, dall'unico accertamento realmente dirimente ai fini della configurabilita del reato, superando la mancanza di prova sull'effettiva disponibilità delle armi con l'inconferente rilievo relativo alla certa consapevolezza da parte degli occupanti la villa, nell'ipotesi che le auto fossero in realtà riconducibili a terze persone (ipotesi che i Giudici non escludono), del fatto che le autovetture custodissero le armi incriminate.

I Giudici, infatti, hanno ritenuto del tutto irrilevante stabilire con certezza se le autovetture all'interno delle quali erano occultate le armi fossero nella materiale disponibilità degli occupanti, avendo essi stessi ricoverato le auto nel cortile della villa, ovvero se fossero riconducibili a terzi, i quali, in ogni caso, onde parcheggiare nell'area recintata antistante la villa, avrebbero comunque avuto bisogno del necessario assenso degli occupanti (i quali, a questo punto, non potevano ignorare, per la presenza degli oggetti visibilmente collocati sul sedile di una delle auto, che queste custodissero le micidiali armi cadute in sequestro).

Ulteriori profili di illogicità sono ravvisabili, peraltro, nell'omessa considerazione della circostanza, valorizzata nei motivi d'appello, per cui le autovetture non erano di proprietà degli arrestati, dunque nemmeno del C.L., nè poteva ritenersi che gli stessi ne avessero la materiale disponibilità, posto che al momento dell'irruzione le autovetture erano chiuse con le chiavi che non furono affatto rinvenute in possesso degli occupanti la villa.

Nè, infine, pare pacificamente emerso in sede processuale il dato relativo al preteso ruolo di armiere svolto dal ricorrente in seno alle compagini associative, ruolo che, in ogni caso, non può con certezza ancorarsi alla specifica vicenda processuale in esame.

3.20.1. Nell'interesse del C.L. ha proposto altresì ricorso l'Avv. Maria Antonietta Cestra, deducendo i motivi di doglianza di seguito sinteticamente riassunti.

A) Violazione dell'art. 606, lett. b) e c), in relazione all'art. 192 c.p.p. e art. 530 c.p.p., comma 2, non essendo emersa piena prova della sussistenza del fatto e/o della sua commissione da parte del ricorrente: le fonti di prova a carico dell'imputato consistono, infatti, nelle dichiarazioni (non univoche, non spontanee e non dettagliate) di alcuni collaboratori di giustizia, che sono rimaste prive di ulteriori elementi di supporto idonei a confermarne l'attendibilità.

Il ruolo del C.L. all'interno dei due distinti sodalizi criminali succedutisi nel tempo non è stato sufficientemente delineato e, soprattutto, non è stato riferito alcun episodio specifico e concreto da cui desumere una sua effettiva partecipazione all'associazione di cui all'art. 416 bis c.p..

Generiche ed indeterminate appaiono, riguardo all'ipotizzato ruolo di "killer" svolto dal C.L., le dichiarazioni rese da Pr.An., Pr.Ma., Pi.An. e V.S..

Anche per quel che inerisce al possesso ed utilizzo di armi da fuoco, ed al presunto passaggio dal "clan Di Lauro" a quello dei c.d.

"scissionisti", un altro collaboratore, Pa.An., riferisce conoscenze generiche, ovvero apprese solo de relato e, comunque, prive di riscontri.

Inoltre, le affermazioni del Pa.An. e dei Pr.

A. e Pr.Ma., contrastano con le dichiarazioni di altro collaboratore, D.B., che non inserisce il nominativo del C.L. fra i componenti del cosiddetto "gruppo di fuoco" del clan. Nessuna verifica di attendibilità intrinseca dei collaboratori è stata peraltro effettuata, mancando ogni riferimento alla loro personalità, alle motivazioni della collaborazione ed ai rapporti di conoscenza con il C.L..

Nel caso di specie, peraltro, proprio in ragione dei limiti su evidenziati, le plurime chiamate in reità non possono costituire l'una il riscontro individualizzante dell'altra.

Insufficienti risultano, inoltre, gli esiti dei controlli d P.G. sulle frequentazioni del C.L. con altri affiliati, così come i passaggi della motivazione dedicati al riconoscimento della penale responsabilità per i reati di cui ai capi sub S), S1) ed S2), tenuto conto del fatto che le armi non sono state reperite in ambienti di accertata pertinenza dell'imputato e che non sono emerse, al riguardo, circostanze indicative dell'appartenenza e/o della disponibilità delle autovetture e delle armi ivi nascoste in capo all'imputato, che si trovava all'interno dell'abitazione - nel cortile della quale risultavano parcheggiate le predette autovetture - unitamente ad altre persone.

Manca, infine, ogni elemento di prova riguardo alla realizzazione di condotte di partecipazione attiva idonea ad estrinsecare lo status di associato mafioso.

B) Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione all'art. 81 c.p. ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche, avendo la Corte d'appello erroneamente considerato fra i precedenti penali, tutti assai risalenti nel tempo e di non elevato allarme sociale, una condanna per furto aggravato, mai avvenuta, ed una violazione del T.U. in materia di stupefacenti, in realtà risalente al 1993 e non al 1999; non motivata risulta, inoltre, la determinazione della pena base, individuata in misura prossima al massimo edittale, e dell'aumento per le aggravanti e la continuazione, anch'esse individuate nella misura massima prevista dalle norme di riferimento, senza motivare l'esercizio del potere commisurativo.

C) Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), in relazione alle regole disciplinanti il giudizio abbreviato e all'esercizio del diritto di difesa ex art. 178 c.p.p., comma 1), lett. c), essendo stato eccepito, già in primo grado, come i verbali illustrativi delle collaborazioni presentassero numerosi omissis, inficiando in tal modo il significato e la comprensione degli eventi narrati a carico degli imputati.

3.21. D.P.T. - condannata alla pena di anni cinque di reclusione per il delitto ascrittole sub A), riqualificato nel delitto di cui all'art. 418, cpv., c.p., aggravato dalla circostanza di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore di fiducia (Avv. Anna Savanelli), deducendo violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 418 c.p., comma 2, alla su citata L. n. 203 del 1991, art. 7, art. 192 c.p.p. e art. 133 c.p., in relazione all'esclusione delle invocate attenuanti generiche.

Si lamenta, in particolare, il fatto che la Corte d'appello ha trascurato la valutazione del profilo relativo alla credibilità intrinseca delle dichiarazioni rese dal collaboratore Pa.

A., con il quale vi erano motivi di avversione legati ad una relazione sentimentale intrattenuta con la cognata della D.P. T., e da quest'ultima notoriamente contrastata.

Contraddittorie, inoltre, devono ritenersi le affermazioni in ordine all'elemento psicologico del reato ed alla contestata aggravante, poichè la Corte, pur indicando plurime risultanze che depongono per la mancata consapevolezza dello spessore criminale delle persone ospitate nella sua abitazione e per la contrarietà manifestata dalla D.P.T. allo svolgimento di tale compito di supporto, ritiene immotivatamente comprovata, al di là di ogni ragionevole dubbio, una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale.

Nè, peraltro, emergono significativi elementi di prova, circa la conoscenza dell'identità e dello spessore criminale delle persone di cui le veniva imposta l'ospitalità, dalle intercettazioni delle conversazioni telefoniche intercorse con la M.T..

La presunta assistenza in favore di soggetti affiliati risulta, infine, del tutto episodica e precisamente circoscritta in un lasso temporale limitato, peraltro coincidente con il periodo di recrudescenza della c.d. "faida", mentre il gruppo criminale era attivo in epoca sia anteriore che successiva.

Per quel che inerisce al quantum della pena, le attenuanti generiche avrebbero potuto essere riconosciute in considerazione degli elementi di segno positivo rappresentati dalla condizione di "coercizione ambientale" e dalla contrarietà, più volte dimostrata dalla ricorrente, ad assecondare l'ospitalità che le veniva imposta.

3.21.1. Con ulteriore ricorso, personalmente proposto, D.P. T. deduce altresì vizi di violazione di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 418 c.p. e alla L. n. 203 del 1991, art. 7 avendo i Giudici di merito sottovalutato la portata delle dichiarazioni del Pa.An., secondo cui uno dei luoghi ove si appoggiavano i c.d. "scissionisti" durante la faida era l'abitazione della ricorrente, e quando costoro arrivavano, l' Am.Ca., referente nel territorio di Mugnano del "clan Di Lauro", prima, e del "clan Amato-Pagano", poi, faceva allontanare di casa la D.P.T..

Era dunque costretta, quale coniuge di un appartenente al sottogruppo di Mugnano facente capo all' Am.Ca. (ossia, di Fr.

M.), ad ospitare quelle persone durante il periodo di detenzione del marito, per esplicita richiesta da parte del "capo- zona" (ossia, dell' Am.Ca.).

Non risultano dagli atti compensi a lei elargiti per il ruolo svolto, ma emerge, anzi, dalle intercettazioni delle telefonate intercorse con la M.T., che in occasione dell'omicidio di Ma.

S., allorquando alcuni degli aggressori si rifugiarono presso la sua abitazione, chiese di parlare con un noto esponente del "clan", affinchè si ponesse fine ad una situazione per lei compromettente; peraltro, il soggetto cui fanno riferimento in quella circostanza i Giudici di merito era da individuare in Ca.

B., assolto per quel fatto di omicidio, non ritenuto di stampo camorristico, nè collegato ad episodi di criminalità organizzata, ma eseguito per futili motivi da semplici minori.

Sussistono, in definitiva, dubbi sull'adesione volontaria alla realizzazione della condotta delittuosa, tanto che lo stesso G.i.p. fa riferimento ad un contributo fornito al clan "in maniera del tutto impersonale", ossia ad una situazione di fatto che, inserita nel contesto di una piena consapevolezza di ospitare presso la propria abitazione esponenti del predetto sodalizio criminale, può essere adeguatamente compresa solo nella prospettiva di una palese costrizione.

Per le medesime ragioni, inoltre, non è configurabile l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 dovendosi ritenere necessaria, al riguardo, la presenza di una finalità specifica, del tutto indimostrata nel caso in esame: per la sussistenza della su citata aggravante, infatti, dovrebbe essere provata la consapevolezza che l'autore del reato appartiene, o comunque è spalleggiato da un'organizzazione criminale, aspetti, questi, sui quali la Corte territoriale non si è soffermata.

3.22. G.C. - assolto in primo grado dal reato associativo di cui al capo suo 1) e condannato in appello alla pena di anni otto e mesi otto di reclusione - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore di fiducia, deducendo, in primo luogo, l'inammissibilità dell'atto di appello del P.M. ai sensi dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), per violazione dei principi e delle forme di cui all'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. a) e c) in ragione del carattere di superficialità ed incompletezza dei motivi esposti per confutare le precise e dettagliate valutazioni espresse dal Giudice di primo grado: su tale punto la Corte, pur riconoscendo l'estrema concisione dei motivi d'appello, non ha risolto la questione della loro rispondenza o meno ai criteri tassativamente indicati nelle su menzionate disposizioni.

Si deduce, inoltre, la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), per errata applicazione della legge penale, nonchè per la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 192 c.p.p. e al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 non avendo la Corte d'appello adeguatamente esposto, con specifico riguardo a numerosi elementi, episodi e circostanze di fatto analiticamente individuati nel ricorso e risultati privi di qualsivoglia riscontro probatorio oggettivo, le ragioni che l'hanno condotta a conclusioni totalmente divergenti rispetto a quelle cui era pervenuto il G.u.p. con la decisione di primo grado.

La Corte d'appello, in particolare, ha espresso la convinzione che il G.C. facesse parte del sotto-gruppo criminale capeggiato da Ma.An., appartenente al "clan" Amato-Pagano, con compiti sia di smercio al minuto di sostanze stupefacenti, sia collaterali e funzionali all'espletamento di tale principale attività, senza indicare, tuttavia, gli elementi idonei a dimostrare la veridicità dell'assunto in tal guisa formulato, avuto riguardo al fatto che la sentenza di primo grado poneva in evidenza come nessun collaboratore di giustizia avesse riferito alcunchè in ordine al coinvolgimento del G.C. nell'attività di vendita degli stupefacenti nella zona di Mugnano, e come nessun riferimento in tal senso emergesse dal contenuto delle intercettazioni telefoniche.

3.22.1. Con motivi nuovi ex art. 611 c.p.p., comma 1, depositati presso la Cancelleria della Corte d'appello di Napoli il 17 settembre 2013 e pervenuti nella Cancelleria di questa Suprema Corte il 20 settembre 2013, il ricorrente deduce che, in relazione alla medesima vicenda storico-fattuale oggetto del capo d'imputazione sub I), la Corte d'appello di Napoli, con sentenza depositata il 7 marzo 2013, ha assolto per non aver commesso il fatto il coimputato Ma.

R., separatamente giudicato nell'ambito di un altro procedimento.

Secondo l'impostazione accusatoria, infatti, il Ma.Ra. è stato sempre indicato quale elemento di collegamento tra il G. C. e la compagine associativa alla quale, proprio in virtù di tale reciproca ed assidua frequentazione, entrambi sono stati accusati di appartenere (ossia, lo stesso sotto-gruppo operante in Mugnano di Napoli alla via (OMISSIS)).

La Corte d'appello, inoltre, ha trascurato la valutazione delle circostanze relative all'individuazione del dies a quo dell'esistenza e dell'operatività del sodalizio criminale finalizzato al commercio di droga (capo sub I), che altra sezione della medesima Corte d'appello, con la pronuncia assolutoria su menzionata, fa invece decorrere dal mese di luglio 2005, ancorchè la sua ideazione possa farsi risalire all'ottobre del 2004, con la conseguenza che tutte le condotte di detenzione a fini di spaccio contestate al G. C., al pari del coimputato Ma.Ra., non possono ritenersi idonee a comprovare, sotto il profilo teleologia), la sua partecipazione al sodalizio, poichè le stesse risalgono alla fine del 2004 ed ai primi mesi del 2005, ossia fino ai primi giorni del mese di aprile.

3.23. P.E., P.R., A.R., P. V. e C.R. hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo del loro difensore, Avv. Michele Cerabona, rispettivamente formulando le censure di seguito illustrate.

A) P.E. e P.R. - rispettivamente condannate, in accoglimento dell'appello proposto dal P.M., alla pena di anni sei di reclusione ed Euro seimila di multa, ed a quella di anni quattro di reclusione ed euro quattromila di multa, previa riqualificazione giuridica dei fatti di ricettazione capi sub E) ed F) ritenuti nella sentenza di primo grado, dalla Corte d'appello ricondotti alla fattispecie, originariamente contestata, di cui all'art. 648 bis c.p. - lamentano, in particolare:

a1) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e) e c), per mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione, nonchè per violazione del disposto di cui agli artt. 581 e 591 c.p.p., in relazione alla ritenuta ammissibilità dell'appello proposto dal P.M. nei confronti delle suddette ricorrenti, avendo la Corte d'appello erroneamente ritenuto infondata la richiesta difensiva, in considerazione del fatto che il P.M. si doleva, espressamente, solo delle intervenute assoluzioni, e contro le stesse ha proposto impugnazione, non dolendosi affatto della diversa qualificazione giuridica del fatto e non richiedendo, neanche implicitamente, la condanna delle sorelle P.; ulteriori argomenti che la Corte avrebbe dovuto affrontare sono quelli relativi alla mancata formulazione della richiesta, prescritta dall'art. 581 c.p.p., alla lett. b) ed alla violazione dell'art. 581 c.p.p., lett. c), stante la genericità ed inconcludenza dei motivi al riguardo proposti dal P.M.;

a2) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), per mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine ai diversi profili dell'affermazione della responsabilità delle ricorrenti, della qualificazione giuridica del fatto - essendo stato ritenuto il reato di riciclaggio in luogo del reato di ricettazione per il quale era intervenuta sentenza di condanna in primo grado - della provenienza del denaro utilizzato per la commissione del delitto di riciclaggio e dell'eccepito difetto di giurisdizione, con carenza della condizione di procedibilità rappresentata dalla richiesta del Ministro della Giustizia ex art. 9 c.p., per la quale sarebbe dovuta intervenire declaratoria di improcedibilità dell'azione penale;

- contrariamente a quanto sostenuto dal primo Giudice, che aveva ritenuto che i capitali impiegati in attività di riciclaggio provenissero in generale dalle plurime attività dell'associazione camorristica di cui faceva parte A.R. ed i suoi sodali, la Corte d'appello ha immotivatamente ritenuto, attraverso un generico richiamo all'insieme delle risultanze acquisite e vagliate, che il denaro oggetto dell'illecita condotta costituisse il provento delle attività di vendita di stupefacente concluse in Italia;

- mentre il Giudice di primo grado, inoltre, ha ritenuto che le sorelle P. fossero comunque consapevoli dell'illecita provenienza del denaro e dovessero rispondere del delitto di ricettazione, qualificando come post factum non punibile le operazioni successive all'accensione dei contratti bancari, la Corte d'appello ha ravvisato nella condotta, con motivazione carente e contraddittoria, la diversa ipotesi delittuosa di cui all'art. 648 bis c.p., che il Giudice di primo grado aveva a sua volta escluso, ritenendo che la condotta delle ricorrenti non fosse idonea ad ostacolare l'individuazione della provenienza delittuosa del denaro (aspetto, questo, sul quale la Corte non propone alcun rilievo critico, limitandosi a prospettare una ricostruzione, limitata al solo reato di cui al capo sub F), secondo cui le attività volte ad ostacolare la individuazione della provenienza illecita del denaro sarebbero state poste in essere successivamente, e non costituirebbero dunque un post factum non punibile);

- non risulta affatto provato che la somma utilizzata per le operazioni realizzate in Montecarlo sia stata conseguita in Italia, come affermato dalla Corte d'appello, e rappresenti il provento del traffico di stupefacenti, atteso che la P.E. si era trasferita con la famiglia in Spagna; tenuto conto, inoltre, che il dato rilevante è determinato dal luogo in cui l'agente ricevette il danaro, e non da quello in cui venne illecitamente guadagnato, emerge inequivocabilmente, dagli stessi accertamenti investigativi riportati nella sentenza di primo grado, che la P.E. ricevette in Montecarlo la titolarità della somma investita, e che proprio all'estero, per lo più in Spagna ed in Montecarlo, l' A. R. aveva trasferito i propri beni ed interessi;

- nella motivazione dell'impugnata pronuncia, infine, la Corte d'appello non ha affrontato le censure e le deduzioni difensive riguardo alla prospettata mancanza di prova della consapevolezza dell'illecita provenienza delle somme di denaro con cui sarebbero state accese le posizioni fiduciarie bancarie presso l'Istituto San Paolo di Torino e la Banca Monegasca.

a3) la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza della motivazione sulla determinazione della pena e sul diniego della concessione delle richieste attenuanti generiche, non essendosi tenuto conto dello stato di incensuratezza della P.E. e dei limiti di partecipazione ai fatti da parte delle due donne, utilizzate in attività per le quali non avevano alcuna dimestichezza.

B) A.R. lamenta la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), per mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine ai diversi profili dell'affermazione della responsabilità, dei limiti temporali della contestazione di cui al capo sub A), della richiesta di esclusione delle aggravanti di cui all'art. 416 bis c.p., ai nn. 4 e 6 nonchè la violazione dell'art. 192 c.p.p., commi 2 e 3, e art. 521 c.p.p.;

b1) la motivazione risulta carente, in particolare, sulla prova che gli imputati abbiano assunto il controllo di attività economiche, finanziando le stesse, in tutto o in parte, con il prodotto o il profitto dei delitti, nonchè sulla verifica dell'attendibilità intrinseca dei singoli collaboratori e sull'esistenza dei relativi elementi di riscontro, essendosi il Giudice d'appello limitato ad una valutazione collettiva, che genericamente riguardava tutti i collaboratori escussi nel corso delle indagini;

b2) il fatto che la prova della partecipazione dell'imputato al delitto associativo di cui al capo sub A) sia stata fornita per il periodo antecedente la contestazione - formulata invece per il periodo successivo al 27 febbraio 2006, con condotta perdurante sino alla data odierna - avrebbe dovuto determinare l'assoluzione dell'imputato, riferendosi tutte le dichiarazioni rese dai collaboratori ad un'epoca antecedente il febbraio 2006, ossia a periodi fuori dai limiti temporali della contestazione, e per i quali non era stata richiesta l'estradizione dalla Spagna, con la conseguente violazione anche del disposto di cui all'art. 521 c.p.p..

C) P.V. lamenta, in particolare, la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine ai diversi profili dell'affermazione della responsabilità del ricorrente, della richiesta di esclusione delle aggravanti di cui all'art. 416 bis c.p., ai nn. 4 e 6 nonchè della violazione dell'art. 192 c.p.p., commi 2 e 3; la motivazione risulta carente, infatti, sulla prova che gli imputati abbiano assunto il controllo di attività economiche, finanziando le stesse, in tutto o in parte, con il prodotto o il profitto dei delitti, nonchè sulla verifica dell'attendibilità intrinseca dei singoli collaboratori e sull'esistenza dei relativi elementi di riscontro, avuto riguardo, segnatamente, alla genericità delle dichiarazioni rese dal Pa.An. e dal D.B., il cui contenuto non consente di ravvisare elementi utili per ritenere la partecipazione del ricorrente ad un'associazione criminale.

D) C.R. lamenta la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine ai diversi profili dell'affermazione della responsabilità del ricorrente, della richiesta di esclusione delle aggravanti di cui all'art. 416 bis c.p., ai nn. 4 e 6 nonchè della violazione dell'art. 192 c.p.p., commi 2 e 3;

d1) la motivazione risulta carente, infatti, sulla prova che gli imputati abbiano assunto il controllo di attività economiche, finanziando le stesse, in tutto o in parte, con il prodotto o il profitto dei delitti, nonchè sulla verifica dell'attendibilità intrinseca dei singoli collaboratori e sull'esistenza dei relativi elementi di riscontro, avuto riguardo alla genericità delle dichiarazioni dagli stessi rese, riguardanti nel loro complesso circostanze prive di valenza probatoria, poichè aventi ad oggetto l'attribuzione al ricorrente della commissione di delitti per i quali non si è proceduto; carente, inoltre, risulta l'apparato motivazionale riguardo alle imputazioni formulate nei capi sub S), S1) ed S2), non potendosi attribuire una sorta di responsabilità oggettiva circa il possesso delle armi a tutti coloro che vennero rinvenuti nell'abitazione, specie ove si consideri che le autovetture erano chiuse e non vennero rinvenute le chiavi;

d2) si deduce, inoltre, la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza della motivazione sulla determinazione della pena, apparendo sproporzionato l'aumento per la continuazione nella misura determinata dal Giudice di primo grado.

E) Nell'interesse di tutti i ricorrenti, infine, si deduce la mancanza di motivazione e la violazione dell'art. 420 c.p.p. in relazione all'ordinanza emessa dalla Corte d'appello all'udienza del 16 novembre 2011, nella quale si è erroneamente ritenuto che il difensore non possa invocare, nei procedimenti camerali, il legittimo impedimento per l'astensione proclamata dalle rappresentanze dell'avvocatura.

3.23.1. P.E. e P.R. hanno personalmente proposto un ulteriore ricorso, deducendo un duplice ordine di censure sostanzialmente analoghe a quelle già prospettate nel precedente atto di impugnazione, ossia:

a) violazione di legge e carenze motivazionali in ordine alla scelta di ricondurre il fatto contestato nel capo sub E) all'ambito precettivo della diversa disposizione di cui all'art. 648 bis c.p. (fatto che già il primo Giudice aveva derubricato nel meno grave delitto di ricettazione);

b) difetto di giurisdizione del giudice italiano e carenze motivazionali, per avere la Corte d'appello rigettato l'eccezione difensiva con la quale si contestava la sussistenza della giurisdizione riguardo al fatto contestato nel capo sub F), alla stregua di argomentazioni apodittiche, illogiche e contraddittorie, affermando la giurisdizione italiana sebbene le condotte di riciclaggio, per quanto accertato in sentenza dai Giudici di merito, risultassero integralmente svolte all'estero: non sono state indicate, in particolare, le emergenze processuali sulle quali ancorare la conclusione che la P.E., ovvero altro imputato concorrente nel fatto di cui al capo sub F), abbia conseguito in territorio italiano la disponibilità delle somme di denaro poi trasferite nell'istituto bancario monegasco, e di qui successivamente movimentate sempre verso l'estero, con la conseguenza che, allo stato, non è dato comprendere quale segmento della condotta di riciclaggio si sia svolto in Italia, sì da fondare la giurisdizione del giudice italiano ex art. 6 c.p..

3.24. Ca.Ca. - condannato alla pena di anni 11 e mesi quattro di reclusione per i reati di cui all'art. 416 bis c.p., rispettivamente contestati ai capi sub A) e sub B), previo riconoscimento del vincolo della continuazione - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore di fiducia (Avv. Lucio Sena), deducendo un unico motivo incentrato sulla violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. c) e lett. e), in relazione agli artt. 125 e 546 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3, avendo la Corte d'appello ritenuto la responsabilità del ricorrente per i contestati reati associativi, senza fornire risposta alle doglianze difensive e sulla scorta di un impianto argomentativo del tutto illogico, in quanto:

a) ha illegittimamente ritenuto integrata la prova sulla base di una pluralità di dichiarazioni accusatorie, provenienti da collaboratori di giustizia, il cui contenuto converge unicamente sull'unico dato - genericamente riferito - della qualità di affiliato dell'imputato, dapprima al "clan Di Lauro" e poi a quello dei c.d. "scissionisti", sebbene la difesa avesse censurato nei motivi di gravame la pronuncia di primo grado proprio sull'assunto della genericità delle propalazioni accusatorie, siccome carenti della specifica indicazione di concrete condotte delittuose riferibili al Ca.Ca., rilevando altresì come le uniche dichiarazioni riguardanti fatti specifici non risultassero per nulla convergenti ed univoche;

b) ha illegittimamente valorizzato, quali riscontri alle suddette dichiarazioni accusatorie: 1) il dato rappresentato dai controlli effettuati dalla P.G., attestanti la frequentazione del Ca.

