L'aggravante dei motivi futili sussiste quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione delittuosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale: la sola manifestazione, per quanto parossistica e ingiustificabile, di gelosia può non integrare il motivo futile quando si tratti di una spinta davvero forte dell'animo umano collegata ad un desiderio di vita in comune: costituisce, invece, motivo abietto o futile quando sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza e di cui va punita l'insubordinazione.
Peraltro, il giudizio sulla futilità del motivo non può essere riferito ad un comportamento medio, stante la difficoltà di definire i contorni di un simile astratto modello di agire, ma va ricondotto agli elementi del caso concreto, tenendo conto dei fattori personali e ambientali e del contesto spaziale e temporale in cui il fatto si è verificato.
Le attenuanti generiche non sono un diritto, nemmeno dell'imputato incensurato, ma devono essere ricondotte a elementi di fatto positivamente emersi, atti a giustificare una mitigazione del trattamento sanzionatorio: in questo contesto possono essere valorizzati la confessione dell'imputato, o aver commesso il delitto con dolo d'impeto indotto da stati emotivi in una personalità fragile con disturbi dell'adattamento, ..
Corte d’Assise d’Appello di Bologna
sez. I Penale, sentenza 14 novembre 2018 – 8 febbraio 2019, n. 29
Presidente Pescatore - Relatore Zavatti
Svolgimento del processo
Con sentenza dell'11 dicembre 2017 il Gup del Tribunale di Rimini, all'esito di giudizio abbreviato, condannava Mi. Ca. alla pena di trent'anni di reclusione per l'omicidio, aggravato dai motivi abietti e futili, di Ol. Ma., avvenuto in Riccione il 5 ottobre 2016. Condannava inoltre l'imputato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili (figlia, sorella e marito separato della vittima), rimettendone la liquidazione al giudice civile e stabilendo una provvisionale immediatamente esecutiva di 350.000 Euro per la figlia, 100.000 Euro per la sorella e 30.000 Euro per il marito.
Il cadavere della donna veniva rinvenuto nella tarda mattinata del 6 ottobre 2016 all'interno del suo appartamento, presentava all'altezza del collo un taglio superficiale senza fuoruscita di materiale ematico che lasciava supporre uno strangolamento, modalità di uccisione che era confermata dal medico legale, secondo cui la donna era stata strozzata a mani nude. La responsabilità dell'omicidio era immediatamente attribuita all'imputato, il quale quella stessa mattina, intorno alle 7, aveva inviato un SMS ad una cartomante dalla quale da qualche tempo si recava per avere pronostici e indicazioni sulle sue relazioni sentimentali: nel messaggio Ca. avvisava la donna di aver ucciso la Ma. e di avere intenzione di suicidarsi (il testo del messaggio era il seguente "ciao lory, cambia lavoro, l'ho uccisa e mi sto togliendo la vita, non indovini un cazzo"). La cartomante aveva subito avvisato le forze dell'ordine, che dapprima si erano recate a casa dell'imputato, dove l'uomo era trovato disteso sul letto in stato di sopore (i CC, non riuscendo a svegliarlo, facevano intervenire il 118 che lo portava al pronto soccorso dell'ospedale di Cesena); successivamente a casa della Ma. dove, appunto, veniva rinvenuto il suo cadavere.
Nell'abitazione dell'imputato veniva rinvenuto un foglio manoscritto, indirizzato ai suoi figli, nel quale affermava di aver ucciso la donna che amava alla follia e manifestava l'intento di togliersi la vita.
