Commette il reato di peculato il Consigliere regionale che si appropria di fondi avuti dalla regione per le attività collegate ai lavori del consiglio e alle iniziative dei gruppi, atteso che l'amministratore non può essere considerato soggetto privato solo perché ha percepito i contributi attraverso il gruppo consiliare, ente di diritto privato, al quale la regione li ha trasferiti.
Si ha il peculato allorquando il pubblico ufficiale si appropria del denaro di cui abbia già il possesso anche solo mediato e gli artifici e raggiri sono realizzati soltanto per effettuare l'illegittima appropriazione oppure per occultarla; si ha invece la truffa allorquando gli artifici e raggiri costituiscono lo strumento per ottenere il possesso o la disponibilità del danaro che il pubblico ufficiale non ha. In particolare, si è affermato che l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o d'altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene.
CORTE DI CASSAZIONE
SEZ. VI PENALE - SENTENZA 25 luglio 2019, n.33831 - Pres. Petitti – est. Capozzi
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Genova, a seguito di gravame interposto dall'imputato C.L. avverso la sentenza emessa dal locale Tribunale in data 21.7.2017, in parziale riforma della decisione ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del predetto limitatamente ai reati di cui agli artt. 48 e 479 c.p. ascrittigli, in relazione alla redazione dei rendiconti approvati, perchè estinti per intervenuta prescrizione, con esclusione di quelli commessi in data (OMISSIS), ed ha rideterminato la pena inflitta in ordine ai reati di peculato aggravato ed ai predetti reati di falso ascritti in relazione alla appropriazione dei fondi erogatigli quale consigliere regionale della Liguria per contributo alle spese di acquisto di libri e riviste, per lo svolgimento di attività funzionalmente collegate ai lavori del Consiglio ed alle iniziative dei Gruppi, per consulenze, spese postali, telefoniche e di cancelleria, spese per il personale e di rappresentanza, allegando ai rendiconti annuali per gli anni 2008, 2009 e 2010 che approvava con il capogruppo G. 2235 documenti attestanti spese non effettivamente sostenute oppure sostenute da altri per il complessivo importo di Euro 191,547,77. 2.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato che con atto del difensore deduce: 2.1. Erronea applicazione degli artt. 314 e 357 c.p. non potendosi qualificare il Consigliere regionale quale pubblico ufficiale non avendo l'imputato svolto nella specie funzioni legislative, amministrative, autoritative o certificative, tenuto conto della natura privatistica dei gruppi consiliari rispetto ai quali le condotte tenute riguardano l'attività esterna. Inoltre, il trasferimento di denaro pubblico da parte della Regione Liguria in favore di un ente di diritto privato, come il gruppo consiliare, ha comportato il venir meno della natura pubblicistica delle risorse così trasferite.
2.2. Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 114 e 119 Cost., art. 121 Cost., comma 2, art. 122 Cost., comma 4, art. 123 Cost., comma 1 ravvisandosi una invasione della sfera di attribuzioni del Consiglio Regionale della Liguria da parte della magistratura ordinaria nella valutazione - oltre il criterio della ragionevolezza rispetto al fine istituzionale - delle spese già approvate dal Consiglio Regionale nonchè difetto di motivazione in relazione alla pertinente doglianza in appello.
2.3. Erronea applicazione ed inosservanza dell'art. 316 bis c.p. e difetto di motivazione versandosi - al più - nel caso di destinazione delle somme a finalità diverse da quelle previste, non valendo ad escludere l'ipotesi la errata qualità di pubblico ufficiale riconosciuta all'imputato. In ogni caso, dovendosi escludere la sussistenza oggettiva della condotta così qualificata in ragione della conformità delle spese alla previsione della L. R. n. 38 del 1990, art. 4 ed alla approvazione dei rendiconti da parte del gruppo e della commissione rendiconti, rispetto alle quali approvazioni nessuna ingerenza valutativa è consentita alla magistratura ordinaria.
