In una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell'ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l'unicità della tessuto sociale - e quindi con l'unicità dell'ordinamento giuridico - l'ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro configgenti.
La soluzione - costituzionalmente orientata in relazione alla disposizione dell'art. 3 Cost. Rep., che in unico contesto normativo attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confronti della legge, senza distinzione, in particolare, di sesso, di razza, di lingua, di religione, e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana - civilmente e giuridicamente praticabile è quella opposta, che armonizza i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificatore della centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l'instaurazione di una società civile.
In questo quadro concettuale si profila, come essenziale per la stessa sopravvivenza della società multietnica, l'obbligo giuridico di chiunque vi si inserisce di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo di conseguenza riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto - non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale - di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
(ud. 29/01/2015) 13-04-2015, n. 14960
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNINO Saverio Felice - Presidente -
Dott. DI NICOLA Vito - Consigliere -
Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere -
Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere -
Dott. MENGONI Enrico - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
- E.H.S., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte d'appello di Torino 22 maggio 2013 n. 1919;
sentita la relazione svolta dal Pres. Dott. S. F. MANNINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la requisitoria del P.G., in persona del Sostituto Dott. CANEVELLI Paolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
osserva:
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Avverso la sentenza della Corte d'appello di Torino 22 maggio 2013 n. 1919 - che ha confermato la sentenza del GIP del Tribunale di Asti de 12 aprile 2012 r.g. 1988/13, con la quale era stato dichiarato colpevole a) del reato di cui all'art. 572 c.p. per aver sottoposto a maltrattamenti di carattere psichico e fisico la moglie A.S. in G., dal mese di marzo 2006 al 18 gennaio 2010; b) del reato di cui all'art. 609 bis c.p., art. 61 c.p., n. 2, art. 609 septies c.p., n. 4, art. 81 cpv. c.p. perchè al fine di eseguire il reato di cui al capo a), in plurime occasioni, aveva costretto la moglie A. S. con violenza ad avere rapporti sessuali completi benchè incinta, in G., dal mese di febbraio 2008 al mese di gennaio 2010; c) del reato di cui all'art. 570, commi 1 e 2 per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore W., in G., dal mese di agosto 2009 fino al mese di gennaio 2010 e condannato, previa concessione delle attenuanti generiche, con la continuazione e la riduzione per il rito abbreviato, alla pena di due anni e otto mesi di reclusione nonchè alle pene accessorie e al risarcimento dei danni in favore della parte civile A.S. - E.H.S. ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento per il seguente motivo:
- mancanza di motivazione con riferimento al primo e al terzo motivo di gravame ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e); col primo motivo si era si era richiamata l'attenzione sull'elemento soggettivo, ritenendosi che i comportamenti di E.H. fossero espressione socioculturale dello stesso e tali da escluderlo, in quanto la moglie era come un oggetto di sua esclusiva proprietà, concetto di una condizione di subcultura, per cui si era invocata l'esimente putativa dell'esercizio di un diritto (art. 51 c.p.): col terzo motivo si era sostenuta la non configurabilità del reato di cui all'art. 570 c.p., commi 1 e 2 in quanto la stessa parte offesa nel verbale del 25 maggio 2010 aveva affermato di essere stata autorizzata a fare acquisiti in un negozietto di G., ove risiedeva.
Il 2 luglio 2014 il Difensore ha presentato per fax memoria con considerazioni sulla configurabilità del reato di cui all'art. 609 bis c.p., art. 61 c.p., n. 2, art. 609 septies c.p., n. 4 e art. 81 cpv. c.p., nonchè sulla sussistenza dell'esimente putativa dell'esercizio di un diritto; e sulla configurabilità del reato di cui all'art. 570 c.p., commi 1 e 2.
L'impugnazione è inammissibile.