L'imputato, sottoposto a fermo di indiziato di delitto, rendeva immediatamente ampia confessione al pubblico ministero. In particolare dichiarava di aver conosciuto la donna poco più di un mese prima e che da subito era scattato un reciproco colpo di fulmine; il loro rapporto era stato ottimo, ma si era verificata una incrinatura la sera del 4 ottobre quando lui aveva notato che sul cellulare di Ol. era arrivato il messaggio di un uomo, il messaggio non aveva un contenuto compromettente (e la donna gli aveva detto che si trattava di un amico) ma lui si era fatto "prendere dalla gelosia", avevano litigato e lui se n'era andato; poco dopo essere giunto a casa propria la Ma. lo aveva chiamato supplicandolo di ritornare, lui era tornato e si erano rappacificati; durante la notte, però, alla donna erano arrivati altri messaggi da altri uomini, circostanza che lo aveva fatto nuovamente arrabbiare sicchè intorno alle 4 del mattino si era definitivamente allontanato. La mattina successiva, avendo dimenticato a casa della Ma. una catenina, era tornato per riprenderla, arrivando intorno alle 13 e avevano avuto una nuova discussione riguardante i messaggi che lei riceveva da altri uomini.
Nel tardo pomeriggio, intorno alle ore 17-18 era nuovamente tornato a Riccione per parlarle, siccome Ol. non era in casa l'aveva aspettata davanti casa fino al suo rientro, avvenuto intorno alle 19:20. Una volta entrati si erano messi a parlare e a bere del vino, lui le aveva confidato le proprie insicurezze in amore conseguenza del fallimento del suo matrimonio, dovuto ai tradimenti della moglie; la Ma. aveva mostrato poca comprensione indifferenza e gli aveva chiesto di andarsene, avevano nuovamente litigato e ad un certo punto lui aveva "perso la testa perché lei non voleva più stare con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro. L'ho stretta al collo e l'ho strangolata. ".
Una volta tornato a casa aveva preso del vino con dentro il farmaco Aulin per uccidersi. Nell'udienza di convalida del fermo davanti al GIP Ca. confermava sostanzialmente quanto dichiarato al pubblico ministero, con alcune precisazioni, aggiungeva solo un particolare, a suo dire tornatogli alla mente in un secondo momento, e cioè che mentre litigavano lui le aveva detto che avrebbe fatto di tutto per lei, al che la Ma., in tono provocatorio, aveva ribattuto: "anche ammazzarmi?". Era stato in quell'attimo che gli era scattato l'istinto omicida.
Il giudice disponeva perizia medico psichiatrica per verificare la capacità di intendere e di volere dell'imputato al momento del fatto.
Dagli accertamenti svolti dal perito prof. Ar. emergeva un passato di problematiche relazioni sentimentali (l'imputato era stato tradito dalla moglie e successivamente anche da una seconda compagna, con la quale aveva anche convissuto.. Dalla cartella clinica, risalente all'anno 2013, risultava che quell'anno Ca. si era rivolto al centro di salute mentale a causa di "forte ansia, crisi di panico, insonnia persistente e pensieri intrusivi", condizione che era stata correlata alle problematiche connesse alla separazione dalla moglie. Lo psichiatra che lo aveva curato aveva ipotizzato un disturbo dell'adattamento con sintomi ansiosi, prescrivendo una terapia farmacologica.
Nel marzo 2014 Ca. aveva posto in essere un tentativo di suicidio, assumendo un flacone di benzodiazepine con un superalcolico e inalando gas metano, gesto che era stato collegato alla rottura della relazione con la nuova compagna. In quella circostanza C era stato ricoverato in un reparto psichiatrico ospedaliero e anche sottoposto ad un TSO, dopo essere diventato agitato e minaccioso nei confronti del personale sanitario.
Durante il ricovero l'imputato era stato sottoposto a una valutazione neuropsicologica con somministrazione di test, che avevano evidenziato prestazioni nella norma, o superiori, rispetto alla capacità di controllare la risposta automatica, la capacità di inibire le risposte impulsive, la velocità nella fase esecutiva di un compito.
La diagnosi alla dimissione dall'ospedale era stata di "disturbi di personalità non specificati, intossicazione alcolica idiosincratica e disturbo dell'adattamento con umore depresso. Anche dopo la misura cautelare Ca., che in carcere aveva smesso di alimentarsi allo scopo, dichiarato, di lasciarsi morire, era stato mandato in osservazione presso il reparto penitenziario psichiatrico di Piacenza.
