L'esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è integrata ogni qual volta la condotta dello stesso pubblico ufficiale, per lo sviamento dell'esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell'illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato: la reazione può quindi dirsi giustificata a fronte di un atto oggettivamente illegittimo, in quanto compiuto, anche solo per modalità di attuazione, in maniera disfunzionale rispetto al fine per cui il potere è conferito, cioè con sviamento dell'esercizio dell'autorità rispetto allo scopo perseguito.
Corte di Cassazione
Sent. Sez. 6 penale Num. 31365 Anno 2022
Presidente: PETRUZZELLIS ANNA
Relatore: SILVESTRI PIETRO
Data Udienza: 26/04/2022 – deposito 22 agosto 2022
SENTENZA
sul ricorso proposto dal:
Procuratore Generale presso la Corte di appello di Genova avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Genova il 13/05/2021 nel procedimento penale nei confronti di IR, nato a Parma il */1957;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, dott.ssa Antonietta Picardi, che ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata quanto al reato previsto dall'art. 186, comma 7, Codice della Strada, e il rigetto del ricorso per il resto;
lette le conclusioni dell'avv.FS difensore dell'imputato, che ha chiesto che il
ricorso sia dichiarato inammissibile o comunque infondato;
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Genova ha confermato la sentenza con cui IR è stato assolto dal reato di resistenza a pubblico ufficiale (capo a) perché il fatto non sussiste e da quelli di lesioni personali volontarie (capo b) e di rifiuto di sottoporsi al test alcolmetrico (capo c) perchè il fatto non costituisce reato.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica pressola Corte di appello di Genova articolando due motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione dell'art. 393 bis cod. pen. I Giudici di merito avrebbero erroneamente assolto l'imputato dal reato di resistenza a pubblico ufficiale ritenendo che questi avrebbe posto in essere la condotta violenta e minacciosa nei riguardi dei pubblici agenti - che lo avevano fermato e stavano redigendo un verbale di contravvenzione- per opporsi non al compimento di un atto dell'ufficio, ma ad una condotta che, seppur non oggettivamente vessatoria, era stata tuttavia percepita come tale; si fa riferimento alla perquisizione veicolare compiuta sulla base del convincimento delle forze dell'ordine che l'imputato non fosse in grado di guidare a causa di un supposto stato di ebbrezza da assunzione di alcol e stupefacenti, in realtà non esistente, e in tal senso, la Corte avrebbe valorizzato la deposizione a discarico di LE, amica dell'imputato, che era in compagnia di questi al momento dell'accaduto.
Proprio l'insistenza dei pubblici ufficiali nel contestare la - in realtà inesistente- condizione di ebrezza sarebbe stata erroneamente ritenuta a fondamento della condotta di lemmi e della causa di non punibilità di cui all'art. 393 bis cod. pen. Si afferma che, se è vero che i verbali di sommarie informazioni su cui si fondano le pronunce assolutorie, (dichiarazioni di L, di PM e SG) sarebbero in contrasto evidente con quanto attestato dai verbalizzanti nella notizia di reato, è altrettanto vero che il Giudice di appello avrebbe "comunque motivato sulla prevalenza delle une sull'altra" (così il ricorso).
Sostiene invece il Procuratore ricorrente che la fattispecie di cui all'art. 393 bis cod. pen. non configurerebbe una scriminante ma solo una causa di esclusione della punibilità, e dunque non potrebbe trovare applicazione l'art. 59 cod. pen.; la Corte avrebbe dunque erroneamente ritenuto la putatività della causa di giustificazione.
Sotto altro profilo si sostiene che ai fini della causa di non punibilità in questione: a) non è sufficiente che il pubblico agente abbia ecceduto i limiti delle sue attribuzioni; b) è necessario che l'eccesso si sia realizzato con atti arbitrari, cioè della deliberata intenzione di porli in essere ai danni del privato oppure deve riguardare un atto accompagnato da modalità non consentite; c) che la reazione sia proporzionata e causale.
Nel caso di specie, i pubblici agenti avrebbero operato legittimamente sulla base di condizioni "soggettive esteriori" tali da far ritenere che l'imputato fosse in stato di ebbrezza; in presenza di indizi del reato di cui all'art. 187, comma 7, C.d.S. i pubblici ufficiali avrebbero dapprima identificato il conducente e dunque informato questi dell'esame etilometrico e, ancora, sanzionato lo stesso, in quanto privo del documento di guida.
Ne consegue, si argomenta, che, rispetto alla sentenza impugnata non potrebbe essere configurata- diversamente da quanto affermato dalla Corte- l'ipotesi colposa del reato di lesioni, e cioè che l'imputato avrebbe posto in essere un atto incontrollato, non rivolto a ledere il pubblico agente, ma causato dalla necessità di opposizione alla veemenza dell'operante.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge quanto alla assoluzione dal reato di cui al capo c).