1. Il ricorrente nella sua memoria del 1 luglio 2014 - dopo un generico richiamo all'inverosimiglianza delle circostanze riferite dalla parte offesa relative alla violenza sessuale e all'assoluta mancanza di riscontri esterni a tali dichiarazioni, eccepite nei motivi d'appello - si riporta alla questione, pure in quella sede prospettata, attinente alla valenza della scriminante putativa ex art. 51 c.p. per le facoltà consentite dal diritto straniero in quanto E.H., cittadino marocchino, avrebbe compiuto nel territorio italiano attività astrattamente configurabili come reato per il nostro ordinamento nell'esercizio, tuttavia, di facoltà consentita nel proprio stato di provenienza.
Secondo il ricorrente, al fine di evitare che l'eguaglianza di trattamento si trasformi in trattamento diseguale se applicato a stranieri, costretti a sottomettersi a costumi da loro non conosciuti e spesso contrari alle loro abitudini, La Corte di merito avrebbe dovuto valutare nel caso concreto se il diverso patrimonio culturale di E.H., appena giunto in Italia, le sue differenti abitudini e la sua diversa percezione della liceità o dell'illiceità dei fatti avrebbero potuto integrare una situazione di scriminante erroneamente supposta. Lo stesso avrebbe potuto ritenere per errore incolpevole che sussistesse una scriminante - che nella realtà non esisteva - ma nell'agire trascenderne i limiti, con una forma di eccesso che esula dalla disciplina dell'art. 55 c.p. ed è riconducibile alla figura generale dell'art. 59 c.p., comma 3, parte 2a.
Al riguardo si osserva che in una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell'ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l'unicità della tessuto sociale - e quindi con l'unicità dell'ordinamento giuridico - l'ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro configgenti.
La soluzione - costituzionalmente orientata in relazione alla disposizione dell'art. 3 Cost. Rep., che in unico contesto normativo attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confronti della legge, senza distinzione, in particolare, di sesso, di razza, di lingua, di religione, e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana - civilmente e giuridicamente praticabile è quella opposta, che armonizza i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificatore della centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l'instaurazione di una società civile.
In questo quadro concettuale si profila, come essenziale per la stessa sopravvivenza della società multietnica, l'obbligo giuridico di chiunque vi si inserisce di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo di conseguenza riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto - non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale - di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.
In tali condotte non è pertanto configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull'esercizio di un presunto diritto escluso in linea di principio dall'ordinamento (Cass., Sez. 6, 26 aprile 2011 n. 26153, ric. c), e quindi neppure l'eccesso colposo nella scriminante stessa.
Nella specie la condotta dell' E.H. - consistente nella sottoposizione della moglie a percosse e a maltrattamenti vari, inflitti in stato di ubriachezza, anche come ritorsione per aver fatto nascere il suo bambino in Francia, dove si era rifugiata presso i suoi parenti, e non in Italia, con pregiudizio per il suo permesso di soggiorno, in vista del quale l'aveva sposata; e, pur esercitando un lavoro retribuito, nel lasciare lei ed il figlio senza mezzi di sussistenza - appare contraria a qualsiasi principio e non può ritenersi espressione di alcuna cultura e, in particolare, di quella di appartenenza dell'imputato. Infatti, nella stessa memoria successiva al ricorso si fa presente come esuli dalla cultura del marocchino di fede musulmana di stretta osservanza non prendersi cura del primo figlio di sesso maschile, specie nella prima infanzia, privandolo del necessario.
Il motivo di ricorso in esame si rivela perciò manifestamente infondato.
2. Altrettanto manifestamente infondato è il motivo di ricorso, peraltro meramente rivalutativo delle prove esaminate nel provvedimento impugnato, nella parte relativa alla non configurabilità del reato di cui all'art. 570 c.p., commi 1 e 2.
Il Giudice d'appello ha reso ampia motivazione sul punto e la contestazione in fatto fondata su un dato escerpito dal complesso delle dichiarazioni della parte offesa, relativo all'autorizzazione ricevuta dal marito.
P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro 1000,00 (mille) alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2015