Secondo il perito l'imputato non presentava patologie psichiatriche strutturali né chiari segni di disturbo della personalità. Le esperienze di vita potevano aver amplificato il tratto della personalità relativo alla gelosia e alla diffidenza verso le donne e aver rinforzato, nella sua percezione, la paura di un possibile imminente abbandono o tradimento, al punto da doversi far rassicurare da una figura come quella della cartomante; tuttavia non vi erano segni di alcuna patologia, il gesto omicida era scaturito da una crescente sensazione di impotenza e dall'incapacità di accettare la fine del rapporto, ma non si coglievano segnali di malattia mentale tale da inficiare la capacità di autodeterminazione.
In buona sostanza, l'omicidio era frutto di uno stato d'animo turbato, tormentato dal dubbio, provato dalle precedenti esperienze di vita e sfociato in una reazione rabbiosa di fronte all'atteggiamento di chiusura della donna ma, al di là di questa "soverchiarne tempesta emotiva e passionale, non sembra possibile scorgere nel Ca. alcuna alterazione rilevante in termini di psicopatologia ai fini della capacità di intendere e di volere". Il giudizio sulla piena capacità di intendere e di volere al momento del fatto era condiviso anche dal consulente tecnico della difesa, dr. Arcangeli, che riconduceva anch'egli l'azione omicida ad una manifestazione impulsiva esorbitante, agita nella sfera degli stati emotivi e passionali.
Alla luce di tali emergenze processuali il giudice, rilevando che gli stati emotivi e passionali che non si inseriscano in un quadro di infermità sono ininfluenti ai fini della imputabilità, riteneva sussistente la responsabilità del Ca. e sussistente l'aggravante dei motivi abietti e futili, sostanzialmente ammessi dallo stesso imputato, che aveva spiegato il gesto col fatto che la donna non lo voleva ascoltare e aveva manifestato l'intenzione di lasciarlo. La gelosia, richiamata dalla difesa per chiedere l'esclusione dell'aggravante, deve fondarsi su una situazione reale e non su una pretestuosa rappresentazione della realtà.
Quanto alla pena, il giudice escludeva l'applicabilità delle attenuanti generiche in assenza di circostanze di segno positivo che potessero influire sul trattamento sanzionatorio. In particolare, non era tale la confessione, in quanto l'imputato aveva lasciato sulla scena del crimine una tale mole di indizi che avrebbero portato facilmente alla sua individuazione; il tentativo di suicidio attuato poco dopo l'omicidio era stato un gesto teatrale pressoché insignificante e inidoneo a cagionare la morte; le problematiche emotive evidenziate dagli esperti erano legate a eventi comuni alla vita di ogni persona; la valutazione neuropsicologica durante il ricovero ospedaliero del 2014 aveva posto in evidenza prestazioni addirittura superiori alla media nella sfera dell'autocontrollo, sicchè la perdita di controllo nella gestione dell'impulso violento sfociata nell'omicidio era dipesa, più che da un incontenibile turbamento emotivo, dai fumi dell'alcol che, che per sua stessa ammissione, gli facevano perdere la ragione.
La pena veniva quindi determinata nell'ergastolo, con riduzione a trent'anni per il rito abbreviato.
Motivi di appello
La sentenza era appellata dal difensore dell'imputato che chiedeva:
1) L'esclusione delle aggravanti o comunque il riconoscimento delle attenuanti generiche, con rideterminazione della pena nel minimo.
L'omicidio era stato commesso rapidamente, senza fare soffrire la vittima che aveva impiegato pochi minuti a morire, come dimostrato dall'assenza quasi totale di petecchie congiuntivati e cutanee nonché di altri segni interni, come l'enfisema polmonare acuto e l'iperemia viscerale diffusa, che invece sono presenti quando l'azione di strozzamento è prolungata.