Il tema attiene all'affermazione dei Giudici di merito secondo cui il rifiuto sarebbe stato non doloso in quanto conseguente alla percezione della vessatorietà dell'intervento delle forze dell'ordine; sostiene invece il ricorrente che il rifiuto, e dunque il reato, si consumerebbe al momento in cui l'agente pone in essere la condotta, non potendo attribuirsi rilievo al carattere legittimo o meno dello stesso rifiuto ovvero all'accertamento compiuto successivamente che denoti l'insussistenza dello stato di ebbrezza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- Il ricorso, i cui motivi possono essere valutati congiuntamente, è infondato.
- Dalle sentenza di merito, da cui emerge una ricostruzione dei fatti ed una valutazione delle prove in senso favorevole all'imputato e una sostanziale inattendibilità delle deposizioni dei pubblici agenti, si evince che:
- il 14.1.2017 alcuni agenti di polizia, verso le ore 3, sottoposero ad un controllo un uomo ed una donna fermi a discutere presso un'autovettura e, ritenendo che l'uomo fosse in stato di ebbrezza, invitarono la donna a porsi alla guida del veicolo e ad accompagnare a casa l'uomo;
- dopo circa un'ora i verbalizzanti intercettarono la stessa autovettura con l'uomo, identificato nell'odierno imputato, alla guida in compagnia di una donna, identificata in EL ;
- i pubblici agenti, ritenendo che lemmi fosse in stato di ebbrezza o comunque sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, in quanto — a loro dire - aveva un equilibrio precario, pronunciava frasi sconnesse ed emanava un forte odore di alcool, sottoposero ad una perquisizione l'autovettura e la borsa della L, senza redigere alcun verbale, nemmeno successivamente;
- I, che negava fermamente di essere in stato di ebbrezza, davanti al comportamento dei pubblici agenti, dopo aver chiesto spiegazioni e di poter contattare un avvocato, ebbe una discussione con uno di essi;
- I, che mai usò violenza nei confronti degli agenti, allungò un braccio "come a voler allontanare da sé l'agente che lo fronteggiava" (così la deposizione della L, ritenuta attendibile);
- in ragione di quel gesto i poliziotti ammanettarono l'imputato, immobilizzandolo a terra, e lo condussero in questura;
- gli operanti chiesero alla L di cancellare le foto da lei scattate con cui era stato documentato l'accaduto;
- I, anche dopo essere stato portato in questura; continuò ad affermare di non essere in stato di ebbrezza e a chiedere di poter contattare un difensore;
- in tale contesto l'imputato non volle sottoporsi al test alcolemico e fu successivamente condotto in ospedale dove fu accertato che l'uomo non era in stato di ebbrezza.
- Sulla base di tale quadro di riferimento il ricorso rivela la sua infondatezza.
Il profilo maggiormente problematico della causa di non punibilità prevista dall'art. 393 bis cod. pen. riguarda storicamente il concetto di "atto arbitrario", che costituisce la modalità con la quale il pubblico funzionario deve eccedere le proprie competenze per rendere legittima l'altrui reazione.
Secondo un primo consolidato orientamento di legittimità, cui aderisce anche parte della dottrina, l'eccesso arbitrario non si esaurisce nella mera illegittimità dell'atto compiuto dal pubblico ufficiale, ma richiede un elemento ulteriore, soggettivamente caratterizzante il suo agire; l'atto, per potersi definire "arbitrario", deve manifestare "malanimo, capriccio, settarietà, prepotenza, sopruso ed altri simili motivi" e, comunque, esprimere "il consapevole travalicamento da parte del pubblico ufficiale dei limiti e delle modalità entro cui le pubbliche funzioni debbono essere esercitate" (Sez. 6, n. 5414 del 23/01/2009, Amara, Rv. 242917).
Se il legislatore, si sostiene, avesse voluto ancorare l'istituto alla sola, oggettivacontrarietà dell'atto all'ordinamento, non avrebbe inserito il riferimento agli "atti arbitrari", ribadito, peraltro, in più occasioni; la locuzione, infatti, sarebbe stata del tutto pleonastica, se non addirittura tautologica, se l'analisi avesse dovuto essere limitata soltanto al profilo dell'illegittimità dell'atto.
Ne discende, secondo l'impostazione in parola, la necessità di interpretare il richiamo contenuto nella disposizione nel senso della necessità di un elemento ulteriore, che non può non interessare il profilo soggettivo del pubblico ufficiale; un atto, quindi, non solo obiettivamente illegittimo, ma anche "partecipato" dall'agente con un consapevole atteggiamento di abuso, se non con una deliberata volontà vessatoria.
