Corteggiamento ossessivo e petulante, volto ad instaurare un rapporto comunicativo e confidenziale con la vittima, a ciò manifestamente contraria, realizzato mediante una condotta di fastidiosa, pressante e diffusa reiterazione di sequenze di saluto e contatto, invasive dell'altrui sfera privata, con intromissione continua, effettiva e sgradita nella vita della persona offesa e lesione della sua sfera di libertà: è reato.
Corte di Cassazione
sez V penale, ud. 8 giugno 2023 (dep. 20 settembre 2023), n. 38448
In fatto e in diritto
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Milano confermava la sentenza con cui il tribunale di Milano, in data 17.11.2021, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato D.M.I. alla pena ritenuta di Giustizia, in relazione al reato di cui all'art. 612 bis, c.p., in rubrica ascrittogli, commesso in danno di G.L., attraverso una serie di molestie poste in essere sul luogo di lavoro, nel tentativo, da parte dell'imputato, di dare vita a una relazione sentimentale con la G., che vi si opponeva.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputato, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di inadeguata valutazione delle risultanze processuali; 2) violazione di legge in punto di affermata sussistenza dell'elemento psicologico del reato; 3) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di mancata considerazione dell'intervenuto risarcimento del danno derivante da reato in favore della persona offesa; 4) vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena irrogata.
3. Con requisitoria scritta del 17.5.2023, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, Dott.ssa Lucia Odello chiede che il ricorso venga accolto, limitatamente al quarto motivo di impugnazione, e rigettato nei restanti motivi.
4. Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
4.1. Invero, il ricorrente non tiene nel dovuto conto che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Cass., Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).
Ed invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla L. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dal ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
La corte territoriale, del resto, ha reso una motivazione del tutto esente dai denunciati vizi.
Come è noto, secondo quanto affermato dal Supremo Collegio nella sua espressione più autorevole, le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, non trovando applicazione nei confronti della persona offesa le regole di valutazione della prova dettate dall'art. 192, comma 3, c.p.p., previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che, peraltro, deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (cfr. Cass., sez. un., 19/07/2012, n. 41461, rv. 253214).
Nel solco della decisione delle Sezioni Unite si inseriscono ulteriori arresti in cui si evidenzia, da un lato, la necessità che il giudice, nella valutazione delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata (cfr. Cass., sez. 5, n. 1666 dell'8.7.2014, rv. 261730); dall'altro, che, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, nè assistere ogni segmento della narrazione (cfr. Cass., sez. 5, n. 21135 del 26.3.2019, rv. 275312).
Procedere al riscontro delle dichiarazioni della persona offesa attraverso elementi estrinseci, ritenuto nell'arresto delle Sezioni Unite in precedenza indicato, semplicemente opportuno solo nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, non configura, peraltro, un vero e proprio obbligo a carico del giudice di merito, che rimane libero di valutare se la narrazione della persona offesa abbisogni o meno di elementi di riscontro estrinseci, risultando del tutto ragionevole escluderne la necessità in caso di giudizio positivo sulla credibilità personale della parte civile e sulla attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni, in termini di precisione, costanza ed intrinseca coerenza logica del narrato, ed in mancanza di elementi di segno contrario.
Spetta, pertanto, al giudice di merito procedere ad un esame critico delle risultanze processuali, ai fini della verifica, innanzitutto, della credibilità personale della parte civile e dell'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di quest'ultima, da condurre con particolare rigore in quanto portatrice di un interesse economico in conflitto con l'interesse dell'imputato.
Nel suo percorso argomentativo il giudice di merito dovrà, inoltre, accertare l'eventuale sussistenza di risultanze processuali in grado di smentire le dichiarazioni della parte civile, cioè di inficiarne il contenuto rappresentativo.
E sarà tenuto a ricercare eventuali riscontri estrinseci solo in presenza di elementi acquisiti al processo, in grado di porre fondatamente in dubbio la genuinità del narrato della persona offesa, costituita parte civile.
Orbene la corte territoriale ha fatto buon governo di tali regole, giungendo ad un giudizio positivo in termini di attendibilità intrinseca del narrato della persona offesa, che si riverbera implicitamente anche sul profilo della credibilità personale della stessa, all'esito di un'articolata ed esaustiva motivazione, individuando, peraltro, anche riscontri oggettivi al narrato di quest'ultima, costituiti dalle dichiarazioni dei colleghi, che condividevano con la G. il luogo di lavoro, i quali, "in parte avevano assistito alle condotte censurate, in parte ne erano addirittura stati strumento, poiché D.M. una volta "bloccato" dalla persona offesa nei contatti telefonici e social, la raggiungeva con i suoi messaggi sgraditi e molesti (ed anche con regali) proprio per il tramite delle colleghe a lei più vicine" (cfr. pp. 4-5).