C. con pregiudicati per reati associativi, circostanza rispetto alla quale si deduceva nei motivi di gravame l'insignificanza indiziaria, in considerazione del particolare contesto socio- ambientale di provenienza dell'imputato;

2) le risultanze di un'unica intercettazione ambientale nel corso della quale, tre coimputati, in assenza del Ca.Ca., discorrendo di vicende a lui non contestate, si riferirebbero a quest'ultimo con l'espressione "compagno nostro".

3.25. E.F. - condannato alla pena di anni otto e mesi otto di reclusione per il reato di partecipazione al reato associativo ex art. 416 bis c.p. - ha personalmente proposto ricorso per cassazione, deducendo violazioni di legge in relazione all'art. 192 c.p.p. e art. 416 bis c.p., nonchè carenze motivazionali dell'impugnata sentenza, laddove attribuisce rilievo, ai fini della sussumibilità del compendio probatorio nel su menzionato paradigma normativo, alla non accertata funzione di scorta o vedetta nei luoghi ove si spostavano o dimoravano i capi dell'organizzazione criminale.

Tutte le indicazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia, infatti, risultano assolutamente generiche e prive di riferimenti concreti, oltre che inidonee a riscontrarsi fra loro: le dichiarazioni rese da D.B. circa il ruolo di persona di fiducia del Ci.Sa., nel senso che l' E. F. fungeva da portavoce presso altri "clan" camorristici, non ricevono riscontri oggettivi e ad efficacia individualizzante nelle generiche dichiarazioni rese dagli altri collaboratori Pr. e Pa.An. (che al riguardo fa riferimento ad un diverso ruolo di "vedetta").

3.26. Nell'interesse di M.R. ha proposto ricorso il suo difensore di fiducia, deducendo la nullità della sentenza per l'inosservanza della legge penale in relazione all'art. 81 cpv. c.p., in ragione del mancato riconoscimento dell'istituto della continuazione con un precedente giudicato (omicidio di Ma.

S., commesso il 15 marzo 2005 e definito con sentenza irrevocabile resa il 22 gennaio 2008 dalla Corte d'assise d'appello di Napoli, che condannava il ricorrente alla pena di anni tredici di reclusione).

Sebbene la pronunzia or ora citata sia stata utilizzata sia dal G.u.p. che dalla Corte territoriale per sostenere la certa affiliazione del M.R. al sodalizio criminale di cui al capo sub A), tanto che le modalità del fatto sono state sintomaticamente definite camorristiche, cioè rappresentative della prova della sua responsabilità nell'ambito del giudizio in esame, la Corte d'appello ha negato il riconoscimento della continuazione, sul presupposto - erroneo, perchè frutto di un evidente travisamento della regola di giudizio pacificamente enunciata dalla S.C. - della non configurabilità dell'istituto in relazione ai reati-fine non programmabili ab origine, perchè legati a circostanze ed eventi occasionali o comunque non immaginabili al momento iniziale dell'associazione.

3.27. Nell'interesse di M.D. - condannato alla pena di anni otto di reclusione per il reato di partecipazione all'associazione di cui al capo sub A) - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, deducendo la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per carenze motivazionali in ordine alla corretta applicazione dei criteri di valutazione della chiamata in correità.

Dalle molteplici dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, infatti, non è stato possibile far emergere un ruolo specifico del M.D., il quale viene genericamente indicato quale affiliato o, semplicemente, come persona molto vicina al N.E..

In tal senso, infatti, devono ritenersi imprecise, incomplete, non convergenti dal punto di vista della narrazione dei fatti, e come tali non dotate della necessaria valenza di riscontro ad efficacia individualizzante, le dichiarazioni accusatorie rese dai vari collaboratori di giustizia ascoltati nel corso delle indagini, ossia da Pi.Gi. (che riconosce il M.D. quale accompagnatore del N.E., senza però indicarne il nome o il soprannome, e senza averlo mai visto detenere un'arma), Pr.An. (che non conosce il nome, nè sa indicare il ruolo svolto dall'imputato), Pi.An. (che nei vari interrogatori cui è stato sottoposto rende dichiarazioni di tenore completamente diverso e discordanti fra loro, senza peraltro precisare le mansioni svolte dall'imputato), V.S., Pa.An. e Mi.Gi. (che fanno genericamente riferimento all'appartenenza dell'imputato al sodalizio criminale in esame).

3.28. Nell'interesse di E.P. - condannato alla pena di anni undici e mesi quattro di reclusione per il reato di partecipazione all'associazione di cui al capo sub A) e per quelli di cui ai capi sub S5) ed S7) - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 193, 194 e 266 c.p.p. e ss. e alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Si deduce, al riguardo, che nel caso in esame non ci si trova in presenza di dichiarazioni de relato, ma di dichiarazioni che narrano di una conoscenza c.d. di ambiente, per "sentito dire", attraverso un flusso circolare ed indeterminato di informazioni apprese all'interno di una societas sceleris, senza che siano state specificamente indicate le ragioni sulle quali si è fondato il giudizio di credibilità espresso per i vari collaboratori di giustizia (ossia, Pi.Gi., D.B. e Pa.An.) che hanno reso dichiarazioni a carico del ricorrente.

Le stesse, infatti, non solo provengono da soggetti la cui intrinseca attendibilità doveva essere oggetto di una maggiore verifica, ma neanche assurgono a livello di prova della partecipazione dell' E.F. all'associazione di stampo camorristico denominata "clan Amato-Pagano", poichè risultano del tutto contraddittorie (sul ruolo ivi assunto e sullo stesso riconoscimento dell'imputato), non coerenti tra loro, nè convergenti verso lo stesso significato probatorio: nessuna dichiarazione, in particolare, conferisce all'altra quel rapporto esterno di sinergia indiziaria, che consente di ritenere verificata l'attendibilità estrinseca della fonte di prova, tanto che il Pa.An. ha dichiarato che l' E.F. rivestiva il ruolo di guardaspalle di P. C. ed A.R., per il D.B., inoltre, la persona da lui riconosciuta (indicata come " Tu.") faceva parte del gruppo di fuoco di Ci.Sa., mentre per il P. G. faceva parte del gruppo del N.E..

Non è chiaro, peraltro, in che modo l'imputato sia stato identificato quale interlocutore dei colloqui oggetto di intercettazione ed utilizzati come riscontro alle dichiarazioni dei predetti collaboratori: in ogni caso, l'unico elemento certo emergente dai colloqui registrati è rappresentato dal fatto che l' E.F. si accompagnava alcune volte a soggetti pregiudicati.

Analoghe carenze sono riscontrabili per quel che attiene alla prova delle imputazioni sub S5) ed S7), poichè dal contenuto dei predetti colloqui non emergono chiari elementi di responsabilità a carico del ricorrente e la pistola oggetto della seconda imputazione non è stata ritrovata.

Non sussiste, infine, l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 poichè la detenzione dell'arma di cui al capo sub S5) non è contestata in modo permanente, ma è relativa alla sola data del 31 dicembre 2005, mentre per ciò che concerne l'altra imputazione di cui al capo sub S7) difetta la relativa motivazione da parte della Corte d'appello.

B) Il secondo motivo, dedotto ex art. 606 c.p.p., lett. e), riguarda l'omessa valutazione delle doglianze contenute in una memoria depositata dalla difesa, i cui argomenti non sono stati considerati dai Giudici d'appello.

C) Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'art. 133 c.p. ed all'esclusione delle invocate attenuanti generiche, pur in presenza di significativi elementi di segno positivo, nonchè in relazione all'art. 81, cpv., c.p., avendo la Corte d'appello omesso di indicare quale fosse, tra quelli in continuazione, il reato più grave, nonchè la ragione del quantum di pena da apportare a titolo di aumento.

3.29. Nell'interesse di A.A. - condannato alla pena di anni otto e mesi otto di reclusione per il reato di partecipazione all'associazione di cui al capo sub A) - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazione di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 416 bis c.p., attesa la mancanza di specificità delle chiamate in correità effettuate in particolare da D.B. e P. A., fra loro non sovrapponibili e del tutto divergenti laddove si tratta di evidenziare il ruolo ed i compiti svolti dall'imputato;

nè, al riguardo, possono trarsi utili elementi di riscontro dalle dichiarazioni rese dai collaboratori Pr., Pi.An. e V.S..

B) Violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'esclusione delle invocate attenuanti generiche, pur in presenza di significativi elementi di segno positivo (marginalità ed occasionalità del contributo causale apportato), ed alla determinazione del quantum della pena irrogata.

3.30. Nell'interesse di P.G. - condannato alla pena di anni otto di reclusione ed Euro ottomila di multa per il reato ex artt. 110 e 648 bis c.p. di cui al capo sub F), con l'esclusione dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e per il reato ex artt. 81, 110, 112, 648 ter c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7 di cui al capo sub G), con assoluzione dal reato associativo di cui al capo sub A) - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure qui di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazione di legge e carenze motivazionali in relazione all'art. 648 bis c.p. ed all'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 avendo la Corte d'appello trascurato uno dei motivi di gravame concernente la mancanza di prova della fittizia intestazione di beni riconducibile alla fattispecie incriminatrice sopra indicata, così come riconosciuta da questa Suprema Corte in sede di ricorso cautelare, allorquando ha annullato con rinvio l'ordinanza emessa dal Tribunale del riesame in merito ai gravi indizi di partecipazione all'associazione criminale Amato-Pagano.

La Suprema Corte, infatti, si è chiaramente espressa in ordine alla portata estremamente limitata delle imprecise e generiche dichiarazioni rese dal Pa.An., sia per quel che attiene alla partecipazione dell'imputato al predetto sodalizio criminale, sia per quel che inerisce alla contestata attività di riciclaggio.

Il reato di cui al capo sub F), dunque, non poteva essere qualificato con condotta perdurante, in quanto si sarebbe consumato nel momento in cui si sarebbero verificati i depositi bancari, tenuto conto, altresì, del fatto che l'operatività del gruppo Amato-Pagano deve farsi risalire all'ottobre del 2004, allorquando esso si contrappone al "clan Di Lauro" dalla cui compagine si è scisso.

Tenuto conto delle statuizioni formulate dalla Suprema Corte con la su menzionata pronuncia cautelare, nessuna valida argomentazione emerge, inoltre, riguardo alle opposte conclusioni raggiunte dalla Corte d'appello in merito all'ulteriore reato di cui al capo sub G).

B) Violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'esclusione delle invocate attenuanti generiche - pur in presenza di significativi elementi di segno positivo (ossia, la pluriennale attività lavorativa e la condizione di sostanziale incensuratezza) - nonchè alla determinazione del quantum della pena irrogata a titolo di aumento per la continuazione ex art. 81, cpv., c.p..

3.31. Nell'interesse di M.M. - condannato per il reato di riciclaggio di cui al capo sub D), commesso in Napoli e Benevento nel maggio 2003, esclusa l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure qui di seguito sinteticamente riassunte.

A) Erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione in relazione all'art. 192 c.p.p., poichè, avuto riguardo alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia ( D.B., Pi.Gi., Mi.Gi. e Ma.Mi.), nel maggio 2003 il sodalizio criminale Amato-Pagano ancora non esisteva, dovendosi far risalire la sua operatività all'ottobre 2004, con la conseguenza che il fatto di riciclaggio commesso nel maggio 2003, ossia prima della nascita del gruppo, potrebbe essere addebitato quale fatto commesso a vantaggio del singolo, ma non certo dell'associazione, che ancora non esisteva: nel motivare la condanna, tuttavia, la Corte fa riferimento all'esistenza del "clan" Amato- Pagano ed ai reati-fine commessi dall'organizzazione, per giungere alla conclusione che non può escludersi che il denaro in oggetto fosse il provento del delitto associativo.

B) Erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione in relazione all'art. 648 bis c.p., atteso che l'intero ciclo delle operazioni non è stato gestito dal M.M., il quale, molto probabilmente solo per ragioni di cortesia, ha acconsentito a prestare all' O. la propria collaborazione per il compimento dell'operazione in esame: il ruolo marginale nella stessa assunto e la sua occasionalità fanno propendere per una non piena consapevolezza dell'azione.

C) Erronea applicazione della legge penale sia con riguardo alla determinazione del quantum della pena irrogata, che all'esclusione delle invocate attenuanti generiche, non riconosciute pur in presenza di significative circostanze di segno positivo (ad es., la marginalità del contributo causale apportato e la condizione di totale incensuratezza del ricorrente).

3.32. Nell'interesse di D.L. - condannato alla pena di anni otto e mesi otto di reclusione per il reato di partecipazione all'associazione di cui al capo sub A) - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione in relazione agli artt. 193 e 194 c.p.p., poichè nel caso in esame ci si trova in presenza di dichiarazioni che narrano di una conoscenza c.d. di ambiente, per "sentito dire", attraverso un flusso circolare ed indeterminato di informazioni apprese all'interno di una societas sceleris, senza che siano state specificamente indicate le ragioni sulle quali si è fondato il giudizio di credibilità espresso per i vari collaboratori di giustizia (ossia, D. B., Mi.Gi., M.E.Z. e V. S.) che hanno reso dichiarazioni a carico del ricorrente. Le stesse, infatti, risultano essere completamente diverse, contraddittorie e prive di riscontri specifici e/o individualizzanti.

B) Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'art. 133 c.p. ed all'esclusione delle invocate attenuanti generiche, pur in presenza di significativi elementi di segno positivo, come la sua condizione di sostanziale incensuratezza.

C) Il terzo motivo, dedotto ex art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione all'art. 178 c.p.p., comma 1, riguarda l'erronea valutazione delle doglianze contenute in una memoria depositata dalla difesa, i cui argomenti sono stati travisati dalla Corte d'appello.

La difesa, infatti, aveva chiesto la verifica della compatibilità temporale di una circostanza riferita dal collaboratore D. B. - secondo cui le consegne erano avvenute "a partire dal mese di settembre 2005, ossia a faida già iniziata" - laddove il D. L. è stato detenuto dal 16 giugno 2005 al 9 luglio 2008, aspetto, questo, su cui la Corte ha erroneamente motivato, concentrandosi sulla diversa circostanza che la carcerazione non affievolisce la stabilità del vincolo.

3.33. Nell'interesse di V.M. - condannato per i reati associativi di cui ai capi sub A) ed I) - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, deducendo vizi di violazione di legge e carenze motivazionali, avendo la Corte d'appello utilizzato i medesimi elementi di prova - ossia, esiti di captazioni telefoniche, ovvero dichiarazioni etero-accusatorie di vari collaboratori di giustizia - per fondare il suo convincimento in ordine ad entrambe le ipotesi di partecipazione ai reati associativi contestati al ricorrente (art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74).

Al riguardo, infatti, si deduce che i contenuti delle dichiarazioni rese dai collaboratori Pa.An., D.B. e P. G., non adeguatamente riscontrati dalle conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione, non potevano in alcun modo essere ritenute convergenti in riferimento alla contestazione dell'ulteriore ipotesi di partecipazione del V. M. all'associazione di cui al su citato art. 74.

Si deduce, inoltre, la violazione dell'art. 81, cpv., c.p., avendo la Corte d'appello erroneamente disatteso la richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione tra l'ipotesi delittuosa contestata nel capo sub A) e quella di tentato omicidio aggravato L. n. 203 del 1991, ex art. 7 dal ricorrente commesso in data 26 novembre 2007 e oggetto di altro procedimento penale, definito con sentenza emessa dalla Corte d'appello di Napoli il 23 settembre 2009.

Siffatto reato, perpetrato in danno di una persona ritenuta affiliata alla contrapposta fazione dei Di Lauro, assumeva la valenza di elemento fondante l'adesione del V.M. al sodalizio criminoso dei c.d. "scissionisti" e risultava dunque connotato in termini di assoluta medesimezza rispetto al disegno criminoso dal ricorrente consumato attraverso la propria intraneità all'associazione di cui al capo sub A) dell'impugnata pronunzia.

3.34. Nell'interesse di C.A. - assolto in primo grado per non aver commesso il fatto, ma poi condannato, in accoglimento dell'appello proposto dal P.M., alla pena di anni otto e mesi otto di reclusione per il reato di partecipazione all'associazione ex art. 416 bis c.p., di cui al capo sub C1), denominata "clan Licciardi" - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure di seguito sinteticamente riassunte.

A) Nullità dell'impugnata pronunzia per violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), per l'assoluta genericità, indeterminatezza ed inconferenza dell'appello proposto dal P.M. avverso la sentenza assolutoria di primo grado, evincibile dalla mancata correlazione tra le ragioni addotte dal Giudice di prime cure ed i motivi dal P.M. posti alla base del gravame, in quanto meramente reiterativi delle considerazioni già rappresentate al G.u.p. prima dell'emissione della pronuncia di primo grado.

Sebbene, infatti, il Giudice di prime cure abbia fondato la pronunzia assolutoria su un giudizio di obiettiva plausibilità dell'interpretazione del tenore delle conversazioni ambientali captate, sull'assenza di ulteriori elementi investigativi aliunde ricavabili che deponessero per una intraneità del C. A. al "clan" Licciardi e sul mancato coinvolgimento dell'imputato nelle vicende processuali oggetto delle numerose sentenze che hanno riguardato tale sodalizio criminale, i rilievi del P.M. si incentrano sulla mera relazione di "vicinanza criminale" tra il "clan" Licciardi ed il "clan" Di Lauro, per desumerne sic et simpliciter l'affiliazione del C.A. al primo sodalizio.

B) Nullità dell'impugnata pronunzia per violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per omessa motivazione circa le ragioni per le quali la Corte d'appello ha disatteso la richiesta, contenuta nella memoria difensiva depositata all'udienza del 20 gennaio 2012, di declaratoria di inammissibilità dell'appello del P.M. con riferimento al reato di cui al capo sub C1) dell'imputazione.

C) Nullità dell'impugnata pronunzia per violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e lett. e), in relazione all'art. 178 c.p.p., lett. c), e art. 121 c.p.p., avendo la Corte d'appello omesso di dare atto del deposito della articolata memoria difensiva nella quale venivano illustrate le ragioni di merito per le quali doveva essere disatteso l'appello del P.M.: dalle numerose pronunzie riguardanti il clan Licciardi, infatti, non emergeva alcun riferimento al C.A. quale interlocutore "captato" nelle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica od ambientale, ovvero come persona interessata agli affari del sodalizio.

Ulteriori carenze motivazionali, peraltro, riguardano le conclusioni cui la Corte d'appello è pervenuta in merito alla valutazione di talune intercettazioni ambientali riportate nella sentenza di primo grado, ed in particolare di quelle captate a bordo di un'autovettura in uso al coimputato S.O., addotte dal P.M. a sostegno della richiesta di affermazione di penale responsabilità per il reato di cui al capo sub C1), ma costituenti oggetto di una spiegazione alternativa fornita dalla difesa sin dall'atto dell'interrogatorio ex art. 294 c.p.p., e già ritenuta obiettivamente plausibile nella sentenza di primo grado: la Corte d'appello, sul punto, non spiega le ragioni per le quali ha ritenuto di conferire pieno credito alla diversa interpretazione prospettata dal P.M., benchè la stessa dovesse considerarsi solo una delle interpretazioni possibili, e neanche quella maggiormente plausibile in ragione di quanto emerso dal complesso delle risultanze processuali, che ne ponevano in evidenza la totale assenza di riscontri esterni.

L'affiliazione del C.A. al clan Licciardi, pertanto, è stata ancorata su una mera auto-attribuzione di tale ruolo, sfornita di qualsivoglia riscontro idoneo a convalidarne la verosimiglianza.

D) Nullità dell'impugnata pronunzia per violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in considerazione dell'omessa o illogica motivazione riguardo ai seguenti profili: 1) nonostante l'arco temporale della contestazione di cui al capo sub C1) risulti particolarmente ampio - ossia, dal 1994 sino al febbraio 2008, e con condotte di partecipazione in ogni caso perduranti - la Corte d'appello ha tralasciato di stabilire il periodo della ritenuta partecipazione al sodalizio criminoso, nonchè di chiarire le ragioni per le quali non sarebbero applicabili all'imputato le pene edittali previste dall'art. 416 bis c.p. anteriormente alla modifica in peius intervenuta con la L. n. 125 del 2008, tenuto conto del fatto che l'esiguo numero di intercettazioni ambientali in atti ha per oggetto conversazioni intercorse con il coimputato S.O. nell'aprile del 2006; 2) la Corte distrettuale avrebbe dovuto contemperare le ragioni alla base della motivazione della penale responsabilità per il reato di cui al capo sub C1) con il materiale intercettativo posto a sostegno della richiesta di affermazione della penale responsabilità per il reato di cui al capo sub T), il cui tenore contrasta con l'auto-attribuzione del ruolo di affiliato al clan Licciardi, evincibile dalle captazioni ambientali poste a sostegno della pronuncia di penale responsabilità per il diverso reato sub C1); 3) il richiamo operato dalla Corte d'appello alla sentenza n. 35479/2010 della Corte di Cassazione risulta del tutto inconferente con riferimento alla posizione del C.A., non essendo emersi al riguardo elementi di prova idonei a dimostrare il ruolo specifico che egli avrebbe ricoperto in seno al predetto sodalizio, ovvero il contributo apportato al mantenimento della vita dell'associazione attraverso lo svolgimento di compiti funzionali alla realizzazione del suo programma delittuoso.

E) Nullità dell'impugnata pronunzia per violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in considerazione dell'omessa o illogica motivazione riguardo all'applicazione di un severo trattamento sanzionatorio, concretizzatosi nel diniego delle circostanze attenuanti generiche e nel procedere da una pena-base elevata, nonostante il comportamento collaborativo tenuto dall'imputato, la marginalità della sua posizione ed il carattere non allarmante dei precedenti penali a carico, che avrebbero comunque consigliato di contenerla entro limiti più prossimi ai minimi edittali.

3.35. Nell'interesse di M.C. ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure qui di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'art. 648 ter c.p. e alla L. n. 203 del 1991, art. 7 atteso che la motivazione dell'impugnata sentenza attribuisce valenza accusatoria ai medesimi elementi di prova che la Suprema Corte di Cassazione aveva qualificato "esili" e "non univoci" proprio per quel che attiene all'accertamento del livello di intraneità mafiosa, e sebbene il quadro probatorio sia rimasto immutato rispetto a quello già giudicato insufficiente dalla Corte di Cassazione in merito alla compartecipazione del M.C. in un'attività economica che utilizza capitali immediatamente riferibili ad A.R. ed ai suoi sodali.

Dal contenuto delle conversazioni intercettate emergono, infatti, previsioni sull'andamento della futura attività lavorativa attraverso la costituzione di una nuova società, problemi legati alla strategia da adoperare per fini concorrenziali e questioni sulle incombenze amministrative e sull'affidabilità delle persone con cui il ricorrente avrebbe dovuto stringere affari, non certo la volontà di contribuire al rafforzamento del gruppo Amato, favorendone il riciclaggio ed il reinvestimento dei capitali accumulati illecitamente.

Nè in atti vi è alcuna traccia del ricorso al "metodo camorristico" che integra la censurata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

B) Violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), e carenze motivazionali in relazione ai principii fissati negli artt. 62 bis, 69, 132 e 133 c.p., non avendo la Corte territoriale considerato lo stato di assoluta incensuratezza dell'imputato, l'assenza di ulteriori pendenze, l'entità della sua partecipazione alla compagine associativa ed il leale comportamento osservato durante il periodo di libertà goduto dopo l'annullamento dell'ordinanza custodiale da parte del Tribunale del riesame, tutti elementi positivi della condotta che ben potevano giustificare il contenimento della pena nei limiti edittali.

3.36. C.T. ha personalmente proposto ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), in quanto la prova posta a fondamento del giudizio di responsabilità è stata tratta unicamente dalla chiamata in correità dei collaboratori di giustizia, senza che la Corte d'appello abbia al riguardo ottenuto e valutato un valido riscontro dei contenuti narrativi.

3.37. Nell'interesse di M.F. - condannato alla pena di anni dieci di reclusione per i reati di cui ai capi sub I) ed L) - ha proposto ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia, formulando le censure qui di seguito sinteticamente riassunte.

A) Violazione dell'art. 533 c.p.p., n. 2 e art. 546 c.p.p., lett. f), in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, in quanto sia in primo grado che in appello non sono stati indicati, nè in motivazione, nè in dispositivo, gli articoli di legge e la pena stabilita per ciascuno dei reati posti in concorso.

In relazione al M.F., infatti, si è ritenuto il "ruolo di responsabile della vendita di eroina e cocaina nel lotto SC di via (OMISSIS)....", senza chiarire se la figura del "responsabile di zona" integri quella di un organizzatore o di un partecipante; al riguardo, dunque, sia il G.i.p. che la Corte d'appello avrebbero dovuto indicare, a norma dell'art. 533 c.p.p., n. 2, i reati che il capo d'imputazione non ha invece distinto.

B) Errata applicazione della legge penale in relazione all'art. 56 c.p., comma 3, avendo la Corte d'appello negato il riconoscimento dell'esimente in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (capo sub I), sebbene la difesa avesse documentato che il M. F. si era trattenuto a Napoli per pochi mesi, mentre dall'ottobre 2006 era definitivamente emigrato a Ferrara, dove svolgeva un lavoro e dove fu successivamente tratto in arresto nel 2009.

C) Errata applicazione della legge penale in relazione all'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 riconosciuta dalla Corte territoriale per il reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 (capo sub L), senza specificare, tuttavia, la presenza di condotte concrete, idonee ad evocare la forza intimidatrice propria del vincolo associativo, ovvero forme di coercizione diretta o indiretta, tenuto conto, altresì, del fatto che il M.F. non era stabilmente presente nel territorio che ha costituito il teatro dei comportamenti sanzionati.

D) Con motivi aggiunti, depositati in data 6 settembre 2013, la difesa ha dedotto la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche per il comportamento processuale dell'imputato, che ha ammesso le proprie responsabilità, in sede di spontanee dichiarazioni all'atto della conclusione del giudizio di primo grado, ed ha tenuto una positiva condotta a seguito del volontario allontanamento dai luoghi dove si era svolta la sua attività delittuosa: su tali aspetti la Corte territoriale ha omesso di fornire qualsiasi risposta.

