L’autodifesa, che ha riguardo a quel complesso di attività mediante le quali l’imputato é posto in grado di influire sullo sviluppo dialettico del processo, costituisce "diritto primario dell’imputato, immanente a tutto l’iter processuale, dalla fase istruttoria a quella di giudizio: ecco perchè al sordomuto va garantita la possibilità di essere assistito da persona di sua fiducia per tuta la durata del processo.
Sempre in relazione al principio contenuto nell’art 24 della Costituzione, la Corte di Cassazione ha avuto modo di stabilire con sentenza del 17 dicembre 2001, n. 3376, che l’assoluta impossibilità di comparire al processo, già ascrivibile alle ipotesi di caso fortuito e di forza maggiore , “…va riconosciuta anche nel caso in cui, trattandosi di imputato portatore di handicap, lo stesso abbia preventivamente manifestato la sua intenzione di partecipare al dibattimento e, al tempo stesso, la impossibilità di accedere ai locali di udienza a causa della presenza di barriere architettoniche…”.
CORTE COSTITUZIONALE
SENTENZA N. 341 / 1999
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 119 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 23 luglio 1998 dal Pretore di Marsala, iscritta al n. 790 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 giugno 1999 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso del dibattimento a carico di un imputato sordomuto, che risulta saper leggere e scrivere, il Pretore di Marsala, con ordinanza emessa il 23 luglio 1998, pervenuta a questa Corte l’8 ottobre 1998, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 119 cod. proc. pen. "nella parte in cui non prevede che l’imputato sordomuto che sappia leggere e scrivere abbia diritto di farsi assistere, gratuitamente, da un interprete al fine di seguire il compimento degli atti cui partecipa e di partecipare coscientemente al dibattimento".
Premesso, quanto alla rilevanza, che la partecipazione al dibattimento dell’imputato sordomuto che sappia leggere e scrivere é regolata dall’art. 119, comma 1, cod. proc. pen., che prevede solo l’uso dello scritto per la presentazione delle domande, degli avvertimenti e delle ammonizioni e per le relative risposte, mentre la nomina di interpreti é prevista dal successivo comma 2 solo nel caso in cui il sordomuto non sappia leggere o scrivere, il remittente ritiene che tale disposizione violi, in primo luogo, il diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione, impedendo all’imputato sordomuto, che sappia leggere e scrivere, di comprendere tutto quanto accade nel corso dell’istruzione dibattimentale e di valutare se e quando rendere le spontanee dichiarazioni di cui all’art. 494 cod. proc. pen., così impedendogli di partecipare coscientemente al dibattimento.
In secondo luogo, il giudice a quo ritiene che la disposizione in esame violi il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, in quanto riserva all’imputato sordomuto che sappia leggere e scrivere un trattamento deteriore rispetto all’imputato che non conosce la lingua italiana, cui l’art. 143 cod. proc. pen. riconosce il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa; rispetto all’imputato il cui stato mentale sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento, riguardo al quale l’art. 71 cod. proc. pen. prescrive la sospensione del procedimento medesimo e la nomina di un curatore speciale; nonchè rispetto all’imputato sordomuto che non sappia leggere o scrivere, per il quale é prevista dal comma 2 dello stesso art. 119 cod. proc. pen. la nomina di uno o più interpreti.
Tale diversità di trattamento appare al remittente illogica ed irrazionale, considerando che tutte le ipotesi menzionate concernono casi in cui l’imputato, per ragioni diverse, non é in grado di partecipare coscientemente al procedimento, e che solo le altre disposizioni indicate prevedono gli opportuni rimedi ed accorgimenti processuali.
2.— E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Ad avviso dell’Avvocatura erariale, il legislatore avrebbe ritenuto il sordomuto che sappia leggere e scrivere in grado di partecipare scientemente al procedimento, comunicando per iscritto, onde non sarebbe violato il diritto di difesa. Nè vi sarebbe violazione del principio di eguaglianza, in quanto la diversità della disciplina dettata per l’imputato sordomuto che sappia leggere e scrivere rispetto alle altre evocate dal remittente si giustificherebbe per la differenza delle fattispecie messe a confronto.
Considerato in diritto
1.— La questione sollevata investe la disciplina risultante dall’art. 119 del codice di procedura penale per l’ipotesi in cui l’imputato sia sordomuto e sappia leggere e scrivere. La disposizione prevede che quando un sordomuto "vuole o deve fare dichiarazioni", gli si presentano per iscritto le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni, ed egli risponde per iscritto (comma 1); mentre solo per il caso in cui il sordomuto non sappia leggere o scrivere si prevede che l’autorità procedente nomini uno o più interpreti, scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui (comma 2).
