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Condizioni degradanti in Bulgaria: MAE ineseguibile (Cass.931/18)

11 gennaio 2018, Cassazione penale

Condizioni carcerarie inadeguate danno luogo a trattamenti inumani o degradanti e costituiscono dunque potenziale motivo di
rifiuto della consegna: occorre che lo Stato che ha emesso il M.A.E. indichi lo specifico trattamento penitenziario cui sottoporrà il consegnando, assicurando il necessario spazio vitale e idonee condizioni di vivibilità, da valutarsi in relazione al complessivo regime penitenziario previsto.

CORTE DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE

sentenza 931 Anno 2018

udienza 11 gennaio 2018

Presidente: DI STEFANO PIERLUIGI
Relatore: RICCIARELLI MASSIMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
YYY, nato il ** a **(Bulgaria)

avverso la sentenza emessa in data 5/12/2017 dalla Corte di appello di Milano

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Massimo Ricciarelli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 5/12/2017 la Corte di appello di Milano ha disposto la consegna di YYY all’Autorità Giudiziaria della Bulgaria, in esecuzione di mandato di arresto europeo del 1/12/2016 emesso per l’esecuzione della pena della reclusione pari a mesi nove e giorni ventiquattro, risultante da provvedimento -che la Corte territoriale ha indicato come sentenzadel 24/7/2015 del Tribunale di Kyustendil, con cui era stata convertita la residua parte della libertà vigilata applicata come da ordinanza del 25/7/2014 del Tribunale di Dupnitsa.

2. Ha presentato ricorso YYY tramite il suo difensore.

2.1. Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 6, comma 4, lett. b), legge 69 del 2005.
Non erano state trasmesse né le norme del codice penale bulgaro applicabili in relazione al reato contestato né quelle relative alla commutazione della libertà il controllo sulla corretta applicazione della pena.


2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 18, comma 1, lett. g) e h), legge 69 del 2005.

La pena era stata inflitta con ordinanza qualificata inappellabile, il che contraddiceva la previsione che la sentenza irrevocabile debba essere emessa all’esito di procedimento rispettoso anche del Prot. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che statuisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale.

Inoltre l’ordinanza n. 370 del 24/7/2015 era stata emessa in violazione dell’art. 18, comma 1, lett. h), legge 69 del 2005, in quanto era previsto che la pena residua fosse espiata in regime carcerario severo, mentre non risultava allegato il testo delle disposizioni di legge relative alle modalità di esecuzione della pena e al regime definito severo, potendosi ipotizzare che le modalità di
espiazione siano inumane o degradanti.

2.3. Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 19, comma 1, lett. a), legge 69 del 2005.

L’ordinanza n. 370 relativa alla conversione della pena era stata emessa in assenza dell’imputato, cosicché erroneamente la Corte territoriale aveva omesso di subordinare la consegna alla condizione che l’A.G. della Bulgaria fornisca assicurazioni circa la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato di emissione e di essere presente in giudizio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
In generale va rimarcato che «in tema di mandato di arresto europeo, la mancata allegazione del “testo delle disposizioni di legge applicabili”, richiesta dall’art. 6, comma quarto, lett. b), della L. 22 aprile 2005, n. 69, non costituisce di per sé causa di rifiuto della consegna, trattandosi di documentazione necessaria solo quando sorgano particolari problemi interpretativi la cui soluzione necessiti della esatta cognizione della portata della norma straniera, come nel caso della verifica della “doppia punibilità”» (Cass. Sez. 6, n. 17797 del 5/5/2011, Dragutinovic, rv. 250068).

Nel caso di specie peraltro lo stesso ricorrente dà atto che sono stati indicati la norma violata, la pena massima irrogabile e i parametri utilizzati per la conversione della libertà vigilata in pena detentiva, senza che ciò abbia formato oggetto di doglianza specifica (sul punto deve richiamarsi l’ordinanza n. 370 del Tribunale Regionale di Kyustendil in data 24/7/2015, nella quale sono richiamate).

2. Relativamente al secondo motivo si impone un’analisi riferita a ciascuno dei temi dedotti.


2.1. Quanto alla questione inerente al doppio grado di giurisdizione, va rimarcato come, in base alla prospettazione del ricorrente, costui aveva concordato con l’assistenza del difensore la pena da irrogarsi, indicata nella libertà vigilata pari ad anni due mesi sei,  comprendente la prestazione di lavoro in favore della collettività per 320 ore.


L’assunto trova riscontro nel verbale n. 166 del 25/7/2014 relativo alla
decisione assunta dal Tribunale di Dupnitsa.

In concreto risulta essere stato fatto riferimento ad un istituto del codice di rito bulgaro, avvicinabile all’applicazione di pena prevista dall’art. 444 del codice di procedura penale italiano e specificamente disciplinato dagli artt. 381 e 382 del codice di procedura bulgaro, in forza del quale l’imputato, assistito dal
difensore, riconoscendo la propria colpevolezza, concorda la pena, che viene poi irrogata, previa verifica della legittimità dell’accordo e della consapevolezza da parte dell’imputato circa le sue conseguenze, con provvedimento definitivo.