3.38. Nell'interesse di C.P. e D.D.G. - condannati, a seguito di riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado, alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione per i reati di cui agli artt. 110, 81 cpv., cp., al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2, 3, 4, art. 73, cpv. e art. 80, lett. b) e c) e comma 2, loro ascritti nel capo sub L1) - ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, formulando le censure qui di seguito sinteticamente riassunte.

A) Carenze motivazionali ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), avendo la Corte d'appello interpretato le risultanze processuali in senso opposto rispetto al primo giudizio, senza una puntuale disamina dei motivi per cui la valutazione del primo giudice dovrebbe ritenersi errata.

Nessuno dei collaboratori di giustizia ha fatto specifico riferimento alla posizione dei due imputati, salva una generica affermazione del Pr.Ma. riguardo al fatto che il C.P. sarebbe transitato con gli "scissionisti", senza peraltro menzionare attività connesse al traffico di droga.

Nè alcun riferimento in tal senso può trarsi dal contenuto delle conversazioni telefoniche ed ambientali oggetto di intercettazione.

Profili, quelli ora evidenziati, già posti in luce nella sentenza assolutoria di primo grado, ma sui quali la Corte d'appello omette qualsiasi valutazione, optando per una conclusione inidonea a superare il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dei due imputati.

B) Carenze motivazionali per travisamento della prova su fatti decisivi per la decisione, laddove la Corte d'appello ha ritenuto che l'abitazione dei C.P. sia stata il centro di riferimento degli affiliati alla contestata associazione, per quel che inerisce alla gestione tecnico-contabile del sodalizio, confondendo l'abitazione degli imputati con l'intero stabile ove essa si trova.

Dalle risultanze delle videoriprese, infatti, emerge con chiarezza che nessuno degli imputati è mai stato all'interno dell'abitazione dei ricorrenti, ma solo all'interno dello stabile ove è ubicata la loro abitazione.

Frutto di confusione sono, inoltre, il riferimento ad una presunta, ripetuta frequentazione con altri affiliati al "clan" (non risultando dal materiale probatorio contatti con elementi diversi dall' Ar.

A.), così come l'attribuzione ai predetti coniugi del possesso dell'appartamento contiguo, ove è avvenuto il ritrovamento di un foglio con l'annotazione dei conteggi relativi all'attività di spaccio: si tratta, infatti, di un locale nella materiale disponibilità di chiunque si trovi ad entrare, ovvero ad uscire dallo stabile.

C) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'errata qualificazione giuridica dei fatti, che, laddove ritenuti rilevanti, avrebbero dovuto configurarsi come mera assistenza agli associati ex art. 418 c.p., nei confronti dell' Ar.An., risultando le condotte poste in essere dai ricorrenti del tutto episodiche, di tipo assistenziale e limitate a contatti intervenuti con il predetto coimputato.

3.39. I.F. ha personalmente proposto ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e), in quanto la prova posta a fondamento del giudizio di responsabilità nei suoi confronti espresso è stata tratta unicamente dalla chiamata in correità dei collaboratori di giustizia, senza che la Corte d'appello abbia al riguardo ottenuto e valutato un valido riscontro dei contenuti narrativi.

3.40. E.M. - condannato alla pena di anni 10 di reclusione per il reato di cui al capo sub A), ritenuto in continuazione con quello di cui al capo sub T) dell'imputazione - ha proposto ricorso a mezzo del suo difensore (Avv. Lucio Mariano Sena), formulando le censure di seguito sinteticamente illustrate.

A) Violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e lett. e), in relazione all'art. 416 bis c.p., nonchè all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., art. 533 c.p.p., comma 1 e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per avere la Corte d'appello condannato il ricorrente sulla corta di indizi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, contenendo le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia riferimenti troppo generici, e comunque insufficienti a dare atto dell'affectio societatis, attribuendogli in maniera atomistica ( Pa.An., Pr.An., P. A.) il ruolo di "vedetta".

B) Violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e lett. e), in relazione agli artt. 110, 112 e 605, c.p., alla L. n. 203 del 1991, art. 7 nonchè in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., comma 2 e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per motivazione apparente e manifestamente illogica, avendo la Corte d'appello ritenuto l'imputato responsabile del reato di sequestro di persona, in concorso con altri coimputati, sulla base di due elementi congetturali, ossia la mera presenza fisica dell' E. M. nel luogo ove fu portata la persona offesa A. A., rimanendovi per brevi istanti, ed il generico ruolo di "vedetta" riferito dai collaboratori di giustizia, senza tener conto non solo dei criteri di valutazione della prova in ordine alla sussistenza dell'elemento oggettivo e soggettivo delle contestate fattispecie incriminatrici, ma anche delle puntuali censure difensive al riguardo formulate.

3.41. Ce.Ca. ha personalmente proposto ricorso per cassazione, deducendo la violazione degli artt. 62 e 69 c.p., per il mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, nonostante la giovane età ed il comportamento collaborativo tenuto nell'occasione.

Si deduce, inoltre, la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), non avendo la Corte d'appello adeguatamente motivato riguardo al su evidenziato profilo.

Motivi della decisione
4. Va preliminarmente disposta, come da verbale, la separazione delle posizioni processuali degli imputati M.C., M.O. e P.A., con rinvio dei relativi procedimenti a nuovo ruolo, in ragione del legittimo impedimento del difensore, Avv. Raffaele Quaranta.

5. Relativamente alla posizione di E.F. la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per morte dell'imputato, avvenuta in data (OMISSIS), così come attestato nel relativo certificato di morte rilasciato dall'Ufficiale dello Stato civile del Comune di Casalnuovo di Napoli in data (OMISSIS).

6. Preliminarmente, occorre esaminare taluni punti critici di comune interesse nell'ambito dei motivi di doglianza da numerosi ricorrenti formulati.

6.1. Per quel che attiene, in particolare, alle obiezioni, talora generiche, mosse riguardo alle propalazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, la Corte distrettuale ne ha motivatamente escluso la fondatezza, ponendo in rilievo, sulla base di valutazioni congruamente ed esaustivamente esposte in punto di fatto, e in quanto tali immuni da censure in questa Sede, la spontaneità, l'ampiezza, la costanza, l'intima coerenza logica e la specificità del complesso delle dichiarazioni analizzate nelle sentenze di primo grado, che sono risultate fra loro reciprocamente riscontrate, e soprattutto assistite da dati esterni di natura obiettiva e di incontrovertibile valenza, di volta in volta specificamente evidenziati nell'esposizione del contenuto di quelle utilizzate e vagliate per ciascuna delle posizioni processuali, ciò che ha indotto la Corte d'appello a ritenere positivamente superato il duplice vaglio sull'attendibilità intrinseca ed estrinseca dei singoli dichiaranti, consentendo di utilizzare le rispettive narrazioni ai fini della verifica della fondatezza dei correlativi temi d'accusa.

Nell'impugnata pronuncia, inoltre, sono state rimarcate le connotazioni di indipendenza ed autonomia delle rispettive dichiarazioni auto ed etero-accusatorie - per lo più provenienti da persone inserite nel medesimo contesto criminoso, e come tali a diretta conoscenza dei fatti, ovvero da esponenti di gruppi con essi alleati, in grado di comprendere appieno e di riferire in merito alle relative dinamiche - motivatamente escludendo ogni ragione di astio, di rancore o di intenti ritorsivi che ne possano in qualche modo compromettere gli indispensabili profili di genuinità e spontaneità.

A tale riguardo, la Corte d'appello ha soggiunto che la sostanziale convergenza delle narrazioni rese dai collaboratori di giustizia, da ritenere, come si è visto, intrinsecamente attendibili per precisione e congruenza contenutistica, nonchè l'apprezzamento congiunto dell'intero materiale probatorio a disposizione ed il positivo riscontro fornito alle dichiarazioni, in ordine ai fatti in contestazione, da plurimi ed incontrovertibili dati di natura obiettiva (specificamente e di volta in volta indicati in sede di esposizione del contenuto delle chiamate), unitamente agli ulteriori riscontri forniti dagli esiti delle attività di intercettazione, ne hanno consentito la piena e legittima utilizzazione, in aderenza al canone di valutazione probatoria dettato dalla norma di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3.

Sotto altro, ma connesso profilo, la Corte di merito ha replicato alle obiezioni difensive, sottolineando che l'esistenza di eventuali imprecisioni o di sopravvenute precisazioni, anche se in alcuni casi effettivamente ravvisabili nelle dichiarazioni dei collaboratori, non è di per sè sufficiente ad escluderne l'attendibilità, dovendo le singole propalazioni essere valutate anche tenendo in debita considerazione la complessità e pluralità delle dichiarazioni accusatorie, la parcellizzazione di conoscenza rispetto al fatto ed i fisiologici affievolimenti mnemonici, specie se riguardanti particolari secondari delle vicende narrate.

E' pacifico, del resto, l'insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, secondo cui, in tema di prova dei delitti maturati nell'ambito di un'organizzazione criminale di tipo mafioso, la presenza di eventuali smagliature o discrasie nelle dichiarazioni accusatorie rese da persone comprese tra quelle indicate nell'art. 192 c.p.p., ai commi 3 e 4 rilevabili sia all'interno di tali dichiarazioni, sia nel confronto tra esse, non implica, di per sè, il venir meno della loro sostanziale affidabilità, quando, sulla base di un'adeguata motivazione, ne risulti dimostrata, come avvenuto nel caso in esame, la complessiva convergenza nei rispettivi nuclei fondamentali (da ultimo, Sez. 6^, n. 6425 del 18/12/2009, dep. 17/02/2010, Rv. 246528). Le eventuali discrasie ravvisabili su alcuni punti, anzi, possono talora confermare la reciproca autonomia delle predette dichiarazioni, perchè fisiologiche in presenza di narrazioni dello stesso fatto provenienti da soggetti diversi (Sez. 2^, n. 25795 del 19/06/2012, dep. 04/07/2012, Rv. 253418).

Sul punto occorre poi ribadire l'ulteriore regula iuris, anch'essa correttamente osservata nella motivazione della impugnata decisione, secondo cui, in caso di più chiamate convergenti, i riscontri esterni possono anche consistere nella circostanza che le dichiarazioni riconducano, anche se in modo non sovrapponibile, il fatto all'imputato, essendo sufficiente la confluenza su comportamenti riferiti alla sua persona e alle imputazioni a lui attribuite, cioè l'idoneità delle dichiarazioni a riscontrarsi reciprocamente nell'ambito della cosiddetta "convergenza del molteplice" (Sez. 1^ n. 31695 del 23/06/2010, dep. 11/08/2010, Rv.

248013).

6.2. Ulteriori elementi di prova sono emersi dagli esiti delle attività di intercettazione, il cui contenuto, ritenuto univocamente convergente in ordine alla realizzazione delle condotte delittuose oggetto di verifica e, a sua volta, riscontrato dalle parallele operazioni di P.G., è stato specificamente e congruamente vagliato dai Giudici merito, che ne hanno offerto una motivata interpretazione, dando conto dell'esistenza e della concreta operatività di una complessa struttura, dotata di risorse materiali ed umane, impegnata senza soluzione di continuità, nella realizzazione di un comune programma di cui ogni singolo episodio delittuoso ha rappresentato una concreta manifestazione ed estrinsecazione.

In materia di intercettazioni telefoniche, del resto, è noto sul punto l'insegnamento di questa Suprema Corte, secondo cui l'interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce una questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, che si sottrae al sindacato di legittimità se viene motivata, come verificatosi nel caso in esame, in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza (da ultimo, Sez. 6^, n. 11794 del 11/02/2013, dep. 12/03/2013, Rv. 254439).

A tale riguardo, inoltre, deve rilevarsi come la Corte di merito si sia pienamente uniformata alla linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, secondo cui alle indicazioni di reità provenienti dalle conversazioni intercettate non si applica affatto la regola di valutazione di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3, ma quella generale del prudente apprezzamento del giudice, non essendo le stesse assimilabili alle dichiarazioni che il coimputato del medesimo reato o la persona imputata in un procedimento connesso rende in sede di interrogatorio dinanzi all'autorità giudiziaria (da ultimo, Sez. 2^, n. 4976 del 12/01/2012, dep. 09/02/2012, Rv. 251812;

Sez. 4^, n. 31260 del 04/12/2012, dep. 22/07/2013, Rv. 256739).

6.3. Parimenti infondate devono ritenersi le prospettate discrasie nei contenuti dei verbali riassuntivi e delle integrali trascrizioni delle fonoregistrazioni degli interrogatori dei collaboratori di giustizia, avendone i Giudici di merito motivatamente escluso la fondatezza con congrue ed esaustive considerazioni, ponendo altresì in risalto, sulla base di un'attenta e specifica valutazione di raffronto comparativo, il fatto che tali ipotetiche divergenze lessicali trovano la loro evidente giustificazione nel fatto che, nei verbali riassuntivi, l'Autorità giudiziaria inquirente ha dovuto "tradurre" in lingua italiana le espressioni gergali o dialettali di volta in volta riferite dai propalanti.

6.4. Anche riguardo ai profili concernenti l'apprezzamento del ruolo svolto da ciascuno degli associati, i Giudici di merito ne hanno di volta in volta sottolineato la rilevanza causale ai fini del mantenimento in vita del sodalizio di appartenenza, ponendone altresì in rilievo la funzionalità alla realizzazione del programma delittuoso perseguito, talora in maniera esclusiva, talaltra congiuntamente ad altri compiti, tenendo conto della possibile diversificazione dei compiti operativi nei relativi settori di interesse (armi, stupefacenti, ecc.), in linea con il quadro di principii tratteggiato da questa Suprema Corte, secondo cui, una volta dimostrata l'esistenza di un'associazione per delinquere e individuati gli elementi, anche indiziari, sulla base dei quali possa ragionevolmente affermarsi la cointeressenza di taluno nelle attività dell'associazione stessa e quindi la partecipazione alla vita di quest'ultima, non occorre anche la dimostrazione del ruolo specifico svolto da quel medesimo soggetto nell'ambito dell'associazione, potendo la partecipazione al sodalizio criminoso, per sua stessa natura, realizzarsi nei modi più svariati, la cui specificazione non è richiesta dalla norma incriminatrice e non può, quindi, essere richiesta nemmeno nella sentenza di condanna (Sez. 5^, n. 35479 del 07/06/2010, dep. 01/10/2010, Rv. 248171).

E' noto, peraltro, che i reati di associazione per delinquere, generica o di stampo mafioso, concorrono con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi (Sez. Un., n. 1149 del 25/09/2008, dep. 13/01/2009, Rv. 241883; Sez. 2^, n. 36692 del 22/05/2012, dep. 24/09/2012, Rv. 253892).

Entro questa prospettiva, inoltre, i Giudici di merito si sono uniformati alla linea interpretativa da questa Suprema Corte tracciata, allorquando ha precisato che rispondono sia del reato di associazione di tipo mafioso che di quello di associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti, qualora il traffico di stupefacenti sia oggetto di una delle attività di un'associazione di tipo mafioso e venga gestito attraverso un'associazione all'uopo finalizzata e appositamente costituita e diretta dai componenti di quella mafiosa, non solo questi ultimi, ma altresì coloro che abbiano operato esclusivamente nell'ambito del traffico di stupefacenti nella consapevolezza però che lo stesso fosse gestito dal sodalizio mafioso (Sez. 6^, n. 4651 del 23/10/2009, dep. 03/02/2010, Rv. 245875).

7. I ricorsi proposti dall'Avv. Lucio Mariano Sena nell'interesse di Ca.Ca., E.M. e C.C. (v., supra, i parr. 3.7., 3.24. e 3.41.) sono inammissibili, ai sensi dell'art. 613 c.p.p., comma 1, in quanto sottoscritti da difensore non iscritto all'albo speciale della Corte di Cassazione.

Nè gli stessi possono intendersi personalmente proposti dagli imputati, sulla base del criterio direttivo incentrato sulla verifica del requisito formale al riguardo stabilito in questa Sede (Sez. Un., n. 47803 del 27/11/2008, dep. 23/12/2008, Rv. 241355), non recando gli stessi, in calce, l'atto di nomina del difensore sottoscritto dall'imputato con firma appositamente autenticata.

Per quel che attiene alla posizione di C.C., inammissibile deve altresì ritenersi l'ulteriore ricorso nel suo interesse proposto da altro difensore (v., supra, il par. 3.7.), avendo la Corte d'appello correttamente risposto all'obiezione difensiva, nel rilevare il difetto di tempestività dell'eccezione sull'assunto che il C.C. era munito di due difensori e che alla prima udienza innanzi al G.i.p. era presente uno dei due, con la conseguenza che quest'ultimo aveva la facoltà e l'onere di verificare le ragioni per le quali il codifensore non era comparso, tenuto conto delle chiare implicazioni della regula iuris al riguardo stabilita da questa Suprema Corte, secondo cui la nullità a regime intermedio, derivante dall'omesso avviso dell'udienza a uno dei due difensori dell'imputato, è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione ad opera dell'altro difensore comparso, pur quando l'imputato non sia presente (Sez. Un., n. 39060 del 16/07/2009, dep. 08/10/2009, Rv. 244187, che in motivazione hanno altresì precisato che è onere del difensore presente, anche se nominato d'ufficio in sostituzione di quello di fiducia regolarmente avvisato e non comparso, verificare se sia stato avvisato anche l'altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata comparizione, eventualmente interpellando il giudice; nello stesso senso v., inoltre, Sez. 6^, n. 17267 del 16/04/2010, dep. 06/05/2010, Rv. 247086, nonchè Sez. 1^, n. 19982 del 21/03/2013, dep. 09/05/2013, Rv. 256182).

Nella stessa prospettiva deve altresì ribadirsi l'ulteriore principio al riguardo stabilito da questa Corte, secondo cui la nullità di ordine generale a regime intermedio, derivante dall'omesso avviso ad uno dei due difensori di fiducia, deve essere eccepita ad opera dell'altro difensore al più tardi immediatamente dopo gli atti preliminari, prima delle conclusioni qualora il procedimento non importi altri atti, in quanto il suo svolgersi (in udienza preliminare, riesame cautelare o giudizio) presume la rinuncia all'eccezione (Sez. Un., n. 39060 del 16/07/2009, dep. 08/10/2009, Rv. 244188, che in motivazione hanno precisato che non è possibile far valere successivamente l'interesse dell'imputato non comparso ad essere assistito anche dal difensore non avvisato, in quanto tale interesse non è riconoscibile in sede di impugnazione del provvedimento conclusivo del giudice).

8. Passando ora ad esaminare le ulteriori posizioni processuali, inammissibili devono ritenersi i ricorsi proposti da A. F., A.A., Ar.An., B.G., B.F., B.A., C.R., C. T., Ce.Ca., C.G., D.M.V., D.L., F.G., G.G., I. F., L.D.B.U., m.a., M. A., M.M., Ma.An., M.D., N.E., S.G., S.S., V.M., in quanto sostanzialmente orientati a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte in sede di appello - e finanche dinanzi al Giudice di prime cure - che tuttavia risultano ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, ed in tal guisa richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione.

I su indicati ricorsi, dunque, non sono volti a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento dei rispettivi temi d'accusa.

In tal senso, invero, la Corte territoriale ha proceduto, sulla base di quanto specificamente esposto in narrativa, ad un vaglio critico di tutte le deduzioni ed obiezioni mosse dalle difese, motivatamente escludendo ogni decisiva influenza nell'apprezzamento delle lacune o contraddizioni di volta in volta prospettate nella lettura delle dichiarazioni rese dai collaboranti, ed infine pervenendo all'impugnato epilogo decisorio attraverso una disamina completa ed approfondita del complesso delle risultanze processuali.

Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di prime cure, la cui struttura motivazionale viene sul punto a saldarsi perfettamente con quella di secondo grado, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, la Corte di merito ha puntualmente disatteso le diverse ricostruzioni prospettate dalle difese, concludendo nel senso della configurabilità delle ipotesi di reato in contestazione per ciascuno dei suddetti imputati.

8.1. Ferme le considerazioni dianzi esposte nel par. 6. e quelle or ora espresse nel par. 8., del tutto generici devono ritenersi i rilievi prospettati nei ricorsi di B.A., m.

a., L.D.B.U., A.F., C.R., C.T., A.A., B.G., S. G., M.D., I.F., Ce.Ca., N.E., V.M., Ar.An. e S.S., in quanto sommariamente enunciati riguardo a circostanze di fatto già ampiamente valutate dai Giudici di merito, senza sviluppare alcun confronto critico con il tessuto argomentativo dell'impugnata pronuncia, che, di contro, ha congruamente illustrato, per ciascuno di essi, il ragionamento probatorio sotteso al giudizio di responsabilità, dando ampiamente conto non solo delle convergenti dichiarazioni accusatorie dei collaboratori sull'affiliazione al relativo sodalizio e sui compiti, comunque funzionali all'organizzazione, da essi svolti talora anche in forma diversificata, ma anche dei relativi elementi di riscontro emersi dal contenuto delle intercettazioni e dalle altre attività d'indagine svolte dalla P.G..

Le doglianze ivi espresse non sono proponibili in sede di legittimità, in quanto investono, per lo più, aspetti inerenti direttamente alla valutazione della prova, che rientra nella facoltà esclusiva del Giudice di merito e non può essere posta in questione in questa Sede attraverso alternative opzioni ricostruttive, laddove, come avvenuto nel caso in esame, sia fondata su una motivazione coerentemente articolata e non manifestamente illogica.

La Corte d'appello, inoltre, si è premurata di indicare specificamente, con valutazioni in fatto immuni da censure in questa Sede, le ragioni giustificative sia della dosimetria del relativo trattamento sanzionatorio, che del diniego delle invocate attenuanti generiche, con riferimento ai criteri stabiliti dall'art. 133 c.p., ed in particolare a quelli inerenti alla gravità delle imputazioni loro ascritte, alle modalità allarmanti di realizzazione dei reati, ovvero, per taluni di essi, ai numerosi precedenti penali a carico.

In relazione a tale ultimo profilo, le doglianze dai predetti ricorrenti espresse tendono, dunque, a censurare un potere discrezionale il cui esercizio è stato oggetto di attenta ponderazione e congrua motivazione da parte della Corte territoriale, che ha fatto riferimento ai motivati criteri di dosimetria della pena già utilizzati nella decisione del Giudice di primo grado, confermando sostanzialmente le ragioni poste alla base delle relative determinazioni sanzionatorie ed in tal guisa esprimendo la piena giustificazione di un apprezzamento di merito come tale non assoggettabile a sindacato in questa Sede, ponendosi, di contro, le deduzioni difensive al riguardo formulate nella mera prospettiva di accreditare una diversa ed alternativa valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti fattuali che giustificherebbero la concessione delle invocate attenuanti.

8.1.1. Per quel che attiene, in particolare, alla posizione dell' A.F., deve altresì rilevarsi come la Corte di merito abbia congruamente valorizzato, riguardo alla prova del legame che lo ha accomunato ad entrambi i sodalizi criminali in contestazione (il "clan Di Lauro" e quello degli "scissionisti"), con il prevalente compito di addetto al settore degli stupefacenti, il contenuto inequivoco delle conversazioni intercettate, oltre alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Pr.

M. e Pi.An..

8.1.2. Con riferimento al ricorso proposto da C.R., manifestamente infondati devono ritenersi i rilievi difensivi, che puntano a sollecitare la rivisitazione di profili di merito sui quali la Corte d'appello si è espressamente pronunziata, argomentando nel senso che gli assunti difensivi risultavano smentiti non solo dall'apprezzamento delle modalità e dei luoghi della detenzione delle armi di cui ai capi sub S), S1) ed S2), siccome conformi a quelle consuete al riguardo concordemente riferite dai collaboranti D.B., Pr.Ma. e Pa.An., ma anche dalla presenza dell'imputato nei luoghi, accessibili soltanto previa apertura di un cancello mediante telecomando detenuto dai soggetti che vi si trovavano all'interno, oltre che dall'utilizzo da parte del Ca.Ca. di alcune autovetture ivi rinvenute.

Anche i profili attinenti alla congruità della pena sono stati espressamente valutati nell'impugnata pronunzia, che ha motivatamente confermato le statuizioni sul punto adottate dal Giudice di prime cure, mentre l'eccezione di rito su esposta, e comune anche ad altri ricorrenti v., supra, il par. 3.23, lett. E), deve anch'essa ritenersi del tutto infondata, essendo stata correttamente disattesa in ossequio alla linea interpretativa da questa Suprema Corte tracciata (Sez. 6^, n. 14396 del 19/02/2009, dep. 01/04/2009, Rv.

243263; Sez. 1^, n. 5722 del 20/12/2012, dep. 05/02/2013, Rv. 254807;

Sez. 1^, n. 6907 del 24/11/2011, dep. 22/02/2012, Rv. 252401; in precedenza, v. Sez. Un., n. 31461 del 27/06/2006, dep. 22/09/2006, Rv. 234146), allorquando ha stabilito che il legittimo impedimento del difensore, quale causa di rinvio dell'udienza, non rileva nei procedimenti in camera di consiglio, per i quali è previsto che i difensori, il pubblico ministero e le altre parti interessate, siano sentiti solo se compaiono (nella specie la Corte, disattendendo l'eccezione di nullità dell'udienza camerale tenuta nell'assenza del difensore aderente ad astensione collettiva dalle udienze, ha ritenuto, in applicazione di detto principio, irrilevante la previsione dell'art. 3, comma 2, della Delibera n. 02/137 della Commissione di Garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici, secondo cui il difensore è tenuto a comunicare all'autorità procedente e agli altri difensori solo l'eventuale sua "non adesione" all'astensione).

8.1.3. In ordine alla posizione del Ce.Ca., poi, deve soggiungersi l'ulteriore rilievo per cui la Corte d'appello ha denegato l'invocata prevalenza delle attenuanti generiche, uniformandosi al contenuto e alle finalità della regula iuris stabilita da questa Suprema Corte, secondo cui non è consentito utilizzare gli elementi posti a fondamento della concessione della circostanza attenuante ad effetto speciale della cosiddetta "dissociazione attuosa", prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8 convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, una seconda volta anche per giustificare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, perchè ciò condurrebbe ad un'inammissibile ripetuta valorizzazione dei medesimi elementi (Sez. 5^, n. 34574 del 13/07/2010, dep. 23/09/2010, Rv. 248176).