Inoltre, considerati i precedenti psichici dell'imputato, l'impulso che lo aveva indotto a delinquere non poteva essere considerato così banale da integrare il motivo futile; le tragedie della sua vita avevano limitato enormemente le sue risorse psichiche di fronte ad una situazione di frustrazione; la gelosia del Ca. si doveva quindi ritenere patologica, in quanto le sue esperienze di vita lo avevano portato a sviluppare una iper-vigilanza e un'abnorme diffidenza e preoccupazione per possibili tradimenti o abbandoni.
La gelosia, inoltre, non era neppure motivo così ripugnante da potersi qualificare come abietto.
In ogni caso tali elementi, uniti alla confessione del Ca., avrebbero dovuto indurre il giudice ad applicare le attenuanti generiche per lo meno equivalenti.
2) L'applicazione di una pena più mite, stante l'incensuratezza dell'imputato, la collaborazione con gli inquirenti manifestata con la immediata confessione, il tentativo di risarcire, per quanto possibile, la figlia minore della vittima, le sue problematiche psicologiche.
3) La riduzione delle spese legali liquidate alle parti civili Ni. Pa., sorella della vittima e Ca. Ma., marito separato e del risarcimento danni, considerato che i rapporti con la vittima delle due parti civili erano pressoché inesistenti e le loro richieste risarcitorie non dimostrate.
Motivi della decisione
Ritiene la Corte che la sentenza vada riformata, dovendosi riconoscere all'imputato le circostanze attenuanti generiche.
L'aggravante contestata appare integrata e provata.
L'aggravante dei motivi futili sussiste quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione delittuosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (ex multis, Casso Sez. I n. 29377 dell'8/5/2009.
La sola manifestazione, per quanto parossistica e ingiustificabile, di gelosia può non integrare il motivo futile quando si tratti di una spinta davvero forte dell'animo umano collegata ad un desiderio di vita in comune: costituisce, invece, motivo abietto o futile quando sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza e di cui va punita l'insubordinazione (Cass. sez. I n. 18779 del 27/3/2013; sez. V n. 3536812006).
Peraltro, il giudizio sulla futilità del motivo non può essere riferito ad un comportamento medio, stante la difficoltà di definire i contorni di un simile astratto modello di agire, ma va ricondotto agli elementi del caso concreto, tenendo conto dei fattori personali e ambientali e del contesto spaziale e temporale in cui il fatto si è verificato.
Ebbene, applicati tali condivisibili principi al caso di specie, si osserva che la relazione fra l'imputato e la vittima era sorta poco più di un mese prima dell'omicidio, quando i due si erano conosciuti in una locale pubblico e avevano iniziato a frequentarsi, sempre però continuando ciascuno a vivere a casa propria.
La vittima aveva raccontato all'imputato che usciva da una relazione con un uomo sposato e che in passato era stata sposata con un italiano, col quale avevano anche adottato una bambina.
Due sere prima dell'omicidio, mentre Ca. si trovava a casa della donna, la Ma. riceveva sul cellulare un messaggio da parte di un amico, messaggio che non era per nulla compromettente ma l'imputato si era "fatto prendere dalla gelosia"1 e se n'era andato irritato. Lei l'aveva richiamato convincendolo a tornare, sennonchè durante la notte sul cellulare della Ma. erano arrivati altri messaggi da altri uomini, che avevano fatto nuovamente arrabbiare l'imputato, il quale alle 4:00 del mattino era definitivamente uscito di casa.
Intorno alle 13 Ca. era tornato dalla donna a riprendere una catenina che si era dimenticato li e avevano ancora discusso dei messaggi che lei riceveva da uomini che la corteggiavano. Ca. era ritornato ancora nel tardo pomeriggio, avevano ripreso a parlare e lui le aveva confidato le proprie insicurezze, dovute ai tradimenti subiti dalla moglie e da un'altra compagna. La donna era sembrata indifferente alle sue fragilità e insofferente per l'accomunamento della sua condotta a quella delle precedenti compagne (gli aveva detto qualcosa come "non mi puoi paragonare a quelle puttane") ma non aveva espresso alcuna intenzione di lasciarlo (3); ciò nonostante l'imputato, evidentemente per il timore di essere lasciato, la strangolava (4).