2.4. Erronea applicazione ed inosservanza degli artt. 132 e 133 c.p. e artt. 192 e 546 c.p.p. in relazione alla determinazione della pena non essendo stato dato conto dei criteri dell'incremento per la continuazione pari a oltre la metà della pena base. 2.5. Erronea applicazione dell'art. 69 c.p., comma 2 e difetto di motivazione in relazione alla ritenuta equivalenza delle attenuanti generiche con l'aggravante di cui all'art. 112 c.p., comma 1, n. 3 erroneamente ritenuta sussistente nonostante l'istruttoria dibattimentale avesse accertato che B., C. e R. erano dipendenti del gruppo (OMISSIS) indipendente e facevano riferimento esclusivamente al capogruppo Bo.. Erroneamente è stata, in ogni caso, ritenuta la equivalenza delle circostanze attenuanti rispetto a detta aggravante dovendosi tenere conto del comportamento processuale del ricorrente imputato.
3. Con memoria nell'interesse dell'imputato:
3.1. Si sollecita la proposizione della questione di costituzionalità della L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 6, lett. b) e della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 4 bis, comma 1, come da questa modificato con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., art. 25 Cost., comma 2, art. 27 Cost., comma 3, art. 117 Cost., comma 1, e artt. 5,6 e 7 C.E.D.U. in relazione alla prevista ostatività del reato di cui all'art. 314 c.p. all'accesso ai benefici previsti dall'ordinamento penitenziario. La questione è rilevante in quanto inerisce alla determinazione della pena stessa, avuto riguardo alle modalità della sua futura esecuzione ed in applicazione del principio di affidamento circa la prevedibilità della sanzione penale. Inoltre, si tratta di questione fondata in relazione all'orientamento già espresso da questa Corte con la sentenza n. 12541 del 20.3.2019 con riferimento alla omessa previsione di una disciplina transitoria.
3.2. In relazione alla mancata derubricazione del reato contestato si ribadisce che l'imputato ricorrente non rivestiva la qualità di pubblico ufficiale versandosi, tutt'al più, nella ipotesi di cui all'art. 316 bis c.p. o, ancora, di quella prevista dall'art. 640 bis c.p.. Laddove dovesse ritenersi la qualità di pubblico ufficiale del C., ai sensi della L. n. 3 del 2019, art. 1, comma 1, lett. l) il reato deve essere derubricato nella indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, essendosi esteso al pubblico ufficiale l'indebita percezione di erogazioni pubbliche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il primo e terzo motivo sono manifestamente infondati.
2.1. Ritiene la Corte che è stata del tutto correttamente ritenuta nella specie - rigettando le analoghe prospettazioni in appello - la fattispecie di peculato ascritta all'imputato sulla base della incontrastata ricostruzione in fatto secondo la quale, in base alla normativa regionale all'epoca in vigore, i contributi venivano erogati in anticipo ai consiglieri regionali - per il tramite del Gruppo consiliare di appartenenza e del suo Presidente - e la relativa utilizzazione era oggetto di verifica nell'ambito dell'obbligo annuale, in capo al Presidente del Gruppo, di presentazione del rendiconto delle spese dell'anno precedente alla Presidenza del Consiglio Regionale, con elenco e documentazione dettagliata. In particolare, la sentenza ha rigettato la prospettazione difensiva in ordine alla qualifica di soggetto privato dell'imputato ritenendo inincidente a tal fine la circostanza secondo la quale egli avesse percepito i contributi attraverso il Gruppo consiliare ed il suo Presidente. Il Giudice di merito ha, quindi, ritenuto non rimborsabili le spese riferite a documenti non veritieri, documenti genuini ma non riferibili ai consiglieri, documenti relativi a spese non riconducibili a vincoli di destinazione imposti dalla legge.
2.2. La qualificazione del fatto è conforme al condivisibile orientamento di legittimità espresso in analoga fattispecie relativa all'erogazione di contributi per i gruppi consiliari della Regione Liguria sulla base della legge regionale n. 38 del 19 dicembre 1990 (Sez. 6, n. 53331 del 19/09/2017, Piredda e altro, Rv. 271654 - 01).