8.1.4. La Corte distrettuale ha posto altresì in rilievo come assolutamente chiare, univoche, ed ampiamente riscontrate dal tenore delle conversazioni intercettate, oltre che dagli esiti delle attività investigative di P.G., debbano ritenersi le risultanze probatorie emergenti dalle numerose dichiarazioni accusatorie rese dai collaboranti ( Co.Ga., Mi.Gi., M. E.Z., D.B., Pa.An., P. G.) riguardo all'affiliazione, con posizione apicale in tutti i contestati sodalizi criminali, del N.E., le cui funzioni operative hanno assunto connotazioni predominanti all'interno di un "gruppo" ove risultava inserito un folto numero di soggetti.

Il contenuto di tali dichiarazioni è stato puntualmente esaminato dalla Corte di merito, che ha motivatamente disatteso le obiezioni difensive mosse riguardo alla qualità e alla conducenza dei diversi contributi narrativi - provenienti da collaboratori di giustizia che hanno riferito sul ruolo, sull'attività svolta, sugli incontri con lui avuti e su altri episodi inerenti alla vita delle associazioni - ponendo in evidenza non solo il suo coinvolgimento nel settore delle armi e nella realizzazione di taluni omicidi, con il compito di killer ( Mi.Gi., M.E.Z., Pi.Gi.

e Pa.An.), ma anche il fatto che, in conseguenza della tregua, l'organizzazione criminale scissasi dal "clan Di Lauro" riprese la primaria attività illecita nel settore degli stupefacenti, demandando proprio al N.E. la gestione di alcune "piazze di spaccio" in zone (quartiere 167, zona Scampia) ove tale illecito commercio era particolarmente diffuso, unitamente all'ulteriore circostanza di fatto che egli assunse gradualmente la direzione di tutte le "piazze di spaccio" attive in quel quartiere e nelle zone limitrofe, ad eccezione di quelle riferibili al "clan Lo Russo".

Esaustivamente motivate risultano, peraltro, le ragioni giustificative del correlativo trattamento sanzionatorio, anche riguardo alla tardività della richiesta di applicazione della continuazione con un precedente giudicato.

8.1.5. Per quel che attiene al ricorso del V. M., la Corte partenopea ha dato ampiamente conto delle dichiarazioni rese dai collaboranti (segnatamente, dal D. B., dal Pa.An. e dal Pi.Gi.), il cui contenuto narrativo, riscontrato dall'esito delle conversazioni oggetto di intercettazione e dai controlli svolti dalla P.G., è stato ritenuto coerentemente indicativo della sua appartenenza ad entrambi i sodalizi criminali, con il ruolo di addetto sia al gruppo gestito dal N.E. nel settore degli stupefacenti, per la zona di Scampia, sia a quello concernente le armi da fuoco.

Puntualmente disattesi gli analoghi rilievi in punto di fatto espressi, al riguardo, dalla difesa, l'impugnata pronunzia si è altresì soffermata sulla richiesta di applicazione della continuazione con la sentenza della Corte di appello di Napoli del 23.9.09, che condannava l'imputato per tentato omicidio aggravato dalla L. n. 203 del 1991, art. 7 commesso il 26.11.07, rigettandola con congrua motivazione, sia perchè priva di specifici elementi a sostegno, sia perchè in contrasto con la consolidata linea interpretativa di questa Suprema Corte, secondo cui non è configurabile la continuazione tra il reato associativo e quei reati fine che, pur rientrando nell'ambito delle attività del sodalizio criminoso ed essendo finalizzati al rafforzamento del medesimo, non erano programmabili "ab origine", perchè legati a circostanze ed eventi contingenti ed occasionali o, comunque, non immaginabili al momento iniziale dell'associazione stessa (Sez. 1^, n. 13609 del 22/03/2011, dep. 05/04/2011, Rv. 249930).

8.1.6. Richiamate le considerazioni dianzi esposte nel par. 6, deve inoltre rilevarsi come del tutto univoci e convergenti siano stati ritenuti gli elementi di responsabilità illustrati dalla Corte d'appello riguardo alla posizione dell' Ar.An., la cui adesione al "clan Di Lauro" reato di cui al capo sub C) nel periodo contestato, ossia dal novembre 2004 sino al marzo 2006, coincidente con quello individuato anche nel precedente capo sub L1), è stata oggetto dei contributi narrativi provenienti dai collaboranti Pi.

A., Pr.Ma., Pr.An. e V. S., che hanno temporalmente collocato il transito agli scissionisti nel 2006, in seguito all"omicidio di Pi.Gi..

Le argomentazioni volte a contestare l'attendibilità delle dichiarazioni rese dai predetti collaboratori di giustizia costituiscono valutazioni di merito, il cui sindacato è inibito nella Sede di legittimità, in quanto evidentemente intese ad offrire valutazioni fattuali alternative rispetto a quelle accolte ed argomentate nella sentenza impugnata, ed essendo la funzione di questa Suprema Corte limitata ad accertare se le valutazioni di fatto svolte dai Giudici di merito siano, come avvenuto nel caso in esame, ben sostenute da una trama motivazionale aderente ai principii della logica ed esente da contraddizioni ictu oculi rilevabili.

Al riguardo, inoltre, la Corte di merito ha posto in evidenza come tali dichiarazioni abbiano ricevuto ulteriore conferma, in merito al legame intrattenuto con i D.L., anche da quelle rese da Es.Pi., precisando come l' Ar.An. venga indicato ora come persona di fiducia (da entrambi i Mi. e dal P. A.), ora come personaggio di spicco (dal Pi.Gi.) all'interno del citato "clan", ciò che ha coerentemente indotto la Corte di merito a ritenere ampiamente comprovata la sua totale adesione a quest'ultimo.

Analoghe indicazioni sono state desunte in ordine al reato di cui al capo sub A), circa la successiva affiliazione dell'imputato al "clan Amato-Pagano", alla stregua delle concordi dichiarazioni sul punto rese dai predetti collaboratori.

Un compendio probatorio, quello or ora indicato, che è stato peraltro riscontrato in maniera oggettiva sia dal contenuto delle numerose operazioni di intercettazione che dal tenore delle attività di videoripresa, la cui puntuale disamina ha consentito alla Corte d'appello di ritenere sussistente un'attività di gestione, con ruolo non secondario, anche nel traffico di droga svolto per conto dei D. L., quale condotta configurante l'ulteriore delitto associativo di cui al capo sub L1).

Nella valutazione delle predette dichiarazioni, peraltro, la Corte d'appello ha replicato alle obiezioni ed ai rilievi difensivi, e li ha motivatamente disattesi muovendo dall'assunto, linearmente illustrato ed esente da vizi in questa Sede riconoscibili, che pressochè tutti i collaboranti concordano su un aspetto centrale della vicenda storico-fattuale in esame, avendo riferito che anche durante il periodo della faida l'imputato rimase fedele ai D. L., mentre solo successivamente egli passò con gli scissionisti, con la conseguenza che eventuali discrasie o imprecisioni rilevabili nella lettura dei correlativi contributi narrativi sono apparse marginali, e comunque non decisive, trovando la loro giustificazione nel naturale sviluppo del processo cognitivo di ciascun collaborante rispetto alle vicende apprese in base alla sua personale esperienza, mentre il passaggio da un "clan" all'altro dovette avvenire necessariamente in maniera graduale, come per ogni vicenda umana, non potendosi pretendere un atto o un momento certo e palese di distacco dall'originario sodalizio e di adesione all'altro.

E' nota, del resto, la linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, secondo cui i riscontri esterni della chiamata in correità possono essere ricavati anche da una pluralità di chiamate convergenti: il requisito della convergenza, infatti, non va inteso come piena sovrapponibilità delle diverse chiamate (che sarebbe, oltretutto, sospetta), ma come concordanza dei nuclei essenziali delle dichiarazioni, in relazione al "thema decidendum", dovendo piuttosto il giudice verificare che tale consonanza non sia frutto di condizionamenti, collusioni e reciproche influenze (ex plurimis, v.

Sez. 5^, n. 9001 del 15/06/2000, dep. 10/08/2000, Rv. 217729).

Un ulteriore riscontro è stato ricavato dal sequestro, avvenuto in coincidenza con i servizi di osservazione svolti dalla P.G., di fogli con l'annotazione di conteggi relativi a somme di denaro per un ammontare di 88.000,00 Euro circa, suddiviso per giornate di incasso e tipologia di stupefacente, rinvenuti in un appartamento comunicante con l'abitazione del C.P., frequentato anche dall' Ar.An. e del quale il primo aveva la materiale disponibilità.

Le argomentazioni svolte nel ricorso, in definitiva, si risolvono in mere, parziali, riletture degli elementi di fatto analiticamente e globalmente posti dai Giudici di merito a fondamento delle rispettive, conformi, affermazioni di responsabilità, esulando, come è noto, dalle competenze proprie di questa Suprema Corte il riesame nel merito dei diversi profili della base probatoria versata in atti, e dovendo in questa Sede verificarsi unicamente la presenza, come si è visto ampiamente riscontrata nel caso in esame, di quei requisiti di coerenza e completezza nello sviluppo delle sequenze motivazionali, la cui progressione consenta di ritenerle rispondenti ai principii della logica ed esenti da contraddizioni nella valorizzazione dei correlativi elementi di prova.

8.1.7. Coerente e logico deve altresì ritenersi il discorso argomentativo sviluppato riguardo alla posizione di S. S., avendo la Corte d'appello riesaminato con rigore le risultanze probatorie che hanno indotto il Giudice di primo grado ad affermarne la responsabilità, laddove le censure difensive sono sostanzialmente orientate a sollecitare una rivalutazione alternativa del compendio probatorio, più che a cogliere mancanze argomentative del convincimento del Giudice di merito sulla ricostruzione dei fatti oggetto del tema d'accusa.

Dalla motivazione dell'impugnata pronuncia emerge con chiarezza come la fondatezza della contestazione sia stata radicata sulla compiuta analisi delle specifiche ed univoche risultanze probatorie offerte dalle numerose videoriprese e dagli esiti delle attività di intercettazione ambientale, oltre che dalle dichiarazioni del collaboratore Pi.An.: compendio, questo, che la Corte distrettuale ha analiticamente e globalmente valutato, traendone le logiche conclusioni in merito al pieno coinvolgimento dell'imputato nelle attività di "controllo del territorio" di diretta influenza del "clan Di Lauro", ove avvenivano, in concorso con altri coimputati ( B.A., m.a., S.G., C. P., ecc.), gli illeciti traffici delle sostanze stupefacenti meglio descritte nella relativa imputazione di cui al capo sub L1).

Al riguardo, le deduzioni volte a contrastare il significato degli elementi di prova diretta e indiretta e a dare al contenuto delle intercettazioni un significato diverso rispetto a quello attribuito dai Giudici di merito e da essi ampiamente giustificato nelle relative, conformi, pronunce, devono ritenersi manifestamente infondate e dirette, in ogni caso, a rappresentare scelte non condivisibili dagli stessi effettuate, piuttosto che gravi ed irresolubili vizi logico-argomentativi.

Alla luce delle risultanze offerte da tale univoco quadro probatorio la Corte ha quindi valutato l'obiezione difensiva riguardo alle modalità del riconoscimento vocale del ricorrente e alla utilizzabilità di un'operazione di ascolto ipotizzata come incerta anche sull'autore (v., supra, il par. 3.9.), ritenendola comunque non decisiva rispetto all'insieme delle prove emerse a carico dell'imputato (in particolare, quelle desumibili dall'osservazione filmata dei suoi comportamenti), ed altresì osservando, sulla base di un apprezzamento logicamente strutturato in punto di fatto ed esente da vizi in questa Sede rilevabili, che la ricognizione della voce dell'imputato da parte degli organi investigativi non è stata contraddetta da alcun dato certo.

Occorre altresì rilevare, e al riguardo l'argomento è dirimente, che l'opzione dall'imputato espressa per il rito in forma abbreviata rende non più utilmente deducibile la prospettata eccezione, presupponendo, la scelta di un giudizio allo stato degli atti, la loro piena conoscenza e la possibilità di esercitare su di essi un'adeguata dialettica difensiva nel corso del giudizio.

Non può non rilevarsi, infatti, che il giudizio abbreviato resta ancora - pur dopo la diversa configurazione realizzata con L. 16 dicembre 1999, n. 479 - un "giudizio allo stato degli atti", nel senso che è richiesto dall'imputato dopo aver esaminato e valutato gli atti di indagine, posti dal Pubblico ministero a fondamento della sua richiesta di rinvio a giudizio.

La possibilità di un'integrazione probatoria nel rito abbreviato, a sua volta, presuppone l'incompletezza di un'informazione probatoria in atti, e tale può anche essere un atto rispetto al quale l'imputato non è stato messo in grado di esercitare appieno il proprio diritto a contro-dedurre sui fatti in esso rappresentati:

fatti che, nell'impostazione difensiva, sarebbero stati indispensabili per una diversa e più significativa prospettiva logico-valutativa.

Ne discende, anche sotto tale ulteriore profilo, l'inammissibilità delle correlative doglianze in ricorso prospettate.

Esaustivamente indicate e conformi ai criteri direttivi posti dall'art. 133 c.p. devono ritenersi, infine, le ragioni giustificative delle modalità di determinazione del correlativo trattamento sanzionatorio, dovendosi, anche sotto tale profilo, richiamare le medesime considerazioni dianzi generalmente espresse (v., supra, il par. 8.1.) riguardo alle posizioni degli altri ricorrenti.

8.2. Analoghe considerazioni devono esprimersi riguardo alla posizione del D.M.V., la cui intraneità ai contestati sodalizi è stata dai Giudici di merito affermata sulla base del motivato apprezzamento delle convergenti e dettagliate dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che hanno riferito in merito alla sua militanza nel "clan Di Lauro" ( Mi.Gi. e P. M.) ed al successivo passaggio nelle file dei cd.

"scissionisti" ( Mi.Gi., Pr.Ma., P. A., Pi.Gi., Pr.An. e Pi.An.), oltre che alla gestione dei traffici di sostanze stupefacenti insieme al cognato N.E. ( Pa.An., P. M., Pi.An.), con il quale aveva un rapporto "fiduciario", come "guardia personale".

Siffatte dichiarazioni, inoltre, sono state riscontrate dagli esiti delle attività di intercettazione, il cui contenuto la Corte distrettuale ha puntualmente vagliato, replicando ai rilievi difensivi e ponendo in evidenza non solo il fatto che egli conosceva i soggetti riforniti ed aveva un rapporto di assoluta fungibilità sia con il N.E. che con gli altri affiliati nel mantenimento delle relazioni con i soggetti materialmente operanti nel luogo di spaccio controllato dal primo, ma anche il fatto che l'inserimento del D.M.V. nel settore degli stupefacenti, in collaborazione con il coimputato M.F. - gestore di una piazza di spaccio per conto del N.E. - è dimostrato dall'utilizzo di telefonia mobile in comune con altri sodali addetti alla stessa attività illecita. In tal senso, la Corte distrettuale ha, fra l'altro, menzionato un dato univocamente indicativo del forte legame che univa il D.M.V. agli altri compartecipi - in particolare, nell'espletare l'attività relativa al settore degli stupefacenti - ossia il fatto che il M.F. custodiva alcuni telefoni cellulari che, all'occorrenza, venivano utilizzati dal R.S. o dallo stesso D.M.V., unicamente per contattare il M.F., che lo utilizzava soltanto per le relazioni concernenti tale illecita attività.

Muovendo dal contenuto delle intercettazioni, peraltro, la Corte d'appello, nel procedere alla confutazione dei rilievi difensivi esposti in merito al reato di cui al capo sub B), ha congruamente valorizzato un ulteriore dato logico direttamente ricavato dalle circostanze di fatto che l'imputato si era allontanato dall'originario territorio in cui il "clan Di Lauro" era egemone, e che egli era, pertanto, alla ricerca di un'abitazione sicura: qualora fosse stato solo un "neofita" del gruppo degli "Amato-Pagano", difficilmente la sua recente affiliazione sarebbe stata conosciuta dai capi dell'altra organizzazione, ed altrettanto difficilmente, quindi, egli si sarebbe allontanato per il concreto timore di rappresaglie in suo danno.

8.3. Riguardo alla posizione del Ma.An., inoltre, i Giudici di merito hanno ampiamente posto in risalto i tratti costitutivi della sua partecipazione al "clan Amato-Pagano": a) facendo riferimento alle risultanze probatorie offerte dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ( D.B., Pi.

A. e Pr.An.), unitamente ai riscontri provenienti dalle attività d'intercettazione e dagli esiti dell'attività investigativa; b) replicando, quindi, alle obiezioni difensive circa la diversa valutazione delle dichiarazioni rese dal collaborante Pa.An. (motivatamente ritenute convergenti circa l'assidua frequentazione con l' Am.Ca. e del tutto compatibili con il complesso delle risultanze probatorie offerte dai contributi narrativi degli altri collaboranti e dagli esiti delle intercettazioni); c) valorizzando, infine, non solo il dato inerente ai frequentissimi contatti intercorsi con l' Am.Ca., conosciuto come il "capozona" di Mugnano, ma anche quello della varietà delle attività illecite che ne costituivano l'oggetto (come il gioco d'azzardo clandestino, la preparazione di agguati o comunque fatti di violenza, e non solo le attività di spaccio di stupefacente).

In tal senso, la Corte di merito ha fatto riferimento alla posizione subordinata del primo rispetto al secondo, del quale era persona di fiducia, ed ha sottoposto a puntuale ed articolata disamina i diversi elementi di prova inerenti ai servizi di "vigilanza" svolti nella zona di Mugnano, all'informativa richiesta dall' Am.Ca. in merito all'esito dell'agguato teso ad Sa.Eu., al coinvolgimento nell'agguato mortale in danno di De.

S. - che rivestiva una posizione sovraordinata all'interno del sottogruppo - ed alla successiva supremazia del Ma.

A., con l'avvio delle attività di riorganizzazione del suo gruppo, oltre alla consapevolezza che uno degli autori dell'efferato omicidio del minore Ma.Se. era proprio un suo congiunto (ossia, M.R.).

Esaustivamente indicate e conformi ai criteri direttivi posti dall'art. 133 c.p. devono ritenersi, infine, le ragioni giustificative delle modalità di determinazione del correlativo trattamento sanzionatorio, dovendosi, anche sotto tale profilo, richiamare le medesime considerazioni dianzi generalmente espresse (v., supra, il par. 8.1.) riguardo alle posizioni degli altri ricorrenti.

8.4. Palesi vizi di genericità investono i ricorsi di B. F., F.G. e M.A., avuto riguardo alla convergenza ed univocità del contenuto delle dichiarazioni accusatorie nei loro confronti rese dai diversi collaboratori di giustizia indicati in motivazione, ai riscontri investigativi effettuati dalla P.G. ed a quelli emergenti dal contenuto delle conversazioni oggetto delle intercettazioni ivi congruamente analizzate e valutate dalla Corte d'appello, che ha, peraltro, ampiamente giustificato, per ciascuna delle correlative posizioni, il diniego delle invocate attenuanti generiche, facendo riferimento, in particolare, ai criteri direttivi incentrati sulla capacità a delinquere desunta dai numerosi e talora gravi precedenti a carico (per F.G. e M.A.), nonchè (per tutti) sull'apprezzamento della gravità dei reati loro ascritti e dei rilevanti compiti da essi svolti in attuazione delle illecite finalità perseguite dal gruppo di appartenenza.

Anche sotto il profilo della lamentata erroneità nell'applicazione del trattamento sanzionatorio, peraltro, la decisione impugnata ha offerto un'adeguata risposta, rilevando come, in assenza di elementi oggettivi e specifici da cui poter desumere un'eventuale dissociazione, le doglianze difensive siano superate dalla indiscutibile natura permanente del delitto associativo, per cui è alla data della sentenza di primo grado che deve ritenersi cessata la relativa permanenza come avviene, quindi, per i capi sub A), C) e C1), in relazione ai quali deve trovare applicazione il trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 416 bis c.p., come novellato ex L. n. 125 del 2008, diversamente dal solo reato di cui al capo suo B), contestato sino al novembre 2004, e dunque prima delle successive modifiche, correttamente applicato dai Giudici di merito in continuazione sul più grave reato di cui al capo sub A) o su quello di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Sul punto, dunque, la Corte di merito ha fatto buon governo della regula iuris dettata in questa Sede, secondo cui la pronuncia della sentenza di primo grado segna il termine ultimo e invalicabile della protrazione della permanenza del reato, in quanto la condotta futura dell'imputato trascende necessariamente l'oggetto del giudizio (Sez. 1^, n. 17265 del 08/04/2008, dep. 24/04/2008, Rv. 239628).

Sotto altro, ma connesso profilo, va inoltre osservato che la cessazione della permanenza non può di certo coincidere con la data di arresto o con l'inizio di detenzione a qualsiasi titolo sofferta dall'imputato, ove si consideri che, in tema di associazione per delinquere, il sopravvenuto stato detentivo di un soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della partecipazione al sodalizio, atteso che la perdurante appartenenza al gruppo di una persona della quale sia provata l'affiliazione può essere correttamente ritenuta in qualunque momento, qualora, come già rilevato sopra, manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione (da ultimo, v. Sez. 2^, n. 17100 del 22/03/2011, dep. 03/05/2011, Rv. 250021).

8.5. Manifestamente infondati devono ritenersi i rilievi espressi nel ricorso del G.G., ove si considerino le implicazioni riconnesse all'opzione processuale esercitata riguardo alla scelta del rito abbreviato, con la correlativa piena utilizzabilità delle dichiarazioni di natura confessoria dall'imputato spontaneamente rese allorquando, detenuto presso il Carcere di Catanzaro - Nuovo Complesso di Siano, affermava a verbale, dinanzi a quella Polizia Penitenziaria, di essere transitato dal "clan Di Lauro" al "clan degli scissionisti" capeggiato da A.R. e da P. C., professando la sua incondizionata fedeltà a tale sodalizio criminale, sì da richiedere il trasferimento ad altro istituto penitenziario, ovvero in un diverso padiglione, avendo timore per la propria incolumità, poichè nel luogo ove era detenuto si trovavano ristrette anche persone affiliate all'avversa organizzazione dei Di Lauro.

Nell'ordinamento processuale penale, che non conosce le prove legali e si affida al libero convincimento del giudice, la confessione costituisce un elemento probatorio da valutare senza alcun limite predeterminato e solo dando conto, nella obbligatoria motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati; i limiti alla formazione del libero convincimento che dell'art. 192 c.p.p., pongono i commi 2 e 3 sono eccezionali e non suscettibili di applicazione analogica, perchè mentre è stabilito per legge che gli elementi di prova ricavabili da chiamate in correità non siano autosufficienti e necessitino quindi di verifiche estrinseche, la confessione ben può costituire prova sufficiente di responsabilità del confidente, indipendentemente dall'esistenza di riscontri esterni, purchè il giudice, nel suo potere di apprezzamento del materiale probatorio, prenda in esame le circostanze obiettive e subiettive che hanno determinato ed accompagnato la confessione e dia ragione, con logica motivazione, del proprio convincimento circa l'affidabilità della stessa (Sez. 1^, n. 7321 del 27/04/1995, dep. 27/06/1995, Rv. 201740;

Sez. 4^, n. 20591 del 05/03/2008, dep. 22/05/2008, Rv. 240213; Sez. 2^, n. 10250 del 31/01/2013, dep. 05/03/2013, Rv. 255537).

Tanto deve ritenersi avvenuto nel caso in esame, avendo la Corte d'appello espressamente confutato la tesi difensiva, per un verso escludendo che la decisione di rendere tale pubblica dichiarazione risultasse esclusivamente funzionale ad operare una salvaguardia di sè stesso, all'interno del carcere ove in quel momento era ristretto, e dei propri familiari all'esterno, e, per altro verso, specificamente argomentando nel senso che le dichiarazioni rese dal G.G. hanno comunque trovato riscontro nelle affermazioni del collaboratore D.B., in quanto riferite ad un periodo immediatamente antecedente all'arresto del predetto, a conferma del fatto che egli, quando fece il suo ingresso nell'Istituto penitenziario, era già transitato nella diversa compagine degli Amato-Pagano.

Peraltro, quand'anche si volesse accedere all'impostazione ricostruttiva seguita nel ricorso (v., supra, il par. 3.18), la lamentata inosservanza delle norme di cui agli artt. 63 c.p.p. e ss.

non sortirebbe comunque i prospettati effetti processuali, trascurandosi di considerare, in relazione a tale specifico profilo, le implicazioni della linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, secondo cui nel giudizio abbreviato sono utilizzabili le dichiarazioni rese spontaneamente alla polizia giudiziaria da soggetto che non ha ancora formalmente assunto la qualità di indagato (Sez. 5^, n. 18519 del 20/02/2013, dep. 24/04/2013, Rv.

256236; v., inoltre, Sez. Un., n. 1150 del 25/09/2008, dep. 13/01/2009, Rv. 241884).

8.6. Manifestamente infondate devono altresì ritenersi le doglianze formulate nel ricorso del C.G., avendo l'impugnata sentenza dato ampiamente conto, assieme ai correlativi riscontri offerti dalle attività investigative, del contenuto, univocamente convergente, delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia ( Pa.An., Pi.Gi., Pi.An.) sul fatto che egli, factotum e persona di fiducia a disposizione dei capi c.d.

"scissionisti" ( A. e P.C.), veniva per lo più impiegato per svolgere svariati compiti esecutivi, con particolare riferimento all'onere di fornire assistenza e vettovaglie in occasione degli incontri degli affiliati presso alcune abitazioni ove costoro si appoggiavano quando si trovavano in territorio campano, specie ai tempi della "faida".