Orbene, così ricostruite le concrete circostanze del fatto non può non osservarsi anzitutto che la relazione fra i due, che non erano adolescenti al primo innamoramento, ma persone mature e con plurime esperienze sentimentali alle spalle, era freschissima e ciascuno continuava a vivere a casa propria: certamente, dunque, era in una fase in cui non vi era stata neanche la semplice prospettazione di un progetto di vita in comune (di cui peraltro l'imputato non ha mai parlato).
In secondo luogo si rileva che la Ma. non aveva fornito a Ca. alcun concreto motivo per essere geloso, non potendosi ritenere tali i messaggi di contenuto innocuo che ella ricevette la notte fra il 4 e il 5 ottobre.
In terzo luogo va sottolineato che solo nella testa dell'imputato aveva preso piede, peraltro improvvisamente e solo nel corso di quella discussione, l'idea che (anche) lei lo avrebbe lasciato, giacchè la Ma. non vi fece alcun accenno, limitandosi a mostrare una certa (comprensibile) insofferenza di fronte a quel comportamento irrazionale e immotivatamente geloso dell'imputato.
Dunque, anche ammesso che l'azione omicidiaria sia stata cagionata da un moto di gelosia, si trattò comunque di uno stato d'animo improvviso e passeggero, privo di alcun fondamento e, soprattutto, non determinato da un sentimento di profondo attaccamento per una donna con la quale vi erano seri progetti di vita.
In realtà essa fu l'espressione di un intento meramente punitivo nei confronti di una donna che si mostrava poco sensibile per le sue fragilità e che - con tale atteggiamento- gli lasciava immaginare di potersi stancare della relazione e di decidere di lasciarlo.
Per tali ragioni va condivisa la decisione del primo giudice e confermata la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 numero I c.p..
La sentenza non può invece essere condivisa nella decisione di negare l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Come noto, le attenuanti generiche non sono un diritto, nemmeno dell'imputato incensurato, quale è il Ca., ma devono essere ricondotte a elementi di fatto positivamente emersi, atti a giustificare una mitigazione del trattamento sanzionatone.
Nella specie la Corte ritiene di dover attribuire tale valore alla confessione dell'imputato, non tanto per quanto riguarda l'ammissione di responsabilità, posto che effettivamente, come osservato dal primo giudice, una volta scoperto il cadavere della Ma. gli investigatori sarebbero facilmente giunti ad individuare nell'imputato il responsabile dell'omicidio 5, quanto perché nelle dichiarazioni da lui rese sin da subito al Pubblico Ministero e poi confermate al Gip fu lo stesso Ca. a fornire, sostanzialmente, la prova dell'aggravante dei motivi abietti o futili, che verosimilmente non sarebbe stata contestata se egli non avesse parlato della sua gelosia e delle discussioni nell'ultimo fatale incontro. Inoltre sebbene quel sentimento fosse certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell'imputato, tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse come "una soverchiarne tempesta emotiva e passionale", che in effetti si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio 6: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale (cfr. Cass. n. 7272 del 5 aprile 2013).
Infine, nonostante l'operazione non sia stata portata a termine, l'imputato in qualche modo ha tentato di iniziare a risarcire la figlia minore della vittima e tale comportamento lascia intravedere una presa coscienza dell'enormità dell'azione compiuta.
Si tratta di elementi di fatto che si ritengono idonei a giustificare l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza (non di prevalenza, data l'estrema gravità della condotta) con la contestata aggravante.
La pena viene quindi rideterminata nella misura di 16 anni di reclusione (partendo da una pena base di 24 anni, che è commisurata alla brutalità dell'omicidio, commesso a mani nude e pertanto con un'azione prolungata).