Tale disciplina appare al remittente lesiva, da un lato, del diritto di difesa dell’imputato, in quanto gli impedirebbe di comprendere tutto ciò che avviene nel dibattimento e di valutare se e quando rendere dichiarazioni spontanee a norma dell’art. 494 dello stesso codice, e dunque di partecipare coscientemente al dibattimento; dall’altro lato, del principio di eguaglianza, in quanto realizzerebbe una irragionevole differenza di trattamento rispetto alla ipotesi dell’imputato sordomuto che non sappia leggere e scrivere (in relazione alla quale si prevede la nomina di interpreti), nonchè rispetto a quelle dell’imputato che non conosca la lingua italiana (per cui l’art. 143 cod. proc. pen. prevede l’assistenza gratuita di un interprete), e dell’imputato che non sia in grado di partecipare coscientemente al procedimento a causa del suo stato mentale (nel qual caso l’art. 71 cod. proc. pen. prevede la sospensione del procedimento e la nomina di un curatore speciale).
2.— La questione é fondata, sotto il profilo della denunciata violazione dell’art. 24, secondo comma, della Costituzione.
La garanzia costituzionale del diritto di difesa comprende la effettiva possibilità che la partecipazione personale dell’imputato al procedimento avvenga in modo consapevole, in ispecie – per quanto qui rileva – nelle fasi che l’ordinamento affida al principio dell’oralità: il che comporta la possibilità effettiva sia di percepire, comprendendone il significato linguistico, le espressioni orali dell’autorità procedente e degli altri protagonisti del procedimento, sia di esprimersi a sua volta essendone percepito e compreso (cfr. sentenza n. 9 del 1982 e, da ultimo, sentenza n. 10 del 1993).
Senza la garanzia di tale possibilità, infatti, resterebbe irrimediabilmente compromesso, nelle fasi processuali dominate dall’oralità, il diritto dell’accusato di essere messo personalmente, immediatamente e compiutamente a conoscenza di quanto avviene nel processo che lo riguarda, e così non solo dell’accusa mossagli, ma anche degli elementi sui quali essa si basa, delle vicende istruttorie e probatorie che intervengono via via a corroborarla o a smentirla, delle affermazioni e delle determinazioni espresse dalle altre parti e dall’autorità procedente; nonchè, conseguentemente, il diritto dell’imputato di svolgere la propria attività difensiva, anche in forma di autodifesa, conformandola, adattandola e sviluppandola in correlazione continua con le esigenze che egli stesso ravvisi e colga a seconda dell’andamento della procedura, ovvero comunicando con il proprio difensore.
Questa Corte ha infatti costantemente affermato che "la peculiare natura del processo penale e degli interessi in esso coinvolti richiede la possibilità della diretta e personale partecipazione dell’imputato", onde l’autodifesa, che "ha riguardo a quel complesso di attività mediante le quali l’imputato é posto in grado di influire sullo sviluppo dialettico del processo", costituisce "diritto primario dell’imputato, immanente a tutto l’iter processuale, dalla fase istruttoria a quella di giudizio" (sentenza n. 99 del 1975; e cfr. anche sentenze n. 205 del 1971, n. 186 del 1973).
3.— Se normalmente questi diritti dell’accusato sono resi effettivi attraverso la garanzia della possibilità di presenziare alle udienze (salvo esserne allontanato solo se ne impedisce il regolare svolgimento: art. 475 cod. proc. pen.) e di rendere "in ogni stato del dibattimento" le dichiarazioni che egli ritiene opportune, purchè si riferiscano all’oggetto dell’imputazione e non intralcino l’istruzione dibattimentale (art. 494 cod. proc. pen.), avendo per ultimo la parola (art. 523, comma 5, cod. proc. pen.), nonchè attraverso la "facoltà di conferire con il proprio difensore tutte le volte che lo desideri, tranne che durante l’interrogatorio o prima di rispondere a domande rivoltegli" (sentenza n. 9 del 1982; e cfr. anche sentenza n. 216 del 1996), forme speciali di tutela sono richieste allorquando l’accusato, a causa di sue particolari condizioni personali, non sia in grado di comprendere i discorsi altrui o di esprimersi essendo compreso.
La più comune di tali condizioni é rappresentata dalla non conoscenza della lingua in cui si svolge il processo, ed é per questo che le norme delle convenzioni internazionali sui diritti prevedono espressamente fra i diritti dell’accusato quello di "farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza" (art. 6, n. 3, lettera e, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; e analogamente art. 14, comma 3, lettera f, del patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966).