Al riguardo, dunque, deve ritenersi che la Corte di merito abbia fatto buon governo del consolidato quadro di principii stabiliti in questa Sede, secondo cui il delitto previsto dall'art. 418 c.p. ricorre quando, al di fuori delle ipotesi di concorso nel reato associativo o di favoreggiamento, si da rifugio o si fornisce vitto a taluna delle persone che partecipano all'associazione per delinquere;

il contributo dell'agente, in tal modo, non viene prestato a vantaggio dell'organizzazione nel suo complesso (perchè in tal caso concreterebbe gli estremi di una condotta di partecipazione all'associazione), ma è rivolto nei confronti di un singolo associato, ovvero di soggetti diversi della stessa organizzazione, la quale, d'altro canto, deve risultare attualmente operante, presupponendo, la fattispecie in esame, la coincidenza temporale dell'attività di assistenza con la operatività dell'associazione criminale (Sez. 6^, n. 9879 del 01/10/1997, dep. 04/11/1997, Rv.

211116), perchè una volta consumato il reato associativo la medesima condotta configura il diverso delitto di favoreggiamento (Sez. 6^, n. 1644 del 29/11/1995, dep. 10/02/1995, Rv. 203734).

La fattispecie delittuosa di cui all'art. 418 c.p., infatti, presuppone (come reso palese dalla locuzione "fuori dei casi di concorso nel reato") una condotta favoreggiatrice, specialmente qualificata come "assistenza agli associati", posta in essere, come nel caso in esame, da persona estranea al sodalizio mafioso, restando, invece, essa assorbita dalla diversa fattispecie dell'art. 416 bis c.p., quando tale assistenza sia prestata da un aderente alla consorteria nell'ambito delle finalità di solidarietà dovute ai partecipi, secondo il "pactum sceleris" (Sez. 6^, n. 15668 del 01/12/2011, dep. 23/04/2012, Rv. 252548).

V'è ancora da considerare che l'aggravante del metodo mafioso (D.L. n. 152 del 1991, art. 7 conv. nella L. n. 203 del 1991) - consistente nell'aver commesso il fatto al fine di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso - è una circostanza relativa ai singoli reati, diversi da quello associativo, ed è stata dalla Corte di merito correttamente ritenuta compatibile con il reato di cui all'art. 418 c.p., che presuppone, come si è già rilevato, la coincidenza temporale dell'attività di assistenza prestata dal soggetto attivo con l'operatività dell'associazione criminale (Sez. 2^, n. 30942 del 24/05/2012, dep. 30/07/2012, Rv. 253523).

Infine, integralmente richiamato quanto già esposto, supra, nel par.

8.1., devono ritenersi del tutto congruamente motivate le statuizioni relative alla determinazione del trattamento sanzionatorio, avendo la Corte partenopea chiaramente esplicitato, anche in ragione della reiterazione degli episodi di assistenza, le ragioni del diniego delle invocate attenuanti generiche, mentre del tutto errato deve ritenersi il riferimento all'aumento ex art. 81 c.p., essendo stato il ricorrente condannato per il solo reato di cui all'art. 418 c.p., così qualificata l'originaria imputazione sub A), ed assolto dai delitti di cui capi sub S), S1) ed S2).

8.7. Aspecifiche devono ritenersi le doglianze espresse nel ricorso del D.L., a fronte del puntuale iter argomentativo seguito nell'impugnata pronuncia, che ha posto in rilievo il chiaro ed univoco contenuto delle dichiarazioni rese dai collaboratori ( V.S., D.B. e Mi.Gi.) circa la sua affiliazione al sodalizio degli "scissionisti", con un ruolo prevalente nel settore delle armi.

Tali dichiarazioni sono state peraltro confermate dal tenore delle conversazioni oggetto delle disposte intercettazioni, per via telefonica ed ambientale, alcune delle quali effettuate anche in carcere, ove egli sollecitava ordini dai suoi superiori, avendo a disposizione un telefono cellulare, del quale dovette successivamente disfarsi a seguito di una decisione impostagli dal direttorio "scissionista".

La Corte d'appello ha inoltre posto in evidenza come, nonostante il periodo di detenzione, la condizione di affiliato al sodalizio criminale non abbia subito interruzioni, mantenendo il D.L. i contatti con l'organizzazione, informando altri sodali e sollecitando ordini dai superiori mediante l'uso del telefono cellulare, con la conseguente verifica della permanenza della sua condotta delittuosa, la cui stabilità, nel perdurare del vincolo associativo, non ha subito alcun affievolimento per effetto dello stato di detenzione, in ciò dovendosi ritenere implicitamente valutato e disatteso anche il profilo di doglianza su illustrato, in narrativa, nel par. 3.32, lett. C).

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, infine, risultano, in motivazione, le ragioni giustificative della esclusione delle invocate attenuanti generiche.

8.8. Adeguatamente affrontate e disattese, nell'iter argomentativo sviluppato dall'impugnata pronunzia, devono ritenersi, poi, le doglianze prospettate nel ricorso del M.M., che ripropongono questioni di merito involgenti alcuni profili ricostruttivi della vicenda storico-fattuale oggetto della regiudicanda, sui quali la Corte distrettuale si è ampiamente soffermata, allorquando ha posto in evidenza il fatto - già emergente, peraltro, dalla contestazione formulata nel capo d'accusa sub A) - che l'attività inerente al traffico di stupefacenti, cui si ricollega la provenienza illecita delle somme, risulta commessa dall' A.R. sin da epoca molto precedente la definitiva costituzione del gruppo criminale degli Amato-Pagano, con il logico corollario che quella attività non può configurarsi in stretta ed esclusiva relazione con l'associazione dal medesimo capeggiata.

Un'impostazione, quella seguita dalla Corte di merito, del tutto conforme al pacifico insegnamento giurisprudenziale dettato da questa Suprema Corte, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio, non si richiede l'accertamento giudiziale del delitto presupposto, nè dei suoi autori, nè dell'esatta tipologia di esso, essendo sufficiente che sia raggiunta la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute, anche se il delitto presupposto sia delineato per sommi capi quanto alle esatte modalità di commissione (Sez. 5^, n. 36940 del 21/05/2008, dep. 26/09/2008, Rv. 241581; Sez. 2^, n. 546 del 07/01/2011, dep. 11/01/2011, Rv. 249444).

Al riguardo, peraltro, la Corte d'appello ha chiaramente posto in risalto i correlativi elementi di prova, ricavati non solo dall'accertato traffico internazionale di stupefacenti, ma anche dalla vicinanza personale del M.M. con il defunto A.P., oltre che dall'assenza all'epoca di una attività produttrice di reddito lecito da parte dello stesso M. M. e/o dei suoi correi.

Inammissibile, per difetto di specificità, deve poi ritenersi il secondo profilo di doglianza (v., supra, il par. 3.31, lett. B), prospettato con argomenti enunciati in forma solo perplessa (da ultimo, Sez. 2^, n. 31811 del 08/05/2012, dep. 06/08/2012, Rv.

254329), laddove costituisce un ben preciso onere del ricorrente specificare se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità, ovvero a più di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame.

Sul punto or ora indicato, peraltro, la Corte di merito ha ampiamente illustrato le ragioni giustificative dell'epilogo decisorio cui è pervenuta, spiegando, tra l'altro, che nel mese di maggio e giugno 2003, M.M., O.V. e O.A., sfruttando le referenze di Da.Vi. presso la filiale di Benevento della Banca di Sviluppo, nonchè la "disponibilità" del direttore Ta.Ra., hanno acceso 20 libretti di risparmio al portatore mediante il versamento della somma di Euro 200.000,00, in contanti, di cui non venne dichiarata la provenienza. Le somme versate su quei libretti - senza dichiararne la provenienza e senza che i predetti investitori vantassero redditi tali da giustificare l'impiego di siffatte disponibilità economiche - furono successivamente ritirate, quasi per intero, dall' O.A. - e delle stesse, per una parte (pari all'importo di Euro 114.499,62), se ne è persa traccia - mentre successivamente, nel dicembre 2003, l'altro coimputato, O.V., provvide, sempre presso la stessa filiale, ad accendere un conto corrente ove fu versata in contanti un'altra somma di denaro, per il complessivo importo di Euro 215.000,00.

Anche sotto altro, ma connesso profilo, del resto, la Corte di merito ha fatto buon governo del quadro di principii che regolano la materia in esame, ove si ponga mente alla consolidata linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, secondo cui l'elemento soggettivo del delitto di riciclaggio è integrato dal dolo generico, che ricomprende la volontà di compiere attività volte ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa di beni o di altre utilità, nella consapevolezza di tale origine, e non richiede alcun riferimento a scopi di profitto o di lucro (da ultimo, Sez. 2^, n. 546 del 07/01/2011, dep. 11/01/2011, Rv. 249445).

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, infine, risultano, in motivazione, le ragioni giustificative del correlativo trattamento sanzionatorio e della esclusione delle invocate attenuanti generiche. Anche in relazione a tale posizione processuale, peraltro, devono intendersi qui integralmente richiamate le considerazioni in linea generale espresse, supra, nel par. 8.1..

8.9. La Corte d'appello, pertanto, ha compiutamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per la configurazione delle contestate ipotesi delittuose, ed ha evidenziato al riguardo gli aspetti maggiormente significativi, dai quali ha tratto la conclusione che gli argomenti prospettati dalla difesa erano in realtà privi di ogni aggancio probatorio e si ponevano solo quali mere ipotesi alternative, peraltro smentite dal complesso degli elementi di prova processualmente acquisiti.

La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata riposa, in definitiva, su un quadro probatorio giudicato completo ed univoco, e come tale in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.

In questa Sede, invero, a fronte di una corretta ricostruzione del compendio storico-fattuale, non può ritenersi ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti oggetto della regiudicanda, dovendo la Corte di legittimità limitarsi a ripercorrere Viter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza alcuna possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle correlative acquisizioni processuali.

8.10. Conclusivamente, alla declaratoria di inammissibilità dei predetti ricorsi consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che, in relazione alle questioni dedotte, si stima equo determinare nella misura di Euro mille.

9. I ricorsi proposti da A.R., C.L., C.P., D.D.G., D.P.T., E.P., L.D.B.A., M.R., M.T., M.F., P.E., P. R., P.V. e P.G. sono infondati e vanno pertanto rigettati per le considerazioni di seguito partitamente esposte e precisate.

9.1. Infondati devono ritenersi i motivi di doglianza prospettati nei ricorsi proposti da A.R. e P.V., i cui contenuti sono sostanzialmente orientati a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte in sede di appello - e finanche dinanzi al Giudice di prime cure - che tuttavia risultano ampiamente vagliate e correttamente disattese dai Giudici del merito, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione.

In relazione agli aspetti in narrativa evidenziati, dunque, il ricorso non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dalla Corte partenopea, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico- fattuale posto a fondamento dei correlativi temi d'accusa.

In tal senso deve rilevarsi come la pronuncia impugnata, sulla base di quanto specificamente esposto e richiamato nell'evoluzione del suo percorso argomentativo, abbia proceduto ad un vaglio critico di tutte le deduzioni ed obiezioni mosse dalla difesa, pervenendo alla decisione impugnata attraverso una disamina completa ed approfondita delle risultanze processuali.

Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di prime cure, la cui struttura motivazionale viene sul punto a saldarsi perfettamente con quella di secondo grado, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, la Corte di merito ha puntualmente disatteso la diversa ricostruzione prospettata dalla difesa, per un verso ponendone in rilievo, alla luce delle articolate sequenze motivazionali della pronuncia di primo grado, l'infondatezza degli argomenti a fronte della specifica ricostruzione del ruolo e del contributo causalmente rilevante dai predetti imputati prestato nelle vicende afferenti alle attività dei contestati sodalizi criminali, e, per altro verso, dando ampiamente conto dei criteri utilizzati nell'apprezzamento delle correlative emergenze probatorie, con particolare riferimento alla valutazione di credibilità intrinseca ed al peso di volta in volta assegnato al contenuto delle dichiarazioni rese dai numerosi collaboratori di giustizia, ritenute ampiamente convergenti sull'oggetto della prova -ossia sulle ragioni della scissione dal clan "Di Lauro", sulla esistenza delle corrispondenti associazioni e sui contenuti e modalità delle relative partecipazioni - e dotate di un particolare livello di attendibilità, in quanto provenienti da soggetti intranei ai predetti sodalizi criminali, ovvero da persone appartenenti ad altre analoghe associazioni, ma comunque connotate da una posizione di tipo apicale, e dunque pienamente in grado di conoscere le dinamiche interne al gruppo "Amato-Pagano".

Al riguardo sono stati inoltre indicati gli elementi di riscontro, anche di tipo individualizzante, desunti dagli esiti delle operazioni di intercettazione e delle attività di monitoraggio e controllo svolte dalla P.G., con particolare riferimento alle vicende inerenti a due viaggi in Spagna effettuati da alcuni affiliati "scissionisti", al fine di ricevere direttive dal loro capo, A.R. - che, ivi rifugiatosi, venne tratto in arresto il 27.2.05 - sì come avevano dichiarato i collaboranti e come era emerso dalle precedenti operazioni di intercettazione.

In relazione ai su indicati profili della regiudicanda, invero, si sollecita un inammissibile ribaltamento, ad opera della Corte di legittimità, di conclusioni coerentemente raggiunte in punto di fatto ed ampiamente illustrate, in termini logici e lineari, dalle conformi motivazioni delle pronunzie di merito, che hanno sottoposto ad un attento vaglio delibativo, sia analitico che globale, i contenuti narrativi delle diverse collaborazioni, escludendone significative divergenze su aspetti di rilievo e puntualmente replicando ai rilievi mossi dalla difesa.

Le censure difensive da entrambi i ricorrenti mosse riguardo alle ipotizzate carenze motivazionali in merito alla prova che gli imputati abbiano assunto il controllo di attività economiche finanziando le stesse, in tutto o in parte, con il prodotto o il profitto dei delitti, omettono di confrontarsi criticamente con i numerosi passaggi motivazionali ove si fa riferimento al fatto che l'Amato si avvaleva di idonee strutture logistiche in territorio spagnolo per gestire la fornitura in Italia di armi e partite di stupefacenti che servivano, oltre alle attività estorsive, a raccogliere forme di finanziamento del sodalizio in oggetto, nonchè, e soprattutto, con le numerose parti della motivazione espressamente dedicate alla disamina delle connesse posizioni di molti coimputati, la cui specifica e dettagliata valutazione ha motivatamente indotto la Corte di merito a ritenere provata la formazione di una struttura dedita in via permanente ad operazioni di illecito reinvestimento di ingenti patrimoni illeciti (traffico internazionale ed al dettaglio di sostanze stupefacenti ed estorsioni), ed in tal senso indirizzata proprio ad effettuare una serie di attività collegate alla riemersione nel circuito economico legale delle enormi disponibilità finanziarie di origine illecita: struttura operativa, questa, nella quale sono stati ritenuti coinvolti non solo i vertici dell'organizzazione Amato-Pagano, ma anche alcuni affiliati di assoluta affidabilità e persone ritenute insospettabili, ossia non solo incensurate ma pienamente inserite nel contesto economico legale.

Nella citata struttura, in particolare, la Corte di merito ha ritenuto inserite alcune persone ( A.R., A.E., P.C., P.E., P.R., A. C., O.M., Ba.Sa.Pezzella Gaetano ,.

Or.An., O.V. ed altri), cui si sono aggiunti di volta in volta singoli personaggi che, in ragione delle loro specifiche competenze o della loro disponibilità ad essere coinvolti per non far figurare direttamente i vertici del "clan" quali titolari di investimenti, sono intervenuti per coadiuvare le singole operazioni di riciclaggio e reinvestimento.

Per quel che attiene, segnatamente, alla posizione dell'Amato, deve inoltre rilevarsi come l'impugnata pronunzia abbia dato conto, con congruo ed esaustivo impegno critico -argomentativo, delle ragioni per cui ha ritenuto di ravvisare la qualifica di capo e promotore da lui rivestita in entrambe le associazioni criminali, ponendo in risalto le concordi indicazioni in tal senso rese da tutti i collaboranti, i quali hanno riferito che fu proprio l' A. R. ad avviare l'inizio della scissione dal gruppo dei Di Lauro con la formazione di un sodalizio criminale autonomo. Siffatte emergenze probatorie, peraltro, sono state ritenute oggettivamente supportate non solo dal tenore delle conversazioni oggetto di intercettazione, ove gli stessi affiliati in tal senso si esprimono, ma anche dai comportamenti dagli stessi tenuti nei suoi confronti (che l'impugnata pronuncia, sulla base delle prospettate risultanze, icasticamente esemplifica nell'organizzazione dei viaggi in Spagna, effettuati al fine di ricevere direttive ed agevolare la gestione dell'intera associazione da parte dell' A.R., che da lì provvedeva alle forniture di armi e stupefacenti, ovvero nelle espressioni di ammirazione, rispetto e subordinazione registrate nelle conversazioni ove di lui si discorreva).

Anche l'ulteriore doglianza prospettata con riferimento al tenore della contestazione relativa al delitto associativo di cui al capo sub A) - v., supra, il par. 3.23, lett. B)-b2) - è stata dalla Corte d'appello motivatamente disattesa, con valutazioni in punto di fatto logicamente espresse ed immuni da censure in questa Sede accoglibili, ponendo correttamente in rilievo, sulla stregua del complesso degli elementi istruttori già in tal senso vagliati dal Giudice di prime cure, l'esigenza di una lettura complessiva dell'ambito e del contenuto effettivo del tema d'accusa, non limitata solo all'apprezzamento dell'espressione finale relativa all'epoca del commesso reato, ma tenendo conto dell'oggettiva ampiezza della contestazione, la cui formulazione letterale risulta essere decisamente più ampia, e tale da coinvolgere un arco temporale sia precedente che successivo alla data del 27 febbraio 2006, laddove si fa riferimento, in particolare, alla contrapposizione in armi fra i due "clan", per il controllo delle ivi indicate aree territoriali, a far data dall'ottobre del 2004.

In tal senso giova altresì ribadire, sulla base di una pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, che non sussiste alcuna violazione del principio di correlazione della sentenza all'accusa quando nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, in quanto l'immutazione si verifica solo nell'ipotesi, nel caso di specie evidentemente non ravvisabile per quanto or ora precisato, in cui ricorra una situazione di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto, così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d'effettiva difesa (cfr. Sez. 6^, n. 35120 del 13/06/2003, dep. 04/09/2003, Rv. 226654).

Coerente con l'insegnamento giurisprudenziale in questa Sede dettato deve dunque ritenersi la soluzione cui è al riguardo pervenuta la Corte di merito, vieppiù ove si consideri che, ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all'art. 521 c.p.p., deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicchè questi, come avvenuto nel caso in esame con la manifestata opzione per il rito abbreviato, abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez. 6^, n. 5890 del 22/01/2013, dep. 06/02/2013, Rv. 254419).

Infondati, infine, devono ritenersi, per le medesime ragioni dianzi esposte in sede di trattazione dell'analoga, in parte de qua, posizione processuale di C.R. (v., supra, il par. 8.1.2.), i motivi di doglianza dai ricorrenti articolati riguardo all'ordinanza emessa dalla Corte d'appello all'udienza del 16 novembre 2011 v., supra, il par. 3.23, lett. E).

9.2. Parimenti infondati, inoltre, devono ritenersi i motivi di doglianza articolati nei ricorsi proposti da P.E. e P.R..

Non meritevole di accoglimento, preliminarmente, deve ritenersi l'eccezione di inammissibilità dell'appello proposto dal P.M. v., supra, il par. 3.23, lett. A) - al), avendo la Corte di merito legittimamente tenuto conto dell'intero contesto logico-semantico entro cui si è sviluppata la formulazione dell'atto di gravame, respingendone, con congrua motivazione, un'interpretazione meramente letterale e formalistica, ed osservando, in tal senso, che dal contenuto dei motivi -specificamente esposti, sia pure con sintetiche argomentazioni - ben può trarsi la chiara indicazione che l'appellante si doleva, per entrambe le imputate, dell'esito decisorio cristallizzato nella diversa qualificazione giuridica del meno grave delitto di ricettazione, sostenendo, pertanto, la originaria contestazione relativa al delitto di riciclaggio.

La Corte d'appello, in tal guisa, ha fatto corretta applicazione del quadro di principii al riguardo enunciati dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui l'atto di impugnazione deve contenere a pena di inammissibilità anche le richieste, ai sensi dell'art. 581 c.p.p., lett. b), ma queste possono desumersi implicitamente dai motivi, quando dalla loro analisi emerga in modo inequivoco la richiesta formulata, dovendo l'atto di impugnazione essere valutato nel suo complesso, in applicazione del principio generale del "favor impugnationis" (Sez. 6^, n. 29235 del 18/05/2010, dep. 26/07/2010, Rv. 248205; Sez. 4^, n. 41184 del 12/07/2012, dep. 22/10/2012, Rv. 253948; Sez. 5^, 23 settembre 2009, n. 42411; Sez. 5^, 6 maggio 2003, n. 23412).

Infondate devono ritenersi, poi, le ulteriori censure dalle ricorrenti prospettate, dovendosi ribadire come resti del tutto preclusa, in questa Sede, la rilettura, ovvero la rivisitazione, degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, come anche l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione del compendio storico-fattuale, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Suprema Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione, assegnatale dal legislatore, di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e, al contempo, di capacità rappresentativa ed esplicativa del percorso logico-giuridico seguito dal giudice al fine di pervenire alla sua decisione.

All'interno di tale ineludibile prospettiva, dunque, non può non rilevarsi come la motivazione della sentenza d'appello, dialogando con le diverse valutazioni al riguardo espresse dal Giudice di prime cure e puntualmente replicando ai rilievi difensivi, si sottragga alle censure che le sono state rivolte ed indichi in modo dettagliato, attraverso la scansione di sequenze argomentative linearmente illustrate ed esenti da palesi incongruenze o da interne contraddizioni, le numerose risultanze probatorie sulla cui base sono stati configurati a carico delle ricorrenti gli elementi costitutivi della contestata fattispecie incriminatrice di cui all'art. 648 bis c.p..

Con specifico riguardo alla vicenda storico-fattuale delineata nel capo sub E), la Corte distrettuale ha evidenziato, in particolare: a) che l'U.I.C. segnalò un'operazione bancaria sospetta, avvenuta nel giugno 2003 e direttamente riferibile alle sorelle P.E. e P.R., rispettivamente, moglie di A.R. e vedova di A.P.; b) che attraverso questa operazione veniva intestata fiduciariamente la somma di Euro 2.000.000,00 alla società "San Paolo-Fiduciaria Spa" di Torino; c) che l'investimento si perfezionava presso la filiale di Nola dell'Istituto di credito San Paolo - Banco di Napoli; che le gestioni fiduciarie furono costituite con versamento di denaro contante, in due tranches da circa 1.000.000,00 di Euro ciascuna, rispettivamente a nome di P. E. e di P.R.; d) che l'intermediario segnalante chiariva che tale operazione era stata curata da BA. S., cognato dei fratelli A. e titolare della "EUROSALUMI Srl", il quale, in occasione della costituzione delle gestioni finanziarie, dichiarava il falso indicando la P.E. come sua moglie e la P.R. come sua cognata, evidentemente per occultare la parentela delle stesse con i familiari pregiudicati, in tal modo aggirando la normativa antiriciclaggio, atteso l'enorme valore del contante investito; e) che le sorelle P. smobilitarono entrambe le gestioni fiduciarie nel corso della "faida", ritirando la soma di 2 milioni di Euro il 15 dicembre 2004;

f) che l'operazione si perfezionò attraverso l'emissione, all'ordine delle due donne, di assegni circolari che venivano cambiati sempre presso la filiale di Nola del San Paolo - Banco di Napoli, con il ritiro del denaro contante in banconote da 500,00 Euro; g) che si perdeva ogni traccia del denaro; h) che le due donne durante la "faida" risiedevano in Spagna e che, tra l'altro, le movimentazioni finanziarie sopra indicate si collocavano cronologicamente nel lasso temporale in cui era iniziata la latitanza in Spagna di A. R..

Al riguardo, inoltre, la Corte d'appello ha posto in evidenza che in entrambi i casi la provenienza degli ingenti capitali non venne denunziata e che la titolarità delle su indicate disponibilità finanziarie non trovava alcuna giustificazione, diretta o indiretta, nei redditi dichiarati, ai fini delle imposte dirette, non solo dalle predette imputate, ma anche dall' A.P., poi deceduto, e dall' A.R..

E' un quadro storico-fattuale, quello delineato dalla Corte d'appello, che risulta, anche in ragione delle sue connotazioni temporali e soggettive, del tutto coerente rispetto alla sussumibilità delle note modali della realizzata operazione finanziaria nella fattispecie di cui all'art. 648 bis c.p., ove si considerino le acquisizioni della consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi deposita in banca danaro di provenienza illecita, atteso che, stante la natura fungibile del bene, in tal modo lo stesso viene automaticamente sostituito con danaro "pulito" (Sez. 6^, n. 28715 del 15/02/2013, dep. 04/07/2013, Rv. 257205; Sez. 6^, n. 43534 del 24/04/2012, Lubiana, Rv. 253795), senza necessità che le operazioni compiute siano volte ad impedire in modo definitivo l'accertamento della provenienza del denaro, essendo sufficiente a integrare il reato anche operazioni volte a rendere difficile tale accertamento (Sez. 2^, n. 1422 del 14/12/2012, dep. 2013, Atzori, Rv.

254050; Sez. 2^, n. 3397 del 16/11/2012, dep. 2013, Anemome, Rv.

254314).

Peraltro, è stato reiteratamente precisato, in questa Sede, che il delitto di riciclaggio si distingue da quello di ricettazione innanzitutto per quanto concerne l'elemento materiale, che si caratterizza nel riciclaggio per l'idoneità della condotta ad ostacolare l'identificazione della provenienza del bene, ed in secondo luogo per l'elemento soggettivo, che consiste nel primo nel dolo generico, mentre nella ricettazione si fa riferimento al dolo specifico dello scopo di lucro (Sez. 2^, n. 35828 del 09/05/2012, Acciaio, Rv. 253890).