Infine, risultano inammissibili le generiche doglianze relative alle statuizioni civili, in quanto l'appellante non indica gli specifici motivi per cui non dovrebbero essere risarciti l'ex marito e la sorella della Ma. (persone con le quali la donna aveva rapporti oltre che di affetto anche di frequentazione assidua, con l'ex coniuge per le visite e gli affidamenti della figlia, con la sorella perché costei utilizzava il suo appartamento per incontrare il fidanzato), né quelle per le quali l'importo di Euro 3500 per onorari di avvocato sarebbe eccessivo in un processo per omicidio volontario.
La conferma della sentenza in punto di responsabilità comporta la condanna dell'appellante al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili nel presente grado di giudizio, che vengono liquidate nell’importo indicato in dispositivo, adeguato alla durata e complessità limitate dell'impegno richiesto ai difensori.
P.Q.M.
Visti gli articoli 581, 591 comma I lett. c) e 605 c.p.p.
in parziale riforma dell'impugnata sentenza, concesse le circostanze attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata aggravante, ridetermina la pena in anni 16 reclusione;
dichiara inammissibile il motivo di appello relativo alle statuizioni civili.
Conferma nel resto.
Condanna l'appellante alla rifusione delle spese sostenute per il presente grado di giudizio dalle parti civili, liquidate in Euro 1650 per Pa. Ni. e complessivi Euro 2000 per Ca. Ma. e Ca. Ma. Da. per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Indica in giorni 90 il termine di deposito della sentenza.
Visti gli articoli 304 co. 1 lett. c) e 544 comma 2 e 3 c.p.p., sospende i termini di custodia cautelare per il medesimo tempo indicato ai fini della redazione della presente sentenza.
1 In carcere l'imputato cercò di intestare alla figlia della persona offesa la sua parte degli immobili di cui è comproprietario con i fratelli, senza riuscirvi a causa della mancata autorizzazione del giudice tutelare; fece testamento lasciando come unica erede la figlia della persona offesa.
2 Così nell'interrogatorio al pubblico ministero del 6 ottobre 2016.
3 Nel corso dell'interrogatorio davanti al Gip il 10 ottobre 2016 alla domanda del giudice se la Ma. gli avesse detto di non voler avere più nulla a che fare con lui, l'imputato rispose: "no, questo no, non siamo arrivati a dire questo, solo che lei mi ha dello 'adesso devo andare a prendere la bambina perché stasera sta con me mia figlia, tant'è vero che ho detto 'aspetto, così dopo finiamo di parlare' (...) E poi mentre si discuteva sono uscite queste famose parole 'io sono disposto a lutto per te'.. 'anche ad uccidermi? ' lei ha detto, non lo so perché gli è uscita quella frase, sarà stato qualche interruttore che...L'ho strangolata... ".
4 Nel corso dell'interrogatorio al pubblico ministero Ca. disse: "ho perso la testa perché lei non mi voleva dare ascolto. Ricordo che mentre la strangolavo le dicevo 'devi essere mia e di nessun altro '. Quando l'ho incontrata volevo solo chiarire e i due motivi che mi hanno fatto perdere la testa sono stati il fatto che lei non mi stava a sentire e mi voleva lasciare..
5 L'imputato inviò gli 3M3 all'amica cartomante, era stato notato camminare avanti e indietro davanti all'abitazione della vittima dalla parrucchiera del negozio di fronte, la loro relazione era nota anche alla sorella della Ma..
6 Teatrale perché chi si vuole effettivamente uccidere non manda un 3MS ad un'altra persona per avvisarla di quanto sta facendo. Nonostante tale giudizio, non si ritiene tuttavia che il tentativo sia stato posto in essere dal Ca. per captare la benevolenza, non ravvisandosi nella sua personalità e condotta quel necessario carattere di spregiudicatezza o malizia.