Va, pertanto, condiviso il giudizio espresso dal sostituto procuratore generale nella richiamata requisitoria scritta, secondo cui la corte territoriale ha fatto buon governo del principio affermato da questa Sezione in un condivisibile arresto, alla luce del quale integra il reato di molestie un corteggiamento ossessivo e petulante, volto ad instaurare un rapporto comunicativo e confidenziale con la vittima, a ciò manifestamente contraria, realizzato mediante una condotta di fastidiosa, pressante e diffusa reiterazione di sequenze di saluto e contatto, invasive dell'altrui sfera privata, con intromissione continua, effettiva e sgradita nella vita della persona offesa e lesione della sua sfera di libertà (cfr. Sez. 5, n. 7993 del 09/12/2020, Rv. 280495).
Del tutto generico e manifestamente infondato appare il secondo motivo di ricorso, posto che il ricorrente non si confronta realmente con la specifica motivazione resa sul punto dalla corte territoriale, che ha desunto, con logico argomentare, l'esistenza del dolo generico dalle modalità ripetitive delle singole condotte, ritenute sintomatiche della rappresentazione e volontà dell'imputato di attuare il proprio disegno criminoso di persecuzione della persona offesa.
Ed invero il dolo generico che connota l'elemento soggettivo del delitto di atti persecutori è integrato proprio dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (cfr. Cass., Sez. 5, n. 20993 del 27/11/2012, Rv. 255436) sicché, decisiva, nell'accertamento che il giudice di merito deve svolgere sul punto appare la ricostruzione delle modalità dell'azione criminosa.
E, sul punto, appare dotata di intrinseca coerenza logica l'argomentazione del giudice di appello, con cui si evidenzia che "se il D.M. in almeno due occasioni le aveva fatto regali per scusarsi del comportamento tenuto, è evidente che era perfettamente consapevole della lesività delle sue condotte e della loro idoneità a turbare la tranquillità della vittima" (cfr. p. 6), evento, quest'ultimo, compiutamente accertato nel suo verificarsi.
Inammissibile deve ritenersi il terzo motivo di ricorso, perché si tratta di motivo, innanzitutto, nuovo, come si evince dalla incontestata sintesi dei motivi di appello operata dalla corte territoriale, e generico, posto che il ricorrente non ha specificato sotto quale profilo della decisione assunta dal giudice di appello verrebbe a incidere l'accordo risarcitorio, che sarebbe intervenuto tra la persona offesa, non costituita parte civile, e l'imputato, di cui contesta la mancata considerazione.
Certo tale accordo, ove intervenuto, non mina l'attendibilità della persona offesa, che si fonda su di una pluralità di indici rivelatori e non solo sulla circostanza, evidenziata dalla corte di appello, che la G. non si è costituita parte civile, e nemmeno, come si dirà fra poco, sulla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Manifestamente infondato deve ritenersi l'ultimo motivo di ricorso.
Con motivazione affatto carente, manifestamente illogica o contraddittoria, la corte territoriale ha escluso che ricorrano nel caso in esame i presupposti per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena irrogata, alla luce della pervicacia della condotta del D.M. , quindi della intensità del dolo, in quanto egli ha proseguito nelle condotte moleste per un periodo di tempo prolungato e anche dopo la denuncia presentata dalla persona offesa e i provvedimenti aziendali adottati nei suoi confronti.
Si tratta di una decisione del tutto conforme all'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l'obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell'art. 133, c.p., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione, ivi compresi i precedenti penali, i precedenti giudiziari e le circostanze relative alla condotta di reato posta in essere (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 17953 del 7.2.2020; Cass., Sez. 5, n. 57704 del 14.9.2017, Rv. 272087; Cass., Sez. 3, n. 35852 dell'11.5.2016, Rv. 267639).
In applicazione di tali principi si è, pertanto, affermato, ad esempio, che, in una fattispecie di tentata estorsione, la particolare violenza che aveva connotato le condotte dell'imputato giustificava il giudizio negativo sulla prognosi necessaria per la concessione del beneficio (cfr. Cass., Sez. 2 n. 19298 del 15.4.2015, Rv. 263534).
5. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, che appare equo fissare in Euro 3000,00, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere il ricorrente medesimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
Va, infine, disposta l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi dell'art. 52, comma 5, D.Lgs. n. 30/06/2003 n. 196.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52, D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.