In tale prospettiva va rimarcato come in relazione al tema del doppio grado di giurisdizione la Corte di Strasburgo abbia ritenuto che la decisione emessa nell’ambito del patteggiamento, implicante rinuncia consapevole alle restanti garanzie, faccia apparire ragionevole la mancata previsione della possibilità di ricorrere ad un giudice superiore, trattandosi di ipotesi diversa da quella basata
su condanna emessa all’esito di giudizio ordinario (Corte E.D.U. Natsylishvili contro Georgia del 29/4/2014).

Poiché la struttura dell’accordo sulla cui base è stata emessa la decisione da parte dell’A.G. della Bulgaria corrisponde nella sostanza a quella del patteggiamento esaminato dalla Corte di Strasburgo, ben può dirsi che non ricorra alcun vulnus agli effetti dell’art. 18, comma 1, lett. g), legge 69 del 2005.
Su tali basi il motivo di ricorso deve essere ritenuto per questa parte
infondato.

2.2. Quanto invece all’ulteriore profilo, coinvolgente il motivo di rifiuto di cui all’art. 18, comma 1, lett. h), legge 69 del 2005, deve rilevarsi come a seguito della commutazione della pena sia stata in concreto irrogata la pena della reclusione e sia stato previsto un regime iniziale definito severo, in quanto il reato era stato commesso nella fase di osservazione correlata ad un reato
precedente.
A tale stregua la Corte territoriale avrebbe dovuto porsi il problema del concreto rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, derivanti dalle condizioni degli istituti penitenziari bulgari.

Per quanto il tema sia stato dedotto, per giunta in termini generici, solo in questa sede, a fronte di un onere di allegazione che in via generale grava sulla parte interessata, deve nondimeno rilevarsi che la questione trova il suo fondamento in dati conoscitivi ineludibili, che devono dunque formare oggetto di analisi e di verifica, quale primaria garanzia posta dalla disciplina dettata in materia di mandato di arresto europeo (sul punto si rinvia specificamente a Cass. Sez. 6, n. 8529 del 13/1/2017, Fodorean, rv. 269201, nonché analogamente a Cass. Sez. 6, n. 51067 del 7/11/2017, Mihai, non mass.).

Va infatti rimarcato che nei confronti della Bulgaria la Corte di Straburgo ha pronunciato una sentenza c.d. pilota (Neshkov contro Bulgaria del 27/1/2015), con la quale ha assegnato un termine di diciotto mesi per l’adozione di misure volte a risolvere il problema strutturale degli istituti carcerari, derivante da sovraffollamento e indisponibilità di spazio vitale e inadeguatezza delle condizioni
igieniche e di vivibilità.

D’altro canto, dopo che una prima analisi degli organi competenti non aveva condotto ad un giudizio pienamente soddisfacente, non risulta ancora pubblicato il rapporto riguardante l’esito della più recente verifica effettuata dal CPT nei mesi di settembre e ottobre 2017, cosicchè non si dispone di fonti conoscitive certamente rassicuranti.

A tale stregua, posto che condizioni carcerarie inadeguate danno luogo a trattamenti inumani o degradanti e costituiscono dunque potenziale motivo di rifiuto della consegna, occorre che lo Stato che ha emesso il M.A.E. indichi lo specifico trattamento penitenziario cui sottoporrà il consegnando, assicurando il necessario spazio vitale e idonee condizioni di vivibilità, da valutarsi in relazione
al complessivo regime penitenziario previsto, fermo restando che le dimensioni della cella devono assicurare quanto specificamente previsto nella più recente sentenza della Corte di Strasburgo, Mursic contro Croazia del 20/10/2016.

Sulla scorta degli elementi che precedono la Corte territoriale, come di recente ritenuto in un caso analogo (Cass. Sez. 6, n. 52236 del 10/11/2017, Gramatikov, non mass.), avrebbe dovuto applicare i principi enucleati dalla sentenza del 5/4/2016, in causa Aranjosi, della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nei termini attuativi delineati dalla sentenza della Corte di cassazione, sez. 6, n. 23277 del 1/6/2016, Barbu, rv. 267296, rivolgendo all’A.G. dello Stato di emissione mirate e specifiche richieste di informazioni, volte a verificare lo stato detentivo cui sarebbe stato concretamente esposto il ricorrente Y in rapporto alla configurabilità di situazioni di rischio di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti, discendendo da ciò le ulteriori conseguenze parimenti indicate nella citata sentenza Barbu.

Per questa parte dunque si impone l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Milano, perché dia corso agli accertamenti indicati.

3. L’ultimo motivo di ricorso è manifestamente infondato, in quanto il tema dell’assenza riguarda il giudizio di merito, destinato a verificare la colpevolezza dell’imputato, fermo restando che nel caso di specie il ricorrente si è limitato a dar conto genericamente della propria assenza, senza sottolineare che egli si era
consapevolmente allontanato dal domicilio conosciuto per trovare riparo altrove.

Deve inoltre rilevarsi che il motivo di ricorso non contesta in alcun modo il presupposto della disposta commutazione della pena, costituito dalla riconosciuta inosservanza delle prescrizioni originariamente imposte, disvelando così mancanza di concreto interesse ad una specifica impugnazione della decisione,
fondata sugli automatici criteri di ragguaglio applicati.

4. In conclusione il ricorso va accolto nei limiti di quanto sopra esposto al punto 3 del «Considerato in diritto», con rigetto nel resto.

P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata relativamente alla questione del trattamento carcerario e rinvia per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Milano.

Rigetta nel resto il ricorso.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 22, comma 5, legge 69 del 2005
Così deciso 1’11/1/2018