Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Tutela del lavoratore e obblighi del datore di lavoro in caso di rapina (Cass. 20364/19)

26 luglio 2019, Cassazione civile

L’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare le condizioni di lavoro, riveste il ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

L'articolo 20187 CC non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. La natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 c.c., è ormai da tempo consolidata; l’incorporazione dell’obbligo di sicurezza all’interno della struttura del rapporto obbligatorio non rappresenta una mera enclave della responsabilità aquiliana nel territorio della responsabilità contrattuale, relegata sul piano del non facere ma è, invece, fonte di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore il quale è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa, talché è possibile per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 c.c.).

 

Corte di Cassazione

sez. Lavoro, ordinanza 11 aprile – 26 luglio 2019, n. 20364
Presidente Nobile – Relatore Piccone

Rilevato in fatto

che: - con sentenza in data 11 luglio 2013, la Corte d’Appello di Catanzaro, in riforma della decisione del giudice di primo grado, ha respinto la domanda avanzata da C.G. nei confronti di Poste Italiane S.p.A., volta ad ottenere il risarcimento del danno asseritamente derivatogli per non aver il datore di lavoro adottato, ai sensi dell’art. 2087 c.c., tutte le cautele atte a scongiurare la rapina di cui era stato vittima e che gli aveva cagionato danni alla salute per effetto dell’aggressione fisica occorsagli; - in particolare, la Corte, dopo una ricostruzione della responsabilità ex art. 2087 c.c., ha ritenuto del tutto adeguate le misure adottate da Poste Italiane S.p.A., anche alla luce del D.M. 10 febbraio 1992, relativo alla protezione degli uffici e servizi postali, a tutela dei lavoratori e del patrimonio, consistenti, secondo le dichiarazioni testimoniali raccolte, in vetri blindati e in una doppia porta alternata posti all’ingresso dell’ufficio, escludendo la sussistenza di una responsabilità della datrice per non aver predisposto una vigilanza armata; - per la cassazione della sentenza propone ricorso, corredato da memoria, C.G. , affidandolo a due motivi cui ha opposto difese l’intimata.

Considerato in diritto

che:

- con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 2087, 1218 e 2697 c.c., per aver ritenuto la Corte che, in caso di corretta adozione delle misure di sicurezza di cui al D.M. 10 febbraio 1992, in parziale deroga all’art. 2697 c.c., graverebbe sul lavoratore l’onere probatorio in ordine alla fattispecie costitutiva prevista dalla norma impositiva della misura stessa oltre che del nesso di causalità tra l’inosservanza della misura ed il danno subito, deducendo, altresì, con riguardo all’art. 2087 c.c., che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare misure più nuove e tecnologicamente avanzate, non esistenti all’epoca dell’adozione del decreto ministeriale;

- il motivo è infondato;

- contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, infatti, la motivazione del giudice d’appello non attribuisce all’adozione delle cautele di cui al decreto ministeriale alcun valore di automatico esonero da responsabilità per il datore (da cui sarebbe scaturita la dedotta violazione di legge) ma, piuttosto, la Corte, accertata la sussistenza del danno ed il nesso causale con l’attività svolta, ha ritenuto soddisfatto l’adempimento dell’obbligo di sicurezza in ragione della adeguatezza dei vetri blindati e della doppia porta alternata posti all’ingresso, reputando, altresì, inesigibile in ragione dei costi la vigilanza armata e scarsamente dissuasiva la videosorveglianza;

- come osservato, conformemente a costante giurisprudenza di legittimità da Cass. n. 8911 del 10 gennaio 2019, la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 c.c., è ormai da tempo consolidata; l’incorporazione dell’obbligo di sicurezza all’interno della struttura del rapporto obbligatorio non rappresenta una mera enclave della responsabilità aquiliana nel territorio della responsabilità contrattuale, relegata sul piano del non facere ma è, invece, fonte di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore il quale è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa, talché è possibile per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 c.c.);

- l’art. 2087 c.c., riveste il ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (v., tra le tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 644; Cass. 1 febbraio 2008, n. 2491; Cass. 23 settembre 2010, n. 20142; Cass. 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742);

- è vero che la norma in esame ha anche una “funzione dinamica”, in quanto norma diretta a spingere l’imprenditore ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro, tuttavia la responsabilità datoriale non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei dipendenti (e di correlativo pericolo);

- l’art. 2087 c.c., non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore;

- d’altro canto, non può desumersi dalla disposizione medesima un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro del tutto privo di rischi quando di per sé il pericolo di una determinata eventualità non sia eliminabile;

- nel caso di specie, la adozione di vetri blindati e della doppia porta nell’ingesso dell’Ufficio postale sono stati reputati strumenti adeguati dal giudice d’appello con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità;

- come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 15 giugno 2016, n. 12347; Cass. 10 giugno 2016, n. 11981) non si può automaticamente far discendere, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto, violazione ritenuta congruamente non ricorrente nel caso di specie;

- dal punto di vista della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre - in parziale deroga al principio generale stabilito dall’art. 2697 c.c. - non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, nonostante concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento;

- diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza - asseritamente omesse - siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante, come nel caso di specie il Decreto ministeriale del 1992), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza;

- nel primo caso - riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate” - il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa - ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere ed inoltre il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito: per il datore la prova liberatoria si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno;

- nel secondo caso - in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette “innominate” la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standards” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (v. Cass. 25 maggio 2006, n. 12445; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3033; Cass. 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4084; Cass. 31 ottobre 2018, n. 27964);

- la Corte d’appello ha, quindi, correttamente interpretato nei termini della giurisprudenza di legittimità le disposizioni normative invocate;

- in ordine, poi, alla omessa motivazione su un fatto decisivo, consistente nell’esame delle risultanze istruttorie acquisite nel giudizio di secondo grado, da cui emergerebbe l’impossibilità di attivare sistemi antirapina dalla stanza in cui si trovava il ricorrente ed altri aspetti fattuali, si tratta, come appare evidente, di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, l’impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione è stata limitata alla sola ipotesi di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto "minimo costituzionale" richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato "in negativo" dalla consolidata giurisprudenza della Corte - formatasi in materia di ricorso straordinario;

- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le altre, Cass. n. 23940 del 2017);

- nel caso di specie, la parte si sofferma, invero, sostanzialmente sulla ricostruzione in fatto della vicenda e delle sue conseguenze - deducendo l’omesso esame di circostanze rilevanti - e mira ad ottenere una rivisitazione del merito di aspetti rimessi all’insindacabile valutazione del giudice di merito; - parte ricorrente mira ad ottenere, infatti, una rivalutazione del merito della controversia ed in particolare della valutazione delle prove che spetta esclusivamente al giudice di merito il quale, peraltro, con motivazione immune da vizi logici ha dato perfettamente contezza delle ragioni che l’hanno indotto a ritenere soddisfatti i requisiti di cui all’art. 2087 c.c., ed al D.M. 10 febbraio 1992;

- il motivo, deve, quindi, essere ritenuto inammissibile; - alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va respinto;

- le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;

- sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 1 bis, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.