Sotto altro profilo, si è aggiunto che una ricostruzione diversa della norma ne amplierebbe la portata in modo eccessivo, tale addirittura da travalicarne la ratio ispiratrice e concedere al privato una troppo generosa licenza.
In tal senso si spiega l'affermazione consolidata, secondo cui presupposto necessario per l'applicazione della causa di giustificazione prevista dall'art. 4 del d.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, è un'attività ingiustamente persecutoria del pubblico ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell'azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario. (tra le altre, Sez. 6, n. 16101 del 18/03/2016, Bonomi, Rv. 266535; Sez. 5, n. 35686 del 30/05/2014, Plivieri, Rv. 260309).
In definitiva, la tesi in esame è fondata sull'assunto secondo cui il concetto di "arbitrarietà" avrebbe una sua autonomia rispetto a quello di "eccesso", in un'ottica essenzialmente soggettiva, come consapevole volontà (e quindi malafede) del pubblico ufficiale di eccedere i limiti delle sue funzioni.
Con l'ulteriore corollario per cui l'istituto non potrà operare quando risulti che il pubblico funzionario abbia agito nella consapevolezza (pur colposamente erronea) di adempiere ad un dovere d'ufficio e, per contro, il privato abbia reagito violentemente, non essendo consapevole dell'abuso oggettivo compiuto nei suoi riguardi.
Si è sottolineato da altra parte della giurisprudenza di legittimità come, pur nell'ambito della ricostruzione strettamente soggettiva dell'istituto, sarebbe tuttavia legittima la reazione del privato all'atto realizzato con modalità non consentite dalla legge, perché provocatorie, oppure quello costituente reato (ingiurie, minacce, percosse, ecc.), oppure ancora, all'atto contrario alle norme elementari dell'educazione e del costume sociale (Sez. 6, n. 36009 del 21/06/2006 Tonione, Rv. 235430); si tratta di una impostazione che, da una parte, recepisce l'indirizzo maggioritario di cui si è detto, che impone di non fermarsi alla mera illegittimità dell'atto, ma, dall'altra, tende a riempire quei vuoti di tutela che una lettura troppo soggettivista comporterebbe, pure a fronte di condotte avvertite come arbitrarie dalla coscienza sociale.
Si tratta di una interpretazione che tende ad avvicinarsi a quanto la Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare con la sentenza n. 140 del 1998.
Nell'occasione la Corte, richiamato l'orientamento consolidato di cui si è detto, ha mostrato chiaramente di non condividerlo.
Secondo la Corte costituzionale, vi sono ragioni storico - politiche che dovrebbero indurre ad una interpretazione più lata dell'esimente della reazione ad atti arbitrari, nel senso che alla norma dovrebbe essere attribuito il significato più consono alla struttura complessiva dell'ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione.
Si è affermato che "il doppio richiamo, contenuto nell'art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale in esame, all'eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e agli atti arbitrari del pubblico ufficiale non impone, infatti, di costruire l'arbitrarietà come un quid pluris diverso e ulteriore rispetto all'eccesso dalle attribuzioni, riferito, sotto il profilo oggettivo, alle modalità di esercizio delle funzioni e sorretto, sotto l'aspetto soggettivo, dalla dolosa consapevolezza dell'illegittimità e dell'arbitrarietà del proprio comportamento. Anche alla stregua della stessa interpretazione letterale delle espressioni usate dall'art. 4, può ragionevolmente sostenersi che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all'atto illegittimo e della illegittimità dell'atto in sé considerato; altrettanto plausibile è concludere, sulla scia della interpretazione prospettata dalla giurisprudenza di legittimità minoritaria, che il comportamento scorretto, incivile, inurbano, sconveniente del pubblico ufficiale rende di per sé la sua condotta estranea alle funzioni e, quindi, illegittima".
Questa interpretazione è avvalorata dalla legislazione (v. ad esempio l'art. 13 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nonché l'impianto ispiratore della legge 7 agosto 1990, n. 241) che, a vario titolo, impone norme di comportamento ai pubblici impiegati o delinea principi generali dell'azione amministrativa, volti ad impostare in un contesto di lealtà e di reciproca fiducia e collaborazione i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione.
Dunque, da un lato, l'arbitrarietà dell'atto non implica necessariamente un quid pluris rispetto alla "illegittimità", e, dall'altro, è sufficiente a qualificare come eccedenti dalle proprie attribuzioni comportamenti posti in essere in esecuzione di pubbliche funzioni di per sé "legittimi", ma connotati da difetto di congruenza tra le modalità impiegate e le finalità per le quali è attribuita la funzione stessa, in quanto violativi degli elementari doveri di correttezza e civiltà che debbono caratterizzare l'agire dei pubblici ufficiali (cosi la Corte costituzionale).