Orbene, dalle condotte complessivamente ricostruite dai Giudici del merito, emergono sia la generica finalità di profitto (che non manca in alcuno dei delitti contro il patrimonio mediante frode), sia lo scopo ulteriore di far perdere le tracce dell'origine illecita del denaro (Sez. 2^, n. 37718 del 12/07/2012,dep. 2012, Castaido, Rv.

253448), ove si ponga mente ai chiari passaggi motivazionali dell'impugnata decisione, da cui risulta che attraverso quell'operazione non solo venne fiduciariamente intestata la somma di 2.000.000,00 di Euro alla società "San Paolo-Fiduciaria Spa" di Torino dalle imputate, recatesi in banca e presentate, con grado e genere di affinità diversi dal vero, dal loro affine Ba.

S., ma anche che furono esse stesse a smobilitare le gestioni fiduciarie, con il ritiro della somma di 2 milioni di Euro il 15.12.2004, attraverso l'emissione, all'ordine delle stesse, di assegni circolari poi cambiati, sempre presso la stessa filiale, con denaro contante in banconote da 500,00 Euro.

Analoghe considerazioni devono svolgersi per quel che attiene all'ulteriore episodio delittuoso descritto nel capo sub F) - contestato a P.E. in concorso con O.M., O.A., O.V., A.C. e P. G. - avendo la Corte d'appello dettagliatamente ricostruito, sulla base della documentazione acquisita nelle indagini e delle ulteriori, inequivoche, emergenze probatorie offerte dalle videoriprese, dalle intercettazioni e dalle altre attività svolte dalla P.G., i diversi passaggi della complessa operazione finanziaria relativa al trasferimento della somma di denaro contante pari ad Euro 3.318.000,00 su due posizioni fiduciarie accese presso la Banca Monegasca di Gestione di Montecarlo per il successivo investimento in prodotti finanziari ad alto rendimento, in modo da ostacolare l'identificazione della sua provenienza delittuosa, tanto che parte della somma venne successivamente fatta transitare su altra posizione bancaria accesa presso lo stesso istituto di credito estero, e quindi trasferita in favore di società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche, formalmente riferibili al P.G., ma di fatto ai coniugi A., per essere poi impiegata nella realizzazione di investimenti sul mercato immobiliare iberico.

Anche in relazione a tali profili della regiudicanda la Corte d'appello ha puntualmente esaminato le deduzioni difensive, e le ha motivatamente disattese, per un verso, ponendo in risalto i vari segmenti dell'azione delittuosa - svoltasi in Italia ad es., l'incontro dei fratelli O., O.M. ed O. A., con La.Pa., promotore finanziario della Banca Monegasca di Gestione, avvenuto il 29 settembre 2006 nei pressi del Jolly Hotel di via Medina a Napoli, videofilmato dalla P.G. e finalizzato all'acquisizione di una documentazione anche di comodo che giustificasse la provenienza delle somme versate presso quell'Istituto di credito ed all'estero - e, per altro verso, evidenziando come la materiale disponibilità del denaro sia stata conseguita in Italia, per essere il denaro stesso provento delle attività di vendita di stupefacenti concluse nel territorio italiano, provenienti a loro volta dal traffico internazionale gestito dall' A.R., il quale provvedeva alla fornitura di droga, in particolare, nell'area napoletana, dove operavano gli addetti allo spaccio, sì come evidenziato dal complesso delle risultanze probatorie vagliate dalla Corte distrettuale, ed oggettivamente riscontrato, come si è già avuto modo di rilevare, dall'inusuale deposito, in contanti, della ingente somma di due milioni di Euro, in appena due versamenti pari all'importo di un milione cadauno.

Pienamente coerente con tale prospettazione del quadro storico- fattuale, sì come ampiamente sostenuto e riscontrato dalla correlativa base probatoria in tal senso vagliata dalla Corte d'appello, deve ritenersi il rigetto dell'eccezione difensiva sollevata in ordine all'ipotizzato difetto di giurisdizione, avuto riguardo alle implicazioni della consolidata linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, secondo cui, ai fini dell'affermazione della giurisdizione italiana in relazione a reati commessi in parte all'estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, il cui oggettivo rilievo, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero (ex multis, v. Sez. 6^, n. 16115 del 24/04/2012, dep. 27/04/2012, Rv. 252507).

Sempre in relazione alla stessa vicenda, inoltre, la Corte d'appello ha non solo spiegato, in diversi passaggi della motivazione, che l'imputata ha inizialmente provveduto alla costituzione dei fondi fiduciari, ponendo in essere successivamente una serie di operazioni parimenti finalizzate all'occultamento della provenienza del denaro, ma ha altresì osservato come il deposito dei fondi sia durato dal 2003 al 2006, fino al blocco dei relativi conti bancari disposto dalle Autorità monegasche a seguito della richiesta di assistenza giudiziaria formulata dalle Autorità italiane, con il logico corollario che le diverse attività ed operazioni poste in essere dall'imputata successivamente all'avvio dei relativi rapporti bancari non costituivano certo un post factum non punibile, come erroneamente ritenuto dal Giudice di prime cure, ma integravano appieno la contestata fattispecie incriminatrice di cui all'art. 648 bis c.p..

Un epilogo decisorio, quello raggiunto dalla Corte di merito, che ha fatto buono governo dei principii maturati nell'alveo di quell'insegnamento giurisprudenziale, da ribadire anche in questa Sede, secondo cui integra di per sè un autonomo atto di riciclaggio - poichè il delitto di riciclaggio è a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive - qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, ed anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un differente istituto di credito (Sez. 2^, n. 546 del 07/01/2011, dep. 11/01/2011, Rv. 249446; Sez. 2^, n. 34511 del 29/04/2009, dep. 07/09/2009, Rv. 246561).

A tale riguardo, peraltro, giova rilevare come, ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio, non si richieda affatto l'accertamento giudiziale del delitto presupposto, nè dei suoi autori, nè dell'esatta tipologia di esso, sufficiente essendo che sia raggiunta, sì come congruamente argomentato dalla Corte di merito, la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute (Sez. 2^, n. 546 del 07/01/2011, dep. 11/01/2011, Rv. 249444; Sez. 5^, a n. 36940 del 21/05/2008, dep. 26/09/2008, Rv. 241581).

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, infine, risultano, in motivazione, le ragioni giustificative del correlativo trattamento sanzionatorio e della esclusione delle invocate attenuanti generiche. Anche in relazione a tali posizioni processuali, dunque, devono intendersi qui integralmente richiamate le considerazioni in linea generale espresse, supra, nel par. 8.1..

9.3. Infondate, sin quasi a lambire i margini dell'inammissibilità, devono ritenersi le doglianze prospettate nel ricorso di M. T., in quanto dirette, per un verso, alla rivisitazione di circostanze di fatto già compiutamente esaminate in sede di merito, e, per altro verso, alla riproposizione di argomenti adeguatamente presi in esame e disattesi nella impugnata sentenza.

La Corte d'appello ha svolto un'accurata analisi degli elementi costitutivi della base probatoria in atti versata ed ha quindi provveduto, alla stregua del materiale offerto dalle numerose conversazioni oggetto di captazione telefonica, ad elaborare la ricostruzione del contesto storico-fattuale oggetto del tema d'accusa relativo al sodalizio di cui al capo sub A), dando pienamente conto dei risultati ottenuti all'esito di un congruo e lineare percorso logico-argomentativo, i cui diversi passaggi hanno consentito di desumere la partecipazione della ricorrente alla su indicata associazione criminale dal globale apprezzamento di numerosi elementi di prova, ed in particolare: a) dai contatti intercorsi con V.M., A.M. ed il gruppo di Scampia facente capo al N.V., per riferire notizie attinenti a personaggi legati alla associazione criminale; b) dal sostegno fornito a D.P.T., che aveva ospitato nel suo appartamento alcuni latitanti dei c.d. "scissionisti"; c) dal sostegno mostrato, in particolare, in favore del latitante Gu.Pa., arrestato proprio nell'abitazione della D.P.T.; d) dallo scambio di informazioni intercorso con l' Am.Ca., "capoclan" della zona di Mugnano; e) dalla certezza, che ella sin dall'inizio aveva, che a commettere l'omicidio di Ma.

S. fosse stato proprio lo zio M.R., oltre che dall'informativa allo zio Ma.An., pochi minuti dopo l'omicidio, che i Carabinieri si trovavano presso l'abitazione di uno dei fratelli del M.; f) dal contributo da lei fornito in occasione dell'omicidio di De.Sa. - con il quale, peraltro, era intercorsa una relazione sentimentale - tenendo contatti con lo zio Ma.An. sia nei giorni, che nei momenti, immediatamente precedenti l'agguato, ed informandolo sulle abitudini e gli spostamenti della vittima, finanche attivandosi, in tal senso, presso il V.M., gli A. ed il N.E..

Il ragionamento probatorio della Corte d'appello è stato dunque articolato con rigore argomentativo, dapprima sulle ragioni per le quali la vicenda storico-fattuale non poteva essere ricostruita nel senso indicato dal Giudice di prime cure, quindi sulle risposte ai punti critici indicati dalla difesa.

In tal senso, inoltre, la sentenza impugnata ha mostrato di valorizzare una serie di specifici elementi, ricavando la partecipazione all'associazione non certo sulla base di rapporti sentimentali o di amicizia con altri sodali, ma da elementi ben più pregnanti, motivatamente ritenuti sintomatici di una condotta diretta a fornire, anche per la estrema disponibilità e condivisione dei metodi e dei programmi illeciti del gruppo, contributi concreti e decisivi per il perseguimento dei fini associativi.

Ne discende che i motivi di ricorso, come in sintesi descritti in narrativa, risultano essenzialmente volti a contrastare il significato attribuito agli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini e, in specie, ad offrire, del contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione, una valenza probatoria diversa rispetto a quella coerentemente attribuita ed ampiamente giustificata dalla Corte di merito, in tal guisa mirando a rappresentare scelte non condivisibili da parte del Giudice, piuttosto che a cogliere ed isolare il nucleo fondante di irrimediabili vizi logico-argomentativi.

9.4. Analoghe considerazioni investono il ricorso della D.P. T., la cui posizione è stata attentamente valutata dalla Corte d'appello sulla base delle numerose e convergenti risultanze probatorie offerte dalle dichiarazioni del collaborante Pa.

A., dai riscontri oggettivi legati all'arresto del latitante Gu.Pa., avvenuto proprio nella sua abitazione, e dalle conversazioni oggetto delle attività d'intercettazione svolte nel corso delle indagini in particolare, da quelle relative ai colloqui intercorsi con M.T. e Ch.An., altro sodale dello stesso gruppo, dopo l'intervento chirurgico di Gu.

P., accompagnato dai predetti presso l'abitazione di " Su." - ossia della D.P.T. - che peraltro era riuscita, poco prima, a farlo ricoverare presso una clinica ubicata in Villaricca, dalla quale venne dimesso la sera stessa dell'intervento.

Al riguardo, inoltre, la Corte d'appello ha posto in evidenza come, anche a seguito dell'omicidio in danno del minore Ma.

S., l'imputata abbia messo a disposizione il proprio alloggio in favore degli aggressori, sì come emerso dalla conversazione, oggetto di captazione telefonica, intercorsa con la M.T., dal cui contenuto i Giudici di merito hanno coerentemente desunto che alcuni dei componenti il gruppo degli aggressori del minore si rifugiarono di notte presso l'abitazione della D.P.T..

Sulla base del tenore delle conversazioni intercorse con la M. T. - alcune, peraltro, relative anche all'omicidio di De.Sa. e all'ospitalità prestata a Ca.

B. - e dei comportamenti attivi di agevolazione tenuti dall'imputata, come l'accompagnamento del Gu.Pa. in clinica, la Corte d'appello ha disatteso, con congrue ed esaustive argomentazioni, i rilievi difensivi, per lo più incentrati su alternative ricostruzioni fattuali sfornite di ogni sostegno probatorio riguardo ad una ipotizzata costrizione all'ospitalità, concludendo nel senso di un'attività di agevolazione continuativa, e non certo marginale o episodica, in favore dei partecipi di un sodalizio criminale ancora operante, ed in tal guisa uniformandosi al consolidato quadro di principii in questa delineato, secondo cui il delitto di assistenza agli associati previsto dall'art. 418 c.p. presuppone la coincidenza temporale dell'attività di assistenza prestata dal soggetto attivo con l'operatività dell'associazione criminale, mentre l'ausilio prestato agli associati dopo la cessazione del sodalizio criminoso, sotto forma di rifugio o fornitura di vitto, può eventualmente integrare il delitto di favoreggiamento personale di cui all'art. 378 c.p. (Sez. 6^, n. 17704 del 03/03/2004, dep. 16/04/2004, Rv. 228501).

La fattispecie delittuosa di cui all'art. 418 c.p., presuppone, inoltre, come reso palese dalla stessa locuzione "fuori dei casi di concorso nel reato", una condotta favoreggiatrice, specialmente qualificata come "assistenza agli associati", posta in essere da persona estranea al sodalizio mafioso, restando, invece, essa assorbita dall'art. 416 bis c.p., quando siffatta assistenza sia prestata da un aderente alla consorteria nell'ambito delle finalità solidaristiche dovute ai compartecipi, secondo il "pactum sceleris" (Sez. 6^, n. 15668 del 01/12/2011, dep. 23/04/2012, Rv. 252548).

Pienamente compatibile deve ritenersi l'aggravante del metodo mafioso (D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991) con il reato di cui all'art. 418 c.p., in ragione del fatto che tale figura criminosa presuppone, come si è visto, la coincidenza temporale dell'attività di assistenza prestata dal soggetto attivo con l'operatività dell'associazione criminale (Sez. 2^, n. 30942 del 24/05/2012, dep. 30/07/2012, Rv. 253523).

Anche in relazione a tale specifico profilo, dunque, deve ritenersi che la Corte di merito abbia fatto buon governo dei principii in questa Sede stabiliti, laddove ha coerentemente osservato che tale aggravante ben può qualificare la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un'associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, purchè il comportamento risulti assistito, come avvenuto nel caso in esame sulla base dei correlativi dati sintomatici in motivazione illustrati, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale.

Peraltro, il fatto che il contributo richiesto alla D.P.T. fosse temporalmente collocabile nel periodo della c.d. "faida" non toglie che si trattasse comunque di un arco temporale rilevante e di durata indeterminata, già di per sè sintomatico di una sua indiscriminata disponibilità alle esigenze del sodalizio.

Irrilevante, poi, deve ritenersi il profilo inerente alla contestata credibilità intrinseca delle dichiarazioni del Pa.An., il cui contenuto risulta essere ampiamente confermato dagli esiti delle attività di intercettazione.

Esaustivamente indicate e conformi ai criteri direttivi posti dall'art. 133 c.p. devono ritenersi, infine, le ragioni giustificative delle modalità di determinazione del correlativo trattamento sanzionatorio e del diniego delle invocate attenuanti, dovendosi, anche sotto tale profilo, richiamare le medesime considerazioni dianzi generalmente espresse (v., supra, il par. 8.1.) riguardo alle posizioni degli altri ricorrenti.

9.5. Non meritevole di accoglimento deve ritenersi la doglianza posta a fondamento del ricorso di M.R., avendo fatto la Corte d'appello buon governo dei consolidati principii al riguardo stabiliti da questa Suprema Corte, secondo cui tra il reato associativo ed i singoli reati-fine ben può sussistere, in teoria, vincolo di continuazione, ma senza alcun automatismo, e sempre che dell'istituto in parola si possano rinvenire, dunque, i concreti elementi fondativi (sul punto, ex multis, v. Sez. 1^, n. 13609 del 22/03/2011, dep. 5/04/2011, Rv. 249930; Sez. 5^, n. 23370 del 14/05/2008, dep. 10/06/2008, Rv. 240489; Sez. 1^, n. 16980 del 27/03/2003, dep. 10/04/2003, Rv. 223992; Sez. 1^, n. 3834 del 15/11/2000, dep. 31/01/2001, Rv. 218397).

In tal senso, è necessario che le linee essenziali del reato-fine siano state programmate, con sufficiente specificità, sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso (Sez. 1^, n. 8451 del 21.01.2009, Rv. 243199). Sin dall'inizio del vincolo associativo devono dunque sussistere i necessari elementi, quello ideativo e quello volitivo, di quel singolo fatto, non genericamente di un qualunque fatto di quel tipo o categoria.

Ne discende, ancora, che devono escludersi dalla possibilità di essere unificati in continuazione quei reati-fine che, pur rientrando nel più ampio ambito di un'attività svolta nel quadro associativo, e pur commessi anche ai fini del rafforzamento della consorteria, non possano ritenersi, tuttavia, programmati ab origine, in quanto conseguenti a circostanze ed eventi, pur della vita associativa, contingenti od occasionali, o che, comunque, non avrebbero potuto essere immaginati al momento iniziale dell'associazione stessa.

In definitiva, il fatto che un omicidio (così come altro reato-fine) sia strumentale al rafforzamento dell'operatività dell'associazione criminosa, o corrisponda anche al metodo usuale di risoluzione dei conflitti interni od esterni, non integra, di per sè, il vincolo della continuazione, ove per quello specifico episodio difettino i requisiti essenziali di tale istituto - che dunque non possono essere confusi con il rapporto di strumentante - ed in particolare quello inerente alla previsione unitaria e specifica, ab origine, del fatto di reato.

Ne discende la piena correttezza della motivazione della sentenza impugnata e - di contro - l'erroneità dei proposti motivi di ricorso, peraltro prospettati in forma solo aspecifica, senza confrontarsi criticamente con le evidenziate ragioni giustificative del correlativo epilogo decisorio.

9.6. Parimenti infondate devono ritenersi le doglianze prospettate nel ricorso proposto da C.P. e D.D.G., avendo la Corte d'appello ampiamente riesaminato il materiale probatorio già vagliato dal primo Giudice, articolando, riguardo alle parti non condivise della prima sentenza, una nuova e compiuta struttura motivazionale, che ha dato piena e congrua ragione giustificativa delle difformi conclusioni assunte.

Al riguardo, invero, la impugnata pronuncia ha puntualmente ed analiticamente ripercorso le univoche risultanze probatorie offerte dalla disamina delle attività di osservazione e controllo effettuate dalla Polizia giudiziaria, e supportate da videoriprese, nella zona adiacente l'abitazione dei coniugi C.P. - D.D. G., ponendo in risalto il continuo andirivieni dei coindagati coinvolti in traffici di droga, il deposito o il prelievo di involucri e lo scambio sistematico di denaro, foglietti di carta, appunti e telefoni cellulari, nonchè gli esiti della perquisizione ivi effettuata, che consentiva di sottoporre a sequestro fogli con l'annotazione di conteggi di somme di denaro per un ammontare di 88.000,00 Euro circa, suddivise per giornate di incasso e tipologia di stupefacente, rinvenuti in un appartamento sito nell'ambito del medesimo stabile, comunicante con l'abitazione del C.P. e del quale quest'ultimo aveva la materiale disponibilità, cosi come accertato sul posto dagli organi d'indagine.

Sulla base di tali inequivocabili emergenze probatorie, oggettivamente attestate dagli esiti delle attività di videoripresa, la Corte partenopea ha coerentemente tratto la conclusione che il centro di interesse e riferimento per gli affiliati era rappresentato proprio dall'abitazione dei ricorrenti, ritenendo palese il contributo dagli stessi apportato al perseguimento delle finalità associative, sia attraverso i comportamenti ivi puntualmente descritti (messa a disposizione del loro alloggio, maneggio di denaro, annotazione di conteggi o nominativi su block notes o appunti, utilizzo in comune di cellulari e quant'altro su esposto), sia attraverso i frequentissimi contatti intercorsi con altri affiliati o con soggetti comunque coinvolti: contatti che, sulla base di un apprezzamento esaustivamente motivato in punto di fatto, privo di vizi logici e come tale immune da censure in questa Sede rilevabili, l'impugnata pronuncia ha ritenuto non razionalmente giustificati da valide, contrapposte, soluzioni alternative, nè tanto meno, spiegabili con il dato della comune residenza nella medesima zona di (solo) alcuni dei soggetti coinvolti.

V'è ancora da osservare che l'ipotizzata equivocità degli scambi di carte, cellulari e somme di danaro, è stata con plausibili argomentazioni confutata dalla Corte di merito alla luce degli appunti ritrovati e dei dati emersi dalle videoriprese effettuate dalla P.G., mentre la asserita non riferibilità agli indagati del luogo dove i conteggi sono stati ritrovati è stata esclusa sul rilievo che ne era invece risultata la materiale disponibilità.

In relazione ai profili critici in narrativa evidenziati, dunque, il ricorso non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che nell'evoluzione del suo percorso argomentativo ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento del correlativo tema d'accusa, pervenendo alla decisione impugnata attraverso una disamina completa ed approfondita delle risultanze processuali.

Del tutto generica deve ritenersi, infine, la formulazione della terza doglianza in ricorso prospettata, che non spiega puntualmente le ragioni dell'ipotizzata configurabilità della diversa figura criminosa di cui all'art. 418 c.p., la cui sussistenza, peraltro, deve ritenersi esclusa alla stregua delle argomentazioni svolte nell'impugnata pronuncia riguardo al carattere non certo episodico delle attività svolte in favore del sodalizio e della particolare frequenza dei contatti intercorsi con gli altri affiliati, e non solo con l' Ar.An..

9.7. Analoghe considerazioni devono svolgersi, per quel che attiene al reato di cui al capo sub F), in ordine al ricorso proposto da P.G., avendo la Corte d'appello, con congrue ed esaustive argomentazioni, illustrato una serie di elementi storico- fattuali da cui ha desunto il suo attivo coinvolgimento in ordine ai fatti oggetto della contestazione, mediante la costituzione nel 2003, con l'assistenza dei fratelli O., O.M. ed O.A. ed attraverso l'intermediazione della Moores Rowland, della società "Palm Tree Services LTD".

Sotto tale profilo, inoltre, la Corte d'appello ha richiamato quanto già osservato nella pronuncia del Giudice di prime cure, menzionando le plurime attività finanziarie direttamente poste in essere dall'imputato presso la Banca Monegasca di Gestione, attraverso l'utilizzo di somme di danaro ritenute di provenienza illecita (apertura della posizione finanziaria "Palm Tree enterprises", con danaro proveniente dalla posizione fiduciaria denominata "ElveJema", e successivi reinvestimenti nel settore immobiliare spagnolo).

Al riguardo, integralmente richiamato quanto già esposto in sede di trattazione delle posizioni delle ricorrenti P., deve rilevarsi come l'impostazione seguita dalla Corte di merito sia del tutto conforme al pacifico insegnamento giurisprudenziale dettato da questa Suprema Corte, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio, non si richiede l'accertamento giudiziale del delitto presupposto, nè dei suoi autori, nè dell'esatta tipologia di esso, essendo sufficiente che sia raggiunta la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute, anche se il delitto presupposto sia delineato per sommi capi quanto alle esatte modalità di commissione (Sez. 5^, n. 36940 del 21/05/2008, dep. 26/09/2008, Rv. 241581; Sez. 2^, n. 546 del 07/01/2011, dep. 11/01/2011, Rv. 249444).

Per quel che attiene, poi, al contenuto dell'imputazione racchiusa nel capo sub G) - dove si contesta all'imputato di essersi, in collaborazione con Ba.Sa., O.M. e O. A., avendo il primo la materiale disponibilità di ingenti somme di denaro contante, provenienti dal traffico internazionale di stupefacenti realizzato da A.R., capo del sodalizio criminale "AMATO-PAGANO", adoperato, inizialmente, per impiegarle nel circuito economico produttivo attraverso la società "EUROSALUMI S.r.l." e, successivamente, nell'attività produttiva della "ditta individuale "ITALIA SALUMI" dello stesso P.G., in modo da ostacolarne l'identificazione della provenienza delittuosa - la Corte d'appello ha puntualmente esaminato i rilievi difensivi e li ha motivatamente disattesi, osservando, sulla base di un complesso di risultanze probatorie offerte da elementi documentali, dalle conversazioni oggetto di intercettazione, dalle dichiarazioni rese dal collaborante Pa.An., nonchè dalle attività di videoripresa e da altri riscontri acquisiti dagli organi investigativi, come il ricorrente abbia contribuito in maniera sostanziale alla gestione di due imprese - ossia, la "Eurosalumi" s.r.l., costituita dai coniugi A.R. e P.E., e l'"Italia Salumi di P.G.", subentrata alla prima, ed anch'essa riconducibile alla famiglia Amato - nelle quali venne di fatto impiegato danaro proveniente dalle attività di A. R. e del sodalizio criminale di riferimento.

La Corte d'appello, quindi, ha criticamente esposto le ragioni per cui ha ritenuto di doversi discostare dal difforme esito decisorio del procedimento de libertate, ed ha analiticamente ripercorso il contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione, da cui ha desunto il coinvolgimento dell'imputato, degli O. e del Ba. nelle attività legate al reinvestimento di somme di denaro nelle su indicate società, traendone la coerente conclusione, sulla base dei riscontri probatori offerti dalle dichiarazioni del Pa.An. e dagli esiti delle attività di videoripresa e di osservazione svolte dalla P.G., che anche la gestione della nuova azienda "Italia Salumi" era da riferire di fatto alle indicazioni dettate dai vertici del sodalizio criminale, che vi aveva investito dei capitali.

Nella motivazione dell'impugnata decisione si evidenzia, in particolare, come il ruolo di gestore del P.G., sia pure subordinato alle direttive degli "investitori", che lo ritenevano responsabile del dissesto economico, sia stato confermato anche dalle dichiarazioni del Pa.An., il quale ha riferito sugli stretti rapporti intrattenuti con il P.C. e con gli altri affiliati, nonchè sulla sua convocazione presso il "quartier generale" di Mugnano, innanzi al P.C., cognato di A.R., il quale addebitava al P.G. di avergli fatto perdere sia l'azienda che il terreno, in tal modo ulteriormente confermando la riferibilità dei beni al vertice del "clan".