La decisione ha chiarito che ' i fondi erogati ai consigli regionali sono regolati da una disciplina di diritto pubblico - segnatamente dalla L. n. 38 del 1990 - e sono destinati allo svolgimento dell'attività dei medesimi gruppi, segnatamente all'esercizio della funzione legislativa ad essi assegnata ed all'esplicazione del mandato in collegamento con l'elettorato. A prescindere dalla natura giuridica dei gruppi consiliari, ai fini della qualificazione giuridica dei fatti, è sufficiente notare che, per legge, i contributi sono erogati al gruppo consiliare e solo indirettamente al singolo componente (il quale deve poi giustificarne l'impiego in termini conformi alla legge) e sono connotati da uno specifico vincolo di destinazione pubblica. Ne discende che il membro del Consiglio regionale che abbia destinato i contributi di cui abbia la disponibilità in ragione del proprio ufficio o servizio - contributi da ritenere 'altrui' in quanto ricevuti in stretta connessione con l'attività del gruppo di appartenenza-, al soddisfacimento di finalità diverse da quelle istituzionali, regolate dalla normativa di rilievo pubblicistico, commette peculato, atteso che, ai fini del delitto di cui all'art. 314 c.p., il concetto di 'appropriazione' comprende anche la condotta di 'distrazione', in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene (in questo senso, ex plurimis Sez. 6, n. 25258 del 04/06/2014, Pg in proc. Cherchi e altro, Rv. 260070).
Nel destinare le risorse economiche erogate per il funzionamento del gruppo consiliare - dunque assoggettate ad uno specifico vincolo di destinazione pubblica - ad una finalità diversa, estranea rispetto a quella istituzionale, gli imputati si sono comportati uti dominus, realizzando l'interversione del possesso'.
Quanto alla destinazione dei contributi erogati, la medesima decisione ha affermato che la legislazione regionale ligure contiene una indicazione specifica delle spese coperte dal contributo cosicchè deve escludersi la legittimità dell'impiego di fondi pubblici in relazione a spese non giustificate o rispetto alle quali siano prodotti scontrini o fatture privi di giustificazione o recanti indicazioni talmente generiche da impedire la verifica della loro riconducibilità all'attività istituzionale, quali scontrini di acquisto di beni, titoli di viaggio o ricevute di consumazioni presso bar e ristoranti senza alcuna menzione dell'identità degli ospiti o dell'occasione.
In relazione all'erogazione di contributi ai gruppi consiliari della Regione Lombardia sulla base della legge regionale n. 17 del 7 maggio 1992 - che prevede la presentazione, da parte dei consiglieri, di documentazione giustificativa della spesa già sostenuta e riserva ai presidenti dei gruppi consiliari la sola rendicontazione annuale - è stato già condivisibilmente affermato che integra il reato di peculato e non quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato la condotta del consigliere regionale che utilizza, per finalità estranee all'esercizio del mandato, fondi pubblici assegnati al proprio gruppo consiliare, dal momento che il predetto, avendo la giuridica disponibilità di tali fondi, senza necessità di compiere alcuna attività per conseguirla, se ne appropria illecitamente con il mero ordine di spesa (Sez. 6, n. 49990 del 11/07/2018, Spreafico Carlo, Rv. 274227 - 01).
Nel contesto di tale decisione è stato condivisibilmente chiarito che il possesso qualificato dalla ragione dell'ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez.6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525).
Pertanto, del tutto legittimamente è stata affermata nella specie la qualità di pubblico ufficiale del consigliere regionale e la sussistenza del possesso qualificato delle somme corrispostegli per le finalità previste dalla legge regionale.
2.3. Quanto, ancora, alla qualificazione giuridica del fatto del tutto corretta è la esclusione delle ipotesi riconducibili ai reati di cui agli artt. 640 bis e 316 bis c.p..