Quella della reazione agli atti arbitrari è, secondo il Giudice delle leggi, una causa di giustificazione che opera sul piano oggettivo.
I principi fissati dalla Corte costituzionale sono stati recepiti dalla Corte di Cassazione che ha affermato che l'esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è integrata ogni qual volta la condotta dello stesso pubblico ufficiale, per lo sviamento dell'esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell'illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato (Sez. 6, n. 43898 del 13/09/2016, Virdis, Rv. 268504; nello stesso senso, Sez. 6, n. 7918 del 13/01/2012, Variale, Rv. 252175; Sez. 6, n. 10773 del 09/02/2004, Maroni, Rv. 227991).
Si tratta di una impostazione condivisibile perché, nell'ambito di una lettura oggettivistica e costituzionalmente orientata della norma - che trova il proprio fondamento nei principi affermati con chiarezza dalla Corte costituzionale - si distanzia dallo schema e dalla interpretazione tradizionali: la reazione può dirsi giustificata a fronte di un atto oggettivamente illegittimo, in quanto compiuto, anche solo per modalità di attuazione, in maniera disfunzionale rispetto al fine per cui il potere è conferito, cioè con sviamento dell'esercizio dell'autorità rispetto allo scopo perseguito.
Alla luce delle considerazioni esposte si giustifica inoltre l'affermazione giurisprudenziale secondo cui l'art. 393-bis cod. pen. prevede una causa di giustificazione fondata sul diritto del cittadino di reagire all'aggressione arbitraria dei propri diritti, che può essere applicata anche nelle ipotesi putative di cui all'art. 59, comma quarto, cod. pen., quando il soggetto abbia allegato dati concreti, suffraganti il proprio ragionevole convincimento di essersi trovato, a causa di un errore sul fatto, di fronte ad una situazione che, se effettiva, avrebbe costituito atto arbitrario del pubblico ufficiale. (Sez. 6, n. 4457 del 16/10/2018, dep. 2019, Dimola, Rv. 274983 in cui la Corte ha ritenuto sussistente la causa di giustificazione nella forma putativa, in relazione alla reazione violenta dell'imputato posta in essere a fronte della condotta dei pubblici ufficiali che procedevano alla sua identificazione ed al successivo accompagnamento coattivo in commissariato, con modalità tali da fargli ragionevolmente ritenere di essere sottoposto a condotte vessatorie e di ingiustificata prevaricazione).
- I giudici di merito hanno fatta corretta applicazione dei principi indicati.
Pur volendo prescindere dalla prova del dolo del reato di resistenza e, soprattutto, dal senso e dalla portata del comportamento in concreto tenuto dall'imputato, cioè che non è chiaro nella ricostruzione del Procuratore ricorrente, che erra allorchè ritiene che quella di cui all'art. 393 bis cod. pen. non sia una causa di giustificazione, è perché dovrebbe nella specie escludersi, anche solo sul piano putativo, la scriminante in questione in presenza di una condotta che, rispetto ad un soggetto che non era in stato di ebbrezza e non aveva assunto sostanze stupefacenti, fu obiettivamente caratterizzata da modalità vessatorie e da una ingiustificata prevaricazione.
Non è chiaro il senso delle perquisizioni, della richiesta alla signora che era con l'imputato di cancellare le foto da lei scattate e con le quali era stato documentato l'accaduto; non è chiara la ragione per cui non fu consentito ad un uomo che affermava con vigore di non essere in stato di ebrezza di contattare un legale; non è chiaro perché, rispetto ad un comportamento come quello in concreto tenuto dall'imputato, gli agenti non furono nemmeno sfiorati dal sospetto che effettivamente I potesse non essere in stato di ebbrezza e che quindi fosse necessario modulare la loro condotta in modo diverso, usare toni, parole, gesti diversi rispetto ad un cittadino che non aveva fatto nulla e che stava solo chiacchierando liberamente per strada; non è nemmeno chiaro perché, rispetto ad una condotta prevaricatrice e fondata sui mere percezioni, un cittadino, che si professava non essere in stato di ebbrezza, che aveva subito perquisizioni che non avevano dato alcun riscontro in chiave accusatoria ed a cui non era stato concesso nemmeno di chiamare un legale, dovesse a distanza di ore sottoporsi ad un esame alcolometrico.
Il ricorso del Procuratore, da una parte, sollecita una diversa ricostruzione fattuale e, dall'altra, fa riferimento a principi di diritto non condivisibili.
Ne discende il rigetto del ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26 aprile 2022