Al vaglio di tali risultanze la Corte d'appello ha unito anche l'apprezzamento di un incontro - accertato da un servizio di osservazione e di videoripresa della P.G., tenutosi il 9 settembre 2005 ed intercorso fra il Ba., l' O.M., il P.G. e l' A.C. - resosi necessario in quanto occorreva definire le future strategie finanziarie del gruppo criminale e discutere sugli investimenti in atto, curati direttamente dall' O. e dalle persone a lui collegate, soprattutto in previsione del fatto che il Ba.Sa. era in procinto di partire per la Spagna, dove avrebbe incontrato il cognato detenuto, ed in quella occasione lo avrebbe aggiornato sulla situazione delle attività economiche di interesse.

Peraltro, la Corte d'appello ha posto in risalto come, nel corso della successiva conversazione ambientale captata all'interno della struttura carceraria spagnola, l' A.R. abbia in effetti impartito precise disposizioni in materia finanziaria, ordinando al cognato di recuperare i capitali già investiti per il tramite dell' O.M. e del P.G., esprimendosi negativamente in merito all'investimento proposto dai due.

Dal complesso dei dati storico-fattuali, e dall'analisi dei correlativi riscontri offerti dagli ulteriori, convergenti, esiti delle attività investigative, i Giudici di merito hanno coerentemente tratto la conclusione della piena configurabilità della fattispecie in contestazione, osservando come la condotta sanzionata dall'art. 648 ter c.p., lungi dal prevedere una sanzione per le intestazioni fittizie e fraudolente, consista nel "reimpiegare" in "attività economiche e finanziarie" denaro proveniente da delitto.

In tal senso, il ruolo attivo, e tutt'altro che formale, svolto dal P.G. nella gestione delle due società indicate nel tema d'accusa ha fondatamente costituito il naturale presupposto per l'affermazione della sua responsabilità, risultando egli, da tutte le emergenze probatorie sottoposte al vaglio delibativo della Corte di merito, e segnatamente dagli univoci contenuti delle conversazioni telefoniche, pienamente consapevole di mettere a disposizione la sua esperienza e professionalità al servizio delle attività di investimento dei capitali provenienti dalle illecite condotte dell'organizzazione di A.R. e dei suoi sodali (condotte, quelle evidenziate dalla Corte, poste in essere in epoca successiva alla nascita del "clan" Amato-Pagano, e come tali del tutto idonee, in ragione dell'oggettivo collegamento con l'associazione criminale in esame, a ritenere la sussistenza anche della speciale aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7).

Un epilogo decisorio, quello raggiunto dalla Corte di merito, che deve ritenersi pienamente in linea con le indicazioni al riguardo dettate dall'insegnamento di questa Suprema Corte (Sez. 1^, n. 1470 del 11/12/2007, dep. 11/01/2008, Rv. 238840; Sez. 2^, n. 39756 del 05/10/2011, dep. 04/11/2011, Rv. 251194), secondo cui la disposizione contenuta nell'art. 648 ter, c.p., pur configurando un reato a forma libera, richiede che la condotta di reimpiego, come pure quella di riciclaggio, siano caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio, risultando esse dirette in ogni caso ad ostacolare l'accertamento sull'origine delittuosa di denaro, beni o altre utilità.

Nel caso in esame, non v'è dubbio che l'impugnata pronunzia si sia coerentemente mossa all'interno di tale prospettiva ermeneutica, ritenendo che le condotte di riciclo e reimpiego di capitali effettuate in ambito societario siano state orientate essenzialmente a schermare le disponibilità facenti capo al sodalizio criminale, e dunque, in definitiva, a reimmetterle nel circuito economico legale, sottraendole anche al pericolo di interventi ablativi.

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, infine, risultano, in motivazione, le ragioni giustificative del correlativo trattamento sanzionatorio e della esclusione delle invocate attenuanti generiche. Anche in relazione a tale posizione processuale, dunque, devono intendersi qui integralmente richiamate le considerazioni in linea generale espresse, supra, nel par. 8.1., conseguentemente rigettandosi il secondo profilo di doglianza dal ricorrente prospettato.

9.8. Integralmente richiamate le considerazioni dianzi espresse in tema di valutazione dei criteri di attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dei risultati delle operazioni di intercettazione (v., supra, i parr. 6.1., 6.2. e 6.3.), deve rilevarsi, anche in ordine al ricorso proposto da E.P., come la Corte d'appello abbia svolto un'analisi accurata del complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini, ed abbia coerentemente elaborato, sulla base del loro globale ed analitico apprezzamento, la ricostruzione dei fatti oggetto dei correlativi temi d'accusa, dando conto dei risultati ottenuti con una puntuale e stringente logica argomentativa.

Muovendo dall'univocità del contenuto narrativo delle dichiarazioni al riguardo rese dai collaboratori di giustizia ( D.B., Pa.An. e Pi.Gi.) e dagli specifici elementi di riscontro probatorio offerti, quale dimostrazione della comune militanza, dall'intercettazione delle conversazioni intercorse, in particolare, con il coimputato D.L., oltre che dagli esiti delle attività investigative della P.G., il ragionamento probatorio della Corte d'appello si è concentrato con rigore critico- argomentativo, dapprima, sulle ragioni per le quali le obiezioni difensive non potevano essere accolte, e, quindi, sulle risposte ai punti critici della ricostruzione operata dal Giudice di prime cure, e dai Giudici di secondo grado motivatamente condivisa.

In tal senso, la Corte di merito ha specificamente illustrato le diverse componenti della base probatoria delineata dall'esito delle attività d'indagine, ponendone in rilievo gli elementi di conferma dell'inserimento dell'imputato nel "clan" degli scissionisti, con ruoli strumentali al traffico di stupefacenti, fra cui il trasporto e la "vigilanza" nei luoghi di spaccio, nonchè il ruolo di addetto alla sicurezza dei vertici del sodalizio, in particolare di P. C. ed A.R., e di componente del gruppo di fuoco di Varcaturo, facente capo al Ci.Sa..

A tale riguardo, l'impugnata decisione ha posto in evidenza la particolare significatività del dato probatorio rappresentato dalla partecipazione dell' E. ad un viaggio effettuato in Spagna nell'aprile del 2006, per recarsi dal capo del sodalizio, A. R., subito dopo la sua scarcerazione per decorrenza dei termini, assieme ad un gruppo composto da A.R. jr., S.D., m.r. e Co.Gi..

Analoga attenzione, inoltre, la Corte d'appello ha dedicato alla disamina degli elementi di responsabilità raccolti a carico dell'imputato per quel che attiene alle ulteriori imputazioni in materia di armi di cui ai capi sub S5) ed S7), ponendo in rilievo il contenuto inequivoco delle intercettazioni delle conversazioni al riguardo intercorse con lo S.O. e con il D.L., laddove, in particolare, l' E. confidava a quest'ultimo il rischio che lui e Mu.Vi. avevano corso a seguito di una perquisizione effettuata dalle forze dell'ordine sull'autovettura sulla quale essi viaggiavano per consegnare un'arma allo S. O., facendo altresì riferimento al fatto di essere riuscito a scampare all'arresto per essersi liberato poco prima dell'arma, restando in possesso unicamente delle munizioni.

Ne discende che i singoli motivi di doglianza, sì come sinteticamente descritti in narrativa, in quanto volti a contrastare il significato probatorio degli elementi di prova in atti versati, ovvero a dare al contenuto delle intercettazioni un significato diverso rispetto a quello attribuito dai Giudici del merito, e da essi, di contro, ampiamente giustificato, devono ritenersi infondati, essendo in ogni caso diretti a censurare scelte non condivisibili in punto di fatto, piuttosto che a cogliere la decisiva incidenza di gravi vizi logico-argomentativi sull'ordito motivazionale.

Aspecifico nella sua formulazione, oltre che improponibile in ragione dell'opzione legata all'accesso al rito abbreviato, deve poi ritenersi il profilo di doglianza inerente alla contestata identificazione degli interlocutori delle conversazioni intercettate, ove si consideri, in linea generale, che il giudice, in tale evenienza, ben può utilizzare ai fini della decisione le dichiarazioni degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che hanno riferito sul riconoscimento delle voci di taluni imputati, ovvero qualsiasi altra circostanza o elemento che consentano di risalire all'identità degli interlocutori (Sez. 6^, n. 17619 del 08/01/2008, dep. 30/04/2008, Rv. 239725), mentre la parte che deduce la relativa eccezione ha l'onere, nel caso in esame comunque non assolto, di supportarne validamente la fondatezza con l'allegazione di elementi sintomatici, dotati di oggettiva incidenza ai fini della dimostrazione del mancato riconoscimento.

Congruamente ed esaustivamente motivata risulta la configurabilità dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 contestata con riferimento alle su indicate imputazioni sub S5) ed S7), avendo la Corte d'appello puntualmente vagliato e disatteso le obiezioni difensive, sulla stregua del rilievo - in motivazione espresso con argomenti logicamente delineati in punto di fatto e come tali immuni da censure in questa Sede proponibili - che la realizzazione delle su indicate condotte delittuose, in ragione della loro natura e modalità, del contesto nel quale esse si sono inserite, della disponibilità di armi e munizioni, e degli accertati collegamenti con gli affiliati al sodalizio Amato-Pagano, era evidentemente finalizzata ad agevolare l'attuazione del programma e la stessa esistenza dell'associazione.

Manifestamente infondato, per la genericità della sua formulazione, deve ritenersi il secondo motivo di doglianza dal ricorrente dedotto, ove si consideri che la memoria difensiva ed i relativi argomenti non sono stati compiutamente indicati in ricorso, nè sono stati ad esso allegati.

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, infine, risultano, in motivazione, le ragioni giustificative del correlativo trattamento sanzionatorio - anche sotto il profilo dell'individuazione della pena base stabilita per il reato più grave e di quella irrogata a titolo di aumento per la continuazione - e quelle poste a fondamento dell'esclusione delle invocate attenuanti generiche. Anche in relazione a tale posizione processuale, peraltro, devono intendersi qui integralmente richiamate le considerazioni in linea generale espresse, supra, nel par. 8.1., conseguentemente rigettandosi il terzo profilo di doglianza dal ricorrente prospettato.

9.9. Infondate, inoltre, devono ritenersi le censure prospettate nel ricorso di L.D.B.A., avendo l'impugnata decisione criticamente riesaminato le difformi conclusioni cui era pervenuto il Giudice di prime cure in ordine ai reati associativi di cui ai capi sub A) e B), la cui configurabilità nel caso di specie è stata congruamente ed esaustivamente argomentata sulla base di una nuova e compiuta struttura motivazionale, che ha dato pienamente conto delle ragioni giustificative del convincimento di colpevolezza in parte de qua manifestato dalla Corte di merito.

Richiamate e puntualmente sottoposte ad una analitica e globale disamina le univoche risultanze probatorie offerte dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ( Pi.An., V.S., Pr.Ma. e Pr.An.) in ordine all'affiliazione dell'imputato ad entrambi i sodalizi criminali - con il ruolo sia di addetto alla gestione dei luoghi di spaccio, che di "vedetta" e "guardaspalle" - nonchè dai riscontri della P.G. sul vincolo che legava l'imputato prima ai D.L. e poi agli "scissionisti", e, soprattutto, dall'esito delle intercettazioni ambientali in carcere tra l'imputato ed i suoi familiari, il cui contenuto ha posto in evidenza che egli, al pari di ogni affiliato in stato di detenzione, "aveva diritto" sia ad un compenso continuativo, la c.d. "settimana", sia ad un contributo per le spese legali, oltre alla normale retribuzione per l'attività svolta, sollecitando a tali fini l'intervento di altri soggetti, anche al vertice dell'organizzazione, la Corte d'appello ha coerentemente tratto la conclusione che l'imputato, soggetto, come tutti gli altri sodali, alle direttive impartite dai capi, abbia fatto parte di entrambi i su indicati sodalizi criminali, condividendo le strategie ed i metodi decisi dai vertici dei "clan" per la gestione delle "piazze", apportando il suo fattivo contributo nelle relative attività e consentendone il mantenimento in vita attraverso la percezione di guadagni sicuri e continuativi, che, al pari di altre entrate derivanti da analoghe illecite attività, concorrevano all'attuazione delle finalità perseguite.

Al riguardo, pertanto, deve ritenersi che la Corte di merito abbia fatto buon governo dei principii stabiliti da questa Suprema Corte, secondo cui rispondono sia del reato di associazione di tipo mafioso che di quello di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, qualora il traffico di stupefacenti sia oggetto di una delle attività di un'associazione di tipo mafioso e venga gestito attraverso un'associazione all'uopo finalizzata e appositamente costituita e diretta dai componenti di quella mafiosa, non solo questi ultimi, ma altresì coloro che abbiano operato esclusivamente nell'ambito del traffico di stupefacenti nella consapevolezza però che lo stesso fosse gestito dal sodalizio mafioso (Sez. 6^, n. 4651 del 23/10/2009, dep. 03/02/2010, Rv. 245875; Sez. 1^, n. 17702 del 21/01/2010, dep. 10/05/2010, Rv. 247059; Sez. 2^, n. 21956 del 16/03/2005, dep. 09/06/2005, Rv. 231972; v., inoltre, Sez. 2^, n. 36692 del 22/05/2012, dep. 24/09/2012, Rv. 253892).

Per quel che attiene, in particolare, alla seconda censura in ricorso prospettata v., supra, il par. 3.10., lett. b), deve rilevarsi come la stessa introduca una quaestio facti la cui valutazione, se oggetto di una motivazione congrua e priva di vizi logici, è evidentemente sottratta all'ambito di cognizione proprio del giudizio di legittimità.

Secondo le linee interpretative in questa Sede da tempo tracciate, invero, l'esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni di tipo alternativo, risolventisi in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito perchè illustrati come maggiormente plausibili, o perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto storico-fattuale in cui la condotta delittuosa si è in concreto esplicata (Sez. 6^, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv. 234148; Sez. 1^, n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv. 235507).

Nel caso di specie l'adeguatezza dell'iter motivazionale dell'impugnata sentenza non è stata validamente censurata dal ricorrente, che si è limitato a riproporre, per lo più, obiezioni e rilievi già esaustivamente disattesi dai Giudici di merito, ovvero a formulare critiche sulle valutazioni espresse in ordine al materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in questa Sede evidentemente non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.

A tale riguardo, infatti, la Corte di merito ha puntualmente analizzato le argomentazioni svolte dalla difesa sulla base della relazione tecnica di parte dalla stessa prodotta in giudizio, e le ha motivatamente disattese, da un lato, ripercorrendo in maniera dettagliata l'intera operazione di P.G. sì come ricostruita nel relativo verbale di arresto, e, dall'altro lato, rilevando come gli agenti operanti ebbero modo di osservare l'imputato da una distanza particolarmente ravvicinata, e di verificarne tutti i movimenti e gli spostamenti effettuati nella circostanza, al fine di prelevare ed occultare in loco diversi quantitativi di stupefacente del tipo "hashish", poi rinvenuti dalla P.G. all'atto dell'arresto.

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, risultano, in motivazione, le ragioni giustificative del correlativo trattamento sanzionatorio e quelle poste a fondamento dell'esclusione delle invocate attenuanti generiche. Anche in relazione a tale posizione processuale, peraltro, devono intendersi qui integralmente richiamate le considerazioni in linea generale espresse, supra, nel par. 8.1., conseguentemente rigettandosi il terzo profilo di doglianza dal ricorrente prospettato.

Ne discende, altresì, la palese infondatezza dell'ultimo motivo di ricorso, ove si consideri il principio da questa Suprema Corte stabilito, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, non può essere considerato come indice di vizio di motivazione il diverso trattamento sanzionatorio riservato nel medesimo procedimento ai coimputati, anche se correi, salvo che il giudizio di merito sul diverso trattamento del caso che si prospetta come identico sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali (Sez. 6^, n. 21838 del 23/05/2012, dep. 05/06/2012, Rv. 252880), ipotesi, questa, evidentemente non ricorrente nel caso in esame, avendo l'impugnata pronunzia offerto, per ciascuna delle posizioni considerate, ampia giustificazione della correlativa dosimetria della pena irrogata.

9.10. Considerazioni in parte analoghe devono svolgersi per il ricorso proposto dall'Avv. Cestra nell'interesse di C.L., i cui profili di doglianza ripropongono, per lo più, la disamina di questioni in punto di fatto già sottoposte alla cognizione della Corte d'appello, che ne ha escluso la fondatezza con congrue ed esaustive argomentazioni, ponendo in evidenza come i compiti svolti dall'imputato all'interno dei sodalizi criminali cui ha partecipato attenessero in particolare al ruolo di killer e di addetto alla scorta armata. In tal senso, la motivazione ha richiamato le convergenti dichiarazioni rese dai collaboratori Pr.

A., Pi.An., Pa.An., Pr.Ma.

e V.S., che ne hanno parlato come associato al sodalizio dei Di Lauro, che sin dai primi tempi transitò nel c.d.

gruppo degli "scissionisti", partecipando anche all'incontro propedeutico alla ufficializzazione della scissione (il Pa.

A., al riguardo, ha tra l'altro riferito della partecipazione del C.L. alla scorta armata di P.C., che doveva recarsi ad un incontro fra i capi delle due fazioni durante il periodo della tregua, nonchè del controllo effettuato al piccolo D. L.A., quale ostaggio a garanzia per gli "scissionisti" del buon esito dell'incontro).

La Corte partenopea ha fatto altresì riferimento ai riscontri provenienti dagli esiti dell'operazione investigativa effettuata durante il periodo della "faida", ossia in data 19 febbraio 2005, quando l'imputato venne tratto in arresto per i reati di detenzione e porto delle armi di cui ai capi sub S), S1) ed S2), assieme agli affiliati C.R., C.C. e C.G., per avere, in concorso tra loro, detenuto illegalmente armi da guerra e comuni da sparo, di cui diverse con matricola abrasa, ed il relativo munizionamento: le armi vennero rinvenute celate all'interno di un doppio fondo ricavato nel sistema di aerazione di alcune autovetture parcheggiate nel cortile antistante la villa ove gli stessi furono sorpresi: la villa era totalmente chiusa, recintata e dotata di un unico cancello automatico di ingresso azionato da un telecomando, che veniva trovato in possesso degli uomini che l'abitavano ossia il C.R., il C.L., il C.G., il C.C. ed il figlio di questi ca.an..

All'interno del cortile di tale villa furono rinvenute, ivi parcheggiate, sette autovetture, ove si trovavano le armi di cui ai su indicati capi d'imputazione: solo gli occupanti la villa, dunque, avrebbero potuto consentire l'ingresso delle autovetture, con al seguito, ben occultate, le micidiali armi da guerra e comuni da sparo.

Ulteriore dato di rilievo sintomatico nel senso dell'affiliazione è stato desunto dalla circostanza di fatto che, sempre all'interno della villa, venne rinvenuta una valigia con sopra apposta una striscia adesiva relativa al check-in effettuato in data 24 agosto 2004 dal capo del sodalizio, A.R., per un viaggio in Spagna, nella città di Barcellona, quale elemento dimostrativo del fatto che in quella villa era passato anche quest'ultimo, in un periodo in cui egli era di fatto latitante.

Al riguardo, inoltre, i Giudici di merito hanno posto in risalto il fatto che le armi sequestrate facevano parte dell'arsenale in uso al clan Amato-Pagano ed erano custodite in quel modo proprio al fine di trasportarle agevolmente e poterle utilizzare: in tal senso, i principali componenti del gruppo, per ragioni "strategiche", avevano costituito dei covi in Varcaturo al fine di proteggersi e partire per spedizioni punitive.

Sulla base del contenuto narrativo univocamente offerto, riguardo agli aspetti centrali della regiudicanda, dai su menzionati apporti collaborativi, dall'esito dei controlli investigativi svolti dalla P.G. e dal complesso dei riscontri di volta in volta evidenziati nel percorso motivazionale dell'impugnata pronuncia, la Corte di merito ha indicato ulteriori elementi ritenuti sintomatici del collegamento della predetta abitazione e dei suoi occupanti con la fazione "scissionista" e con la "faida" in corso, puntualmente replicando alle obiezioni ed ai rilievi difensivi, che ha motivatamente disatteso ritenendoli per lo più incentrati su aspetti non decisivi, o decisamente marginali, e come tali inidonei ad intaccare il rilievo probatorio assegnato al complesso delle su indicate risultanze, dimostrative dell'intraneità dell'imputato ad entrambi i contestati sodalizi criminosi.

Occorre altresì rimarcare il dato di fatto, dalla Corte distrettuale specificamente posto in rilievo, che il materiale sequestrato era nella piena disponibilità dell'imputato e degli altri concorrenti nei medesimi reati, in tal guisa correttamente uniformandosi, l'impugnata decisane, al condivisibile insegnamento dettato da questa Suprema Corte, secondo cui, ai fini della configurabilità del concorso in detenzione o porto illegale di armi, è necessario che ciascuno dei compartecipi abbia la disponibilità materiale dell'arma e si trovi, pertanto, in una situazione di fatto tale per cui possa, comunque, in qualsiasi momento, disporne (in tal senso, Sez. 1^, n. 4494 del 29/09/1987, dep. 12/04/1988, Rv. 178089; Sez. 1^, n. 45940 del 15/11/2011, dep. 12/12/2011, Rv. 251585).

Le argomentazioni svolte dalla Corte di merito, in definitiva, sono linearmente espresse e logicamente sostenute, ed il ricorrente, a fronte di esse, si è limitato sostanzialmente a dedurre l'incoerenza e l'illogicità della sentenza censurata, insistendo sulla maggior fondatezza di tesi alternativamente prospettate. Ma non può costituire vizio deducibile in sede di legittimità la prospettazione di una diversa (e per il ricorrente più adeguata) valutazione delle risultanze processuali. Non rientra, infatti, nei poteri di questa Suprema Corte quello di compiere, come sostanzialmente si sollecita, una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, essendo il sindacato in questa Sede circoscritto alla verifica dell'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della sentenza impugnata.

In particolare, sulla base delle considerazioni dianzi esposte (v., supra, i parr. 6.1, 6.2, 6.3 e 6.4), deve rilevarsi che la Corte di appello, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, ha anche in ti caso valutato con rigore l'attendibilità intrinseca dei vari collaboranti e i riscontri alle chiamate in correità; ha correttamente individuato precisi riscontri a conferma della loro attendibilità ed ha congruamente motivato sul rilievo di volta in volta attribuito allo specifico elemento di prova sottoposto alla sua cognizione.

Parimenti infondata deve ritenersi l'ulteriore censura dal ricorrente espressa v., supra, il par. 3.20.1., lett. C) in merito alla presenza di numerosi omissis nei verbali illustrativi delle collaborazioni, avendone la Corte di merito già rilevato la genericità della formulazione, spiegando, inoltre, che le relative lacune erano state individuate non direttamente all'interno dei verbali, la cui consultazione la difesa può sempre e comunque effettuare, ma nelle trascrizioni riportate nei vari atti redatti in sede di indagine, ove taluni passi erano stati, giustappunto, intenzionalmente oscurati.

La determinazione della pena rientra nella facoltà discrezionale del giudice di merito ed è, in quanto tale, insindacabile in sede di legittimità quando risulti fondata su congrua e non manifestamente illogica motivazione: nel caso di specie, essa è stata sufficientemente motivata con riferimento alla gravità dei fatti, al rilievo dei compiti assolti nei relativi sodalizi criminali ed alla personalità dell'imputato, richiamando, peraltro, le conformi valutazioni sul punto già espresse dal Giudice di prime cure (che ha dato comunque ragione, sia pure con valutazioni generalmente espresse per tutti gli imputati, dei "non trascurabili" aumenti di pena operati a titolo di continuazione), mentre i rilievi opposti al diniego delle attenuanti generiche si traducono in allegazioni di mero fatto, con le quali si tende a censurare l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito, pur adeguatamente motivato, senza offrire concreta dimostrazione della decisiva rilevanza che, in senso contrario, dovrebbe specificamente attribuirsi al peso degli elementi favorevoli ivi oggetto di mera, formale, enunciazione.

Inammissibile, infine, deve ritenersi, ai sensi dell'art. 613 c.p.p., comma 1, l'ulteriore ricorso proposto nell'interesse di C. L. dall'Avv. Lucio Mariano Sena (v., supra, il par. 3.20.), in quanto sottoscritto da difensore non iscritto all'albo speciale della Corte di Cassazione (v., supra, il par. 7).

9.11. Parimenti infondato, infine, deve ritenersi il ricorso proposto da M.F., le cui censure sono state congruamente esaminate e disattese dalla Corte territoriale, che nella motivazione dell'impugnata decisione ha analiticamente illustrato le univoche risultanze offerte dalle numerose conversazioni oggetto di intercettazione telefonica, traendone le coerenti conclusioni in merito alla presenza di una continuativa e sistematica attività di svolgimento del ruolo di gestore di una "piazza di spaccio" del tipo eroina e cocaina in Scampia, per conto del gruppo diretto da N.E., nonchè del ruolo di addetto alla scorta di quest'ultimo, coadiuvato, nelle attività di gestione, da D.M. V., R.S. e V.M., e per la custodia dello stupefacente dai familiari D.N.A., C.T. ed altri.

Al riguardo, la Corte di merito ha ripercorso le diverse attività svolte dall'imputato nella sua posizione di responsabile dei luoghi di spaccio, ponendo in risalto come egli abbia custodito alcuni telefoni cellulari utilizzati per contattare gli spacciatori, organizzato il turno di lavoro di costoro e delle persone addette alla relativa sorveglianza, occultato presso l'abitazione della suocera ( D.N.A.M.), ove egli viveva insieme alla moglie, C.T., il grosso dei quantitativi di stupefacente per poi trasferirli, in ridotte quantità, nel luogo ove era organizzata la vendita al dettaglio, ricevuto, inoltre, le relative disposizioni impartite dal N.E. ed, infine, verificato i dati contabili inerenti all'esatta corrispondenza tra il denaro incassato e le dosi vedute. Nell'esercizio di tali attività, peraltro, egli veniva costantemente coadiuvato dalla moglie, C.T..