Allo stesso modo il legislatore italiano del codice ha preso in specifica considerazione la situazione dell’imputato che non conosce la lingua italiana, statuendo che egli "ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa" (art. 143, comma 1, cod. proc. pen.). Disposizione, quest’ultima, che correttamente configura il ricorso all’interprete non già come un mero strumento tecnico a disposizione del giudice per consentire o facilitare lo svolgimento del processo in presenza di persone che non parlino o non comprendano l’italiano, ma come oggetto di un diritto individuale dell’imputato, diretto a consentirgli quella partecipazione cosciente al procedimento che, come si é detto, é parte ineliminabile del diritto di difesa; e per questo anche é stata intesa da questa Corte come suscettibile di essere applicata con la massima espansione, in funzione della sua ratio (sentenza n. 10 del 1993).
Nulla di simile é invece previsto dalla legge per le persone che siano impedite di parlare o di ascoltare, ovvero sia di parlare che di ascoltare, da un loro handicap fisico (sordità, mutismo, sordomutismo), per i diritti delle quali tuttavia si pongono le stesse esigenze di tutela. Il legislatore ha bensì preso in considerazione tale situazione, ma a fini insieme più generici e più limitati: infatti l’art. 119, comma 1, del codice di procedura penale prevede che "quando un sordo, un muto o un sordomuto vuole o deve fare dichiarazioni", si usi lo scritto da parte dell’interessato che non parli e per rivolgere "le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni" all’interessato che non senta; mentre l’art. 119, comma 2, prevede che – nelle medesime ipotesi – se il sordo, il muto e il sordomuto non sa leggere o scrivere, "l’autorità procedente nomina uno o più interpreti, scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui".
Tali previsioni non riguardano solo l’imputato, ma qualsiasi persona che sia chiamata o abilitata, nel processo, a rendere dichiarazioni; e contemplano però solo il caso in cui tale persona – e dunque anche l’imputato – voglia o debba rendere dichiarazioni, non occupandosi in alcun modo della possibilità per l’imputato di seguire tutto ciò che avviene nel processo, indipendentemente dalle domande, dagli avvertimenti e dalle ammonizioni a lui rivolte. D’altra parte tali norme considerano il ricorso allo scritto come rimedio sufficiente a sopperire al difetto dell’udito e della parola, onde riservano la nomina di uno o più interpreti al solo caso in cui la persona non sappia leggere o scrivere: non tenendo conto della differenza sostanziale che vi é fra il potere percepire ed esprimersi immediatamente e direttamente, sia pure con la mediazione di un interprete, e l’essere messi in grado solo di percepire e di esprimersi attraverso lo scritto. Più in generale, si tratta di previsioni normative dettate nell’ottica di rendere possibile lo svolgimento del processo quando ad esso partecipi una persona portatrice di siffatti handicap, piuttosto che in quella della garanzia dei diritti dell’imputato.
4.— E’ dunque palese l’insufficienza delle disposizioni di cui all’art. 119 cod. proc. pen. a soddisfare le esigenze di garanzia effettiva del diritto di difesa dell’imputato sordo o sordomuto (ma anche dell’imputato muto che sappia leggere e scrivere, al quale é reso possibile di comunicare solo mediante lo scritto): sia sotto il profilo della omessa considerazione delle esigenze di comprensione e di comunicazione proprie dell’imputato al di là della sola ipotesi in cui egli debba o voglia rendere dichiarazioni, e più in generale delle esigenze che derivano dal diritto dell’imputato a partecipare consapevolmente al procedimento; sia sotto il profilo della esclusione della assistenza di un interprete quando l’imputato sappia leggere e scrivere.
La lacuna va colmata attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale di tipo "additivo" che estenda, agli imputati che si trovino nelle condizioni di cui all’art. 119 cod. proc. pen., la forma di tutela già prevista dall’art. 143 dello stesso codice per l’imputato che non conosce la lingua italiana, con l’ulteriore precisazione che l’interprete, secondo la regola già presente nell’art. 119, comma 2, dovrà essere scelto di preferenza fra le persone abituate a trattare con la persona interessata, elemento questo destinato a facilitare ulteriormente la comunicazione. Per ogni altro aspetto della disciplina varrà, in forza del rinvio all’art. 119 contenuto nell’art. 143, comma 2, quanto disposto in generale in tema di interprete che assiste l’imputato: mentre resta ferma, per l’imputato che si trovi nelle predette condizioni, la facoltà di avvalersi dello scritto, secondo le previsioni dell’art. 119, comma 1, del codice.
Resta assorbito ogni altro profilo della questione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 119 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che l’imputato sordo, muto o sordomuto, indipendentemente dal fatto che sappia o meno leggere e scrivere, ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui, al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in cancelleria il 22 luglio 1999.