2.3.1. La richiamata sentenza n. 53331 del 19.9.2017 - nell'analogo caso esaminato - ha infatti escluso l'ipotesi della truffa aggravata ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, - e quindi quella di cui all'art. 640 bis c.p. che al fatto di cui all'art. 640 c.p. rinvia con riferimento alle erogazioni pubbliche - rammentando che - secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità - si ha il peculato allorquando il pubblico ufficiale si appropria del denaro di cui abbia già il possesso anche solo mediato e gli artifici e raggiri sono realizzati soltanto per effettuare l'illegittima appropriazione oppure per occultarla; si ha invece la truffa allorquando gli artifici e raggiri costituiscono lo strumento per ottenere il possesso o la disponibilità del danaro che il pubblico ufficiale non ha. In particolare, si è affermato che l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o d'altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Savorgnano, Rv. 241186).
Pertanto, ai fini della distinzione tra peculato e truffa non rileva il rapporto cronologico tra l'appropriazione e la condotta ingannatoria, ma il modo in cui il funzionario infedele viene in possesso del danaro o del bene del quale si appropria: sussiste il delitto di peculato quando l'agente fa proprio il bene altrui del quale abbia già il possesso per ragione del suo ufficio o servizio e ricorre all'artificio o al raggiro (eventualmente consistente nella produzione di falsi documentali) per occultare la commissione dell'illecito; mentre vi è truffa, quando il pubblico agente, non avendo tale possesso, se lo procura mediante la condotta decettiva (Sez. 6, n. 10309 del 22/01/2014, P.M. in proc. Lo Presti e altro, Rv. 259507; Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014, P.M. in proc. Currao, Rv. 260505).
Tirando le fila degli arresti giurisprudenziali sopra rammentati - secondo la sentenza richiamata - si può dunque affermare che la linea di discrimine fra i reati di peculato e di truffa aggravata va tracciata avendo riguardo al fatto se in capo al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio sia o meno ravvisabile una disponibilità originaria, materiale e/o giuridica, della risorsa economica oggetto di appropriazione, di tal che, nel caso sanzionato dall'art. 314 c.p., l'attività decettiva non è strumentale al conseguimento della somma, ma è volta soltanto ad occultare l'appropriazione medesima, mentre nel caso sanzionato dal combinato disposto dell'art. 640 c.p. e art. 61 c.p., n. 9, l'azione fraudolenta costituisce un antecedente logico - e non necessariamente cronologico - all'appropriazione, essendo appunto finalizzata ad ottenere la disponibilità delle risorse economiche oggetto di appropriazione. E pertanto, conclude la sentenza, il ricorrente si appropriava di somme di denaro di cui aveva già la disponibilità - segnatamente dei contributi consiliari a lui versati dalla Presidenza del gruppo consiliare, secondo la normativa vigente all'epoca - e produceva la documentazione in un momento cronologicamente e logicamente successivo all'indebito utilizzo di detti fondi, così da giustificarne l'impiego per scopi non istituzionali e da dissimulare l'appropriazione stessa.
La produzione documentale ha dunque costituito, nella specie, non lo strumento fraudolento per conseguire le risorse oggetto di appropriazione (che appunto integra la truffa), ma per celare ex post la destinazione indebita delle somme già nella propria disponibilità a finalità estranee a quelli istituzionali.
2.3.2. Del tutto evidente è la estraneità del caso di specie alla ipotesi di cui all'art. 316 bis c.p. la quale presuppone l'estraneità nella specie non ricorrente - del soggetto agente alla pubblica amministrazione, esulando qualsiasi interferenza della previsione della L. n. 3 del 2019, art. 1, comma 1, lett. l) riguardante la distinta ipotesi di cui all'art. 316 ter c.p.. 3. Il secondo motivo è manifestamente infondato, quando non genericamente proposto rispetto alla incontestata estraneità della documentazione allegata a giustificazione delle spese effettuate rispetto alle finalità per le quali i contributi erano stati percepiti.
3.1. Il giudice di appello ha rigettato l'analoga prospettazione difensiva osservando che la stessa porterebbe alla impunità del consigliere regionale che abbia ottenuto rimborsi non dovuti in base alle legge regionale che ne fissa i presupposti sostanziali e la procedura per percepirli.