Infondata, dunque, deve ritenersi la prima censura dal ricorrente prospettata, emergendo chiaramente dal testo della motivazione i dati probatori dalla Corte distrettuale valutati ai fini della ritenuta sussistenza della condotta di partecipazione consapevole e volontaria dall'imputato posta in essere, D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, comma 2, in relazione al capo d'imputazione sub I): la Corte, in tal senso, ha linearmente illustrato il contenuto delle correlative emergenze probatorie, evidenziando la presenza di un'articolata organizzazione, che disponeva di uomini e mezzi, come denaro, alloggi, telefoni cellulari, punti di vendita, collegamenti con infedeli esponenti delle Forze dell'ordine e stabili rifornimenti di partite di stupefacenti ad opera del gruppo criminale di riferimento.

Anche in relazione alla seconda censura (v., supra, il par. 3.38, lett. B), che ripropone analoghe questioni in punto di fatto già puntualmente disattese dalla Corte di merito, la motivazione dell'impugnata decisione mostra di aver esaminato l'allegata documentazione difensiva, spiegando, con argomenti adeguatamente esposti e privi di vizi logici ictu oculi riconoscibili, e come tali non sottoponibili a sindacato in questa Sede, che la presenza dell'imputato nel territorio campano durante il periodo in contestazione non è risultata affatto esclusa, limitandosi le deduzioni difensive a fornire un mero indizio, per giunta di carattere formale, smentito dallo stesso rilievo del dato fattuale inerente all'accertata presenza del M.F. nei luoghi ove avveniva lo spaccio.

Per quel che attiene, pertanto, alla richiesta volta ad ottenere il riconoscimento della desistenza volontaria ex art. 56 c.p., comma 3, deve ritenersi che la Corte d'appello abbia fatto buon governo dei principii affermati da questa Suprema Corte, secondo cui, di regola, si atteggia come reato permanente la condotta di partecipazione all'associazione da parte del soggetto che vi è organicamente inserito (da ultimo, Sez. 5^, n. 15727 del 09/03/2012, dep. 24/04/2012, Rv. 252329), con la conseguenza che, in tale ipotesi, caratterizzata da una situazione antigiuridica che si concretizza mediante la realizzazione delle condizioni del suo mantenimento, il tentativo è configurabile solo prima di tale momento, mentre dopo può aversi soltanto la cessazione della permanenza, nonchè il ravvedimento post-delictum (Sez. 2^, n. 7125 del 26/11/1987, dep. 17/06/1988, Rv. 178632). Per la sussistenza della prospettata ipotesi di desistenza volontaria, di contro, sarebbe stato necessario che la condotta dell'agente, per volontaria iniziativa dello stesso, si fosse arrestata prima del completamento dell'azione esecutiva ed avesse impedito l'evento: sarebbe occorso, quindi, un comportamento positivo tale da evitare che il tentativo posto in essere avesse determinato il risultato prima voluto.

Parimenti congruo ed esaustivamente motivato risulta l'apprezzamento dalla Corte partenopea espresso in merito alla riconosciuta configurabilità dei presupposti dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 in relazione al reato contestato nel capo sub L), avendo l'impugnata decisione spiegato come la commissione di tale delitto, per le modalità operative, il contesto ed i collegamenti con il gruppo facente capo al N.E. ed agli altri affiliati a lui direttamente legati - facenti parte di un sottogruppo a sua volta intrinsecamente connesso al sodalizio "Amato-Pagano" - fosse oggettivamente finalizzata ad agevolare l'attuazione del programma criminoso e la stessa esistenza di tale organismo associativo.

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, infine, risultano, in motivazione, le ragioni giustificative del correlativo trattamento sanzionatorio, anche con riferimento all'esclusione delle invocate attenuanti generiche, avendo la Corte d'appello specificamente fatto leva, nella considerazione di tale profilo, su numerosi dati sintomatici rappresentati dalle modalità allarmanti della realizzazione dei reati al ricorrente ascritti (l'incessante e redditizia attività di vendita degli stupefacenti, il ruolo "direttivo" da lui svolto, il coinvolgimento anche di minorenni), dalla qualità dello stupefacente e dal considerevole quantitativo (gr. 1.984 circa) in relazione al reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, nonchè dalla precedente condanna riportata per violazione del T.U. in materia di stupefacenti, laddove i rilievi difensivi opposti al diniego delle attenuanti generiche si traducono in allegazioni di mero fatto, con le quali si tende a censurare genericamente l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito, pur adeguatamente motivato, senza offrire concreta dimostrazione della decisiva rilevanza che, in senso contrario, dovrebbe specificamente attribuirsi al peso degli elementi favorevoli ivi oggetto di mera, formale, enunciazione.

Anche in relazione a tale posizione processuale, peraltro, devono intendersi qui integralmente richiamate le considerazioni in linea generale espresse, supra, nel par. 8.1., conseguentemente rigettandosi i motivi aggiunti dal ricorrente formulati.

10. Al rigetto dei su indicati ricorsi proposti da A.R., C.L., C.P., D.D.G., D. P.T., E.P., L.D.B.A., M.R., M.T., M.F., P. E., P.R., P.V. e P.G., consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna dei medesimi al pagamento delle spese processuali.

11. Fondato, di contro, deve ritenersi il ricorso proposto da G. C., ove si consideri il portato della regola da questa Suprema Corte dettata (da ultimo, Sez. 6^, n. 39247 del 12/07/2013, dep. 23/09/2013, Rv. 257434; Sez. 6^, n. 1770 del 18/12/2012, dep. 15/01/2013, Rv. 254204), secondo cui, in tema di impugnazione, i motivi di appello devono essere specifici allo stesso modo di quanto richiesto per il ricorso in cassazione, con la logica conseguenza che, pur nella libertà della loro formulazione, essi devono indicare con chiarezza le ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano le censure, al fine di delimitare con precisione l'oggetto del gravame ed evitare, pertanto, impugnazioni generiche o meramente dilatorie.

Nel caso di specie, risultava evidentemente privo del requisito della specificità l'atto di gravame del P.M., limitatosi ad una generica censura delle articolate valutazioni espresse nella sentenza emessa dal Giudice di prime cure, il cui epilogo decisorio è stato solo apoditticamente contestato con l'appello, contrapponendovi, senza il supporto di adeguati elementi critico-argomentativi di segno contrario, l'alternativo rilievo che l'imputato operava in un sottogruppo affiliato al "clan" Amato-Pagano per svolgere, in maniera organizzata, attività di traffico di sostanze stupefacenti.

La Corte territoriale, dunque, non ha correttamente applicato le su indicate norme processuali e, in particolare, non ha fatto corretta applicazione dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), che, a pena d'inammissibilità, prescrivono che nell'atto d'impugnazione siano enunciati, oltre ai capi o punti della sentenza e alle richieste, "i motivi con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta".

In punto di fatto, invero, non è sufficiente ad integrare il necessario requisito di specificità la generica prospettazione di inadeguata valutazione del compendio probatorio acquisito agli atti del giudizio di primo grado, essendo invece necessario indicare le ragioni per cui si ritiene errata la valutazione che il giudice ha compiuto dei relativi risultati.

Nè, del resto, può ritenersi che le esigenze di specificità dei motivi siano attenuate - rispetto al ricorso per cassazione - nel giudizio di appello, che è competente a rivalutare anche le questioni di fatto. Tale rivalutazione, essendo l'appello un'impugnazione devolutiva, può e deve avvenire nei rigorosi limiti di quanto la parte appellante ha legittimamente investito il giudice d'appello con il mezzo d'impugnazione (conforme alle previsioni di cui all'art. 581 c.p.p.), che serve sia a circoscrivere l'ambito del poteri del giudice, sia ad evitare impugnazioni dilatorie che concorrono ad impedire la realizzazione del principio della ragionevole durata del processo (ex art. 111 Cost., comma 2).

La mancanza nell'atto di impugnazione del requisito della specificità dei motivi rendeva l'atto medesimo inidoneo ad introdurre un nuovo grado di giudizio ed a provocare, quindi, quegli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità, con la conseguente inidoneità dell'atto a produrre l'impulso necessario per dar vita al giudizio di impugnazione (Sez. 6^, n. 1770 del 18/12/2012, dep. 15/01/2013, cit.).

Ne discende l'erroneità del rigetto dell'eccezione preliminare di inammissibilità dell'appello del P.M., con il conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

12. Parimenti fondato, sia pure per le diverse ragioni di seguito esposte e precisate, deve ritenersi il ricorso proposto da C.A..

La Corte d'appello ha ritenuto inammissibile - limitatamente al reato sub T), di cui agli artt. 110, 112 e 605 c.p. e alla L. n. 203 del 1991, art. 7 - l'appello proposto dal P.M. avverso la decisione di primo grado, perchè "assolutamente privo di motivi a sostegno", mentre ha riformato quella decisione in ordine al delitto associativo di cui al capo sub C1), condannando l'imputato alla pena di anni otto e mesi otto di reclusione.

Pur dovendosi ritenere ammissibile l'appello proposto dal P.M. avverso la sentenza assolutoria di primo grado, e conseguentemente infondata la prima censura dal ricorrente prospettata, atteso che la formulazione dell'atto consente di ritenere che la parte pubblica ha indicato i punti del provvedimento impugnato oggetto di doglianza e gli argomenti di fatto e di diritto addotti a sostegno delle correlative censure - evidenziando talune incongruenze nei passaggi motivazionali dedicati alla ritenuta esclusione dell'affiliazione del C.A. al "clan Licciardi", a fronte di somme di denaro che egli avrebbe invece ricevuto quale "stipendio" per le attività svolte nell'interesse del predetto sodalizio - deve sotto altro profilo rilevarsi l'omessa valutazione degli argomenti illustrati nella memoria difensiva menzionata nel ricorso, che introduceva una serie articolata di critiche ed obiezioni in punto di fatto avverso l'atto di appello del P.M., essenzialmente incentrate sulla diversa valutazione del materiale probatorio in atti versato, oltre che sulla maggiore plausibilità logica di spiegazioni alternative prospettate dalla difesa, della cui compiuta disamina, tuttavia, non v'è traccia nel testo della motivazione.

Al riguardo, è noto l'insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, secondo cui la omessa valutazione di una memoria difensiva determina la nullità di ordine generale prevista dall'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto impedisce all'imputato di intervenire concretamente nel processo ricostruttivo e valutativo effettuato dal giudice in ordine al fatto-reato, comportando la lesione dei diritti di intervento o assistenza difensiva dell'imputato stesso, oltre a configurare una violazione delle regole che presiedono alla motivazione delle decisioni giudiziarie in relazione al necessario vaglio delibativo delle questioni devolute con l'atto d'impugnazione (Sez. 1^, 7 luglio 2009, n. 31245, Rv.

244321; Sez. 1^, 14 ottobre 2005, n. 45104, Rv. 232702; Sez. 1^, 6 maggio 2005, n. 23789, Rv. 232518; Sez. 1^, n. 37531 del 07/10/2010, dep. 20/10/2010, Rv. 248551).

La facoltà delle parti di presentare memorie ed istanze costituisce, infatti, uno dei principali strumenti di attuazione del principio del contraddittorio ancor prima che venga instaurato il processo (Rel.

prel., 177 ss.), con la conseguenza che la motivazione stessa dell'atto conclusivo del percorso processuale risulta indirettamente viziata per il mancato apprezzamento degli argomenti sviluppati nella memoria presentata da una delle parti processuali, in relazione alla fondatezza o meno delle diverse questioni che investono i punti e capi della decisione fatta oggetto di impugnazione.

Sulla base di quanto or ora esposto s'impone, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata ed il rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli, che, nell'esaminare i su illustrati rilievi difensivi v., supra, il par. 3.34, lett. C), D) ed E), si atterrà al principio di diritto in precedenza enunciato.

13. Parzialmente fondati, infine, devono ritenersi i ricorsi proposti da L.P. e da S.O., che vanno conseguentemente accolti nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati.

13.1. Per quel che attiene al ricorso proposto da L.P. v., supra, il par. 3.16. lett. A), deve ritenersi fondato il solo motivo di doglianza prospettato in ordine al reato associativo di cui al capo sub B), avendo la Corte d'appello posto a sostegno del giudizio di penale responsabilità argomenti tratti dalla disamina della diversa vicenda storico-fattuale oggetto del reato di estorsione ascrittogli al capo d'imputazione sub U) - dal quale, peraltro, l'imputato è stato assolto - laddove il relativo tema d'accusa era incentrato sull'apprezzamento dei contenuti della deposizione di g.g., le cui dichiarazioni sono state valorizzate nel testo della motivazione per sorreggere la valutazione di intraneità dell'imputato al contestato sodalizio criminale (v.

pagg. 214-215), nonostante ne fosse stata eccepita la inutilizzabilità, perchè rese in violazione delle regole di garanzia difensiva di cui all'art. 63 c.p.p., comma 2 e art. 64 c.p.p..

Si evidenzia, infatti, in un passaggio della stessa motivazione, che il g.g., alla fine della sua "sofferta deposizione", ammise di essere stato messo a capo della gestione del parcheggio per diretta investitura del "clan", di cui "egli era in pratica una sorta di dipendente o, se si preferisce, una sorta di "socio in affari", con il logico corollario che l'azione posta in essere nei confronti del g.g. non poteva essere "tecnicamente" intesa come un'estorsione, apparendo innegabile che le somme di danaro da lui raccolte nel corso del tempo (da parte dei coimputati B. F. e L.P.) costituivano un modo di "fare cassa" del "clan", in tal guisa confermando la condotta di partecipazione all'organizzazione criminale attribuita ad entrambi gli imputati dai collaboratori di giustizia ascoltati nel corso delle attività d'indagine.

Va dunque riconosciuta la fondatezza della su indicata eccezione, ove si consideri che le dichiarazioni rese dalla persona che fin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita nella qualità di indagata sono inutilizzabili "erga omnes" e la verifica della sussistenza di tale qualità va condotta non secondo un criterio formale (esistenza della "notitia criminis", iscrizione nel registro degli indagati), ma secondo il criterio sostanziale della qualità oggettivamente attribuibile al soggetto in base alla situazione esistente nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese (Sez. 6^, n. 23776 del 22/04/2009, dep. 09/06/2009, Rv. 244360; v., inoltre, Sez. 3^, n. 1233 del 02/10/2012, dep. 10/01/2013, Rv. 254176).

Ne discende l'annullamento con rinvio della impugnata sentenza, dovendo la Corte distrettuale riesaminare in parte de qua - anche in ordine alle conseguenze sulla eventuale rideterminazione del trattamento sanzionatorio, alla stregua dei rilievi difensivi in ricorso espressi (e sinteticamente illustrati, supra, nel par. 3.16, lett. B) - i profili di valenza dimostrativa specificamente attribuibile al complesso delle ulteriori emergenze probatorie manifestatesi a carico dell'imputato, e segnatamente al contenuto delle chiamate in reità provenienti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia indicati in motivazione.

Infondato, di contro, deve ritenersi l'ulteriore profilo di doglianza - dalla difesa, peraltro, solo genericamente prospettato - in relazione alla ritenuta partecipazione al reato associativo di cui al capo sub A), avendo la Corte di merito evidenziato, al riguardo, le ragioni giustificative del giudizio di responsabilità sulla base di argomenti congruamente indicati e desunti, in assenza di vizi logici ictu oculi riconoscibili, dalle convergenti risultanze delle fonti di prova orale in motivazione riportate, la cui alternativa "rilettura", in difetto di una puntuale e dettagliata esposizione di contrarie ragioni volte a disarticolare le considerazioni ed i rilievi in punto di fatto espressi dai Giudici di merito, esula dal tipo di sindacato in questa Sede propriamente esercitabile.

In relazione a tale profilo, dunque, il su indicato ricorso deve essere rigettato.

13.2. Per quel che attiene, inoltre, al ricorso proposto da S. O. - condannato alla pena di anni dodici di reclusione per i reati associativi di cui all'art. 416 bis c.p. e al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (capi sub A) ed I), nonchè per il reato di sequestro di persona in danno di Am.An. (capo sub T) e per quelli in tema di detenzione e porto illegale di armi (capi sub S6) ed S7) - i motivi di doglianza ivi prospettati - fatto salvo quanto si dirà nel prosieguo della trattazione - devono ritenersi del tutto infondati, integralmente richiamandosi, anche per tale posizione processuale, le considerazioni dianzi espresse in tema di valutazione dei criteri di attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dei risultati delle operazioni di intercettazione (v., supra, i parr. 6.1., 6.2. e 6.3.), tenuto conto, altresì, del fatto che la richiesta di giudizio abbreviato proveniente dall'imputato comporta la definizione del processo allo stato degli atti, ciò che determina la formazione della "res iudicanda" sulla base del quadro probatorio già acquisito.

A tale riguardo, in particolare, deve rilevarsi come la Corte d'appello abbia svolto un'analisi accurata del complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini, ed abbia coerentemente elaborato, sulla base del loro globale ed analitico apprezzamento, la ricostruzione dei fatti oggetto dei correlativi temi d'accusa, dando conto dei risultati ottenuti con una puntuale e stringente logica argomentativa.

Muovendo dall'univocità del contenuto narrativo delle dichiarazioni al riguardo rese dai collaboratori di giustizia ( Pi.An., Pr.An. e Pr.Ma., D.B., Pa.An. e Pi.Gi.) e dagli specifici elementi di riscontro probatorio offerti dagli esiti delle operazioni di intercettazione ambientale e telefonica, oltre che dalle attività di controllo svolte dagli organi investigativi, il ragionamento probatorio della Corte d'appello si è concentrato con rigore critico- argomentativo sia sulle ragioni per le quali le obiezioni difensive non potevano essere accolte, sia sulle risposte ai punti critici della ricostruzione operata dal Giudice di prime cure, e dai Giudici di secondo grado motivatamente condivisa ed, in parte, integrata, laddove essi hanno fatto riferimento al coinvolgimento dell'imputato nell'acquisto di autovetture per conto dell'organizzazione, ponendo in risalto il dato della piena conoscenza sia del parco macchine utilizzate dall'associazione, sia degli accorgimenti ad esse apportati per allestirle con accessori idonei a camuffarle da autovetture della Polizia, sì da agevolare l'attuazione del programma criminoso e garantirsi l'impunità.

In tal senso, inoltre, la Corte di merito ha specificamente illustrato le diverse componenti della base probatoria delineata dall'esito delle attività d'indagine, ponendone in rilievo: a) gli elementi di conferma dell'inserimento dell'imputato nel "clan" degli scissionisti, cui ha stabilmente aderito ricevendo un regolare stipendio mensile, oltre a premi occasionali e regali, a fronte della totale messa a disposizione per una pluralità di servizi, tra i quali sono stati evidenziati quelli inerenti alla partecipazione al servizio di scorta ai capi, alla detenzione di uno degli arsenali del "clan" ed alla consegna di somme di danaro agli affiliati; b) il pieno inserimento anche nell'organizzazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, svolgendovi, per conto dei capi, la funzione di "vedetta" nelle "piazze di spaccio" del comune di Melito, con la predisposizione di turni di servizio alternati con gli altri sodali.

Analoga attenzione, inoltre, la Corte d'appello ha dedicato alla disamina degli elementi di responsabilità raccolti a carico dell'imputato per quel che attiene alle ulteriori imputazioni in materia di armi e sequestro di persona di cui ai capi sub S7) e T), ponendo in rilievo il fatto che il contenuto inequivoco delle intercettazioni e degli esiti delle attività d'indagine, in motivazione congruamente ed esaustivamente illustrati, hanno costituito non solo oggettivo riscontro, ma prova autonoma della sua colpevolezza.

Con specifico riferimento alla prima delle due imputazioni or ora menzionate, vanno richiamate le considerazioni già espresse in relazione alla disamina dell'analoga posizione del coimputato E.P., per quel che attiene alla sequenza dei dialoghi intercorsi con lo S.O., ed alle conversazioni prima ancora avvenute tra quest'ultimo e Ba.Vi., in merito alla trattativa legata alla consegna di un'arma custodita dal primo, e da reperire per la successiva consegna a quest'ultimo: sul punto, la Corte d'appello ha preso in esame ed ha motivatamente disatteso i rilievi difensivi, evidenziando il carattere esplicito di tali conversazioni, non solo in merito alla detenzione dell'arma, ma anche in ordine al porto in luogo pubblico della stessa, in ragione dell'assoluta coincidenza dei nomi e dei tempi programmati.

Con riferimento al delitto di cui al capo sub T), inoltre, la Corte d'appello ha adeguatamente risposto alle obiezioni difensive nei passaggi motivazionali dedicati all'esame dell'analoga posizione del coimputato E.M., escludendo la possibilità di spiegazioni alternative in ordine alla configurabilità del delitto di cui all'art. 605 c.p., sul rilievo, decisivo, che la vittima fu privata della libertà di movimento non per il tempo corrispondente al suo pestaggio, ma per un tempo decisamente maggiore, pari ad oltre due ore, per giunta ammanettata, trasportata con l'autovettura dello S.O. e condotta in un luogo chiuso, sotto il controllo del "clan" degli "scissionisti". In quel box, proseguono i Giudici di merito, dopo avere ammanettato l' Am.Ca., i due imputati continuarono ad aggredirlo fisicamente, come attestato dalle espressioni pronunziate dallo stesso S.O., allorquando egli riferì all' A.R. jr. delle implorazioni della vittima, e del suo essere inerme, ripiegata su sè stessa, impietrita dalla paura e timorosa delle ulteriori conseguenze.

Congruamente ed esaustivamente motivata risulta anche la configurabilità dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 avendo la Corte d'appello puntualmente osservato, con argomenti logicamente delineati in punto di fatto e come tali immuni da censure in questa Sede proponibili, che la realizzazione delle su indicate condotte delittuose, in ragione della loro natura e modalità, del contesto nel quale esse si sono inserite, della custodia e disponibilità di armi e munizioni, e degli accertati collegamenti con gli affiliati al sodalizio Amato-Pagano, era evidentemente finalizzata ad agevolare l'attuazione del programma e la stessa esistenza dell'associazione criminale.

Ne discende che la complessiva articolazione dei vari motivi di doglianza, sì come sinteticamente descritta in narrativa, in quanto sostanzialmente orientata a contrastare la valenza probatoria delle fonti e degli elementi in atti versati, ovvero ad assegnare al contenuto delle intercettazioni un significato diverso rispetto a quello attribuito dai Giudici del merito, e da essi, di contro, ampiamente giustificato, deve ritenersi infondata, essendo in ogni caso diretta a censurare scelte non condivise in punto di fatto, piuttosto che a cogliere la decisiva incidenza di gravi vizi logico- argomentativi sulla consistenza dell'ordito motivazionale.

Aspecifico nella sua formulazione, oltre che improponibile in ragione dell'opzione legata all'accesso al giudizio abbreviato, deve poi ritenersi il profilo di doglianza inerente alla contestata identificazione degli interlocutori delle conversazioni intercettate, ove si consideri, in linea generale, che il giudice, in tale evenienza, ben può utilizzare ai fini della decisione le dichiarazioni degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che hanno riferito sul riconoscimento delle voci di taluni imputati, ovvero qualsiasi altra circostanza o elemento che consentano di risalire all'identità degli interlocutori (Sez. 6^, n. 17619 del 08/01/2008, dep. 30/04/2008, Rv. 239725), mentre la parte che deduce la relativa eccezione ha l'onere, nel caso in esame comunque non assolto, di supportarne validamente la fondatezza con l'allegazione di elementi sintomatici, dotati di oggettiva incidenza ai fini della dimostrazione del mancato riconoscimento.

Congruamente esposte, e del tutto conformi alle indicazioni di legge, infine, risultano, in motivazione, le ragioni poste a fondamento dell'esclusione delle invocate attenuanti generiche. Anche in relazione a tale posizione processuale, peraltro, devono intendersi qui integralmente richiamate le considerazioni in linea generale espresse, supra, nel par. 8.1., conseguentemente rigettandosi la quarta censura dal ricorrente prospettata.

In relazione ai diversi aspetti sinora considerati, dunque, il ricorso deve essere rigettato.

Fondato, di contro, deve ritenersi il ricorso, per quel che attiene al solo motivo inerente alla denunziata insussistenza del reato di cui al capo sub S6), risultando la contestazione formulata con riferimento alla individuazione di un reato contravvenzionale - ossia, le accensioni ed esplosioni pericolose ex art. 703 c.p. - le cui forme e modalità di realizzazione non corrispondono sotto alcun profilo ai connotati identificativi della diversa condotta - di illecita detenzione di un numero imprecisato di proiettili - oggetto dell'imputazione ivi racchiusa.

Ne discende, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo sub S6), perchè il fatto non sussiste, con la conseguente esigenza di provvedere alla rideterminazione della pena, tenendo conto anche dei rilievi difensivi espressi - con riferimento all'individuazione del limite edittale e dell'aumento operato a titolo di continuazione - all'interno della quinta censura in ricorso formulata (v., supra, il par. 3.14, lett. E).

P.Q.M.
Previa separazione dei ricorsi proposti da M.C., M.O. e P.A., dispone il rinvio dei procedimenti relativi a tali imputati a nuovo ruolo.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di E. F. perchè il reato è estinto per morte dell'imputato.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata dei confronti di G. C. per inammissibilità dell'appello del P.M..

Annulla la sentenza impugnata dei confronti di C.A. con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per nuovo giudizio.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di L.P. limitatamente al capo B) con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per nuovo giudizio. Rigetta nel resto il ricorso di L.P..

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.O. limitatamente al capo S6) perchè il fatto non sussiste e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la rideterminazione della pena. Rigetta nel resto il ricorso di S. O..

Rigetta i ricorsi di A.R., C.L., C. P., D.D.G., D.P.T., E. P., L.D.B.A., M.R., M. T., M.F., P.E., P.R., P.V., P.G., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Dichiara inammissibili i ricorsi di A.F., A. A., Ar.An., B.G., B. F., B.A., C.C., Ca.Ca., C.R., C.T., Ce.Ca., C. G., D.M.V., D.L., E.M., F.G., G.G., I.F., L.D. B.U., m.a., M.A., M. M., Ma.An., M.D., N.E., S.G., S.S., V. M., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2014