3.2. La risposta data dalla Corte di appello si pone nell'alveo di legittimità espresso da Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009, Provenzano ed altri, Rv. 244061 che ha affermato integrare il delitto di peculato l'utilizzazione di denaro pubblico accreditato su un capitolo di bilancio intestato a 'spese riservate', quando non si dia una giustificazione certa e puntuale del suo impiego per finalità strettamente corrispondenti alle specifiche attribuzioni e competenze istituzionali del soggetto che ne dispone, tenuto conto delle norme generali della contabilità pubblica, ovvero di quelle specificamente previste dalla legge.
Nell'affrontare la natura delle spese riservate e l'individuazione della loro disciplina con riguardo alla sussistenza di un corrispondente normale obbligo di rendicontazione ovvero di un obbligo peculiare di giustificazione causale ovvero di un regime di assoluta insindacabilità, la decisione ha affermato che 'ciò da cui occorre muovere... come sempre quando manchi un'esplicita ed espressa disciplina positiva, e in particolare nel settore pubblico, sono i principi posti dalla Costituzione ed i connessi principi generali.
Nella materia della spesa pubblica rilevano gli artt. 3,81,97,100 e 103 Cost., che nel loro insieme dettano questi convergenti principi:
- ogni tipo di spesa deve avere una propria autonoma previsione normativa, che non può essere la mera indicazione nella legge di bilancio;
- la gestione delle spese pubbliche è sempre soggetta a controllo, anche giurisdizionale;
- l'impiego delle somme deve concretizzarsi in modo conforme alle corrispondenti finalità istituzionali, come indicate dalla propria previsione normativa;
- tale impiego deve in ogni caso rispettare i principi di uguaglianza, imparzialità, efficienza (che a sua volta comprende quelli di efficacia, economicità e trasparenza).
La sintesi di tali principi è pertanto che sussiste il generale obbligo di giustificazione della spesa secondo le precipue finalità istituzionali.
Questi principi costituzionali e generali non comportano ovviamente l'applicazione di un unico modello di disciplina ed organizzazione della spesa pubblica, ma indicano i parametri che i vari modelli debbono rispettare, pur nelle loro articolazioni rispondenti alla peculiarità del settore in cui prima la spesa è normativamente prevista e poi concretamente interviene.
Non è pertanto compatibile con la Costituzione l'ipotesi di un potere di spesa di denaro pubblico sottratto ad ogni tipo di controllo - di natura amministrativa o giurisdizionale esterno a chi concretamente dispone la singola spesa, anche perchè le peculiari esigenze del singolo settore possono essere efficacemente salvaguardate da tipologie di verifica che le concilino con il principio costituzionale, che altrimenti comunque prevale in ragione della propria fonte sovraordinata'.
Concludendosi che 'lungi allora dall'essere fonte giustificatrice di ogni tipo di eventuale illecito o irregolarità, anche fiscale (con un'utilizzazione di denaro pubblico caratterizzata esclusivamente dal suo mero materiale e grossolano passaggio di mano dal titolare del potere di spesa, in questo caso il presidente della Regione, al destinatario della singola dazione, anche per interposte persone), il carattere riservato della spesa non escludeva affatto, nè esclude, l'obbligo di dare coeva giustificazione della gestione di quel denaro, per comprovare la sua utilizzazione in modo conforme alle finalità, competenze ed attribuzioni istituzionali positivamente disciplinate, ferma l'eventuale insindacabilità della singola scelta una volta constatata tale conformità alle finalità, competenze ed attribuzioni istituzionali'.
4. Il quarto motivo - come risulta dal testo della sentenza impugnata - ha ad oggetto questione non sottoposta in sede di gravame, considerando anche l'identico incremento per la continuazione dato in primo grado per i reati di peculato.
5. Il quinto motivo - come risulta dal testo della sentenza impugnata - ha ad oggetto questione non sottoposta al giudice di appello.
6. Irrilevante nel caso di specie, infine, è la questione di costituzionalità prospettata dalla difesa riguardando la esecuzione della pena e non la sua determinazione, afferendo - pertanto - ad uno snodo processuale diverso da quello del processo di cognizione (Sez. 6, Sentenza n. 12541 del 14.3.2019, Ferraresi, non massimata).
7. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma che si stima equo determinare in Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 12 giugno 2019. Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2019