Ai fini dell'eventuale divieto di un secondo giudizio per gli stessi fati nell'ambito UE, atti differenti non devono essere considerati "medesimi fatti", ai sensi dell'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen, per la sola circostanza che il giudice nazionale competente abbia constatato che essi siano collegati dallo stesso disegno criminoso, dovendo in ogni caso il criterio esegetico far comunque leva sull'identità dei fatti materiali, inteso come esistenza di un insieme di fatti inscindibilmente collegati tra loro.
Il rispetto della sovranità degli Stati (art. 10 Cost.) è norma inderogabile e la sua violazione nell'ambito del riconoscimento di una sentenza straniera ai sensi della decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio dell'U.E. è rilevabile d'ufficio anche in Cassazione.
E' regola inderogabile a tutela del principio di sovranità dello Stato di condanna che lo Stato di esecuzione non possa dare alla sentenza straniera un'esecuzione diversa da quella concordata in via generale con lo strumento normativo della decisione-quadro: lo Stato di esecuzione, salva l'ipotesi del fisiologico adattamento, non può quindi inaudita altera parte procedere ad un riconoscimento della sentenza che implichi una esecuzione soltanto "parziale" della pena detentiva, oggetto del certificato. A maggior ragione non può riconoscere senza il consenso dello Stato di emissione una sentenza che resti del tutto ineseguita nello Stato italiano, per la concessione dell'indulto.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
(ud. 19/11/2019) 22-11-2019, n. 47445
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente -
Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere -
Dott. CALVANESE Ersilia - rel. Consigliere -
Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere -
Dott. ROSATI Martino - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Z.C., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 25/07/2019 della Corte di appello di Milano;
udita la relazione svolta dal Consigliere CALVANESE Ersilia;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale ORSI Luigi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. RL, che ha concluso chiedendo l'accoglimento dei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Milano, su richiesta del Tribunale di Barcellona, che aveva inviato il certificato di cui alla decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio dell'U.E. del 27 novembre 2008, relativa all'applicazione del principio del "reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell'Unione Europea", dichiarava con sentenza del 25 luglio 2019 le condizioni per il riconoscimento, ai sensi del D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 12, della sentenza definitiva emessa dalle autorità giudiziarie spagnole nei confronti di Z.C., che lo aveva condannato alla pena detentiva di 630 giorni di reclusione per reati di falso documentale e di frode in relazione a finanziamenti concessi dalla Comunità Europea.
La Corte di appello dichiarava con la medesima sentenza che la pena da scontare in Italia da parte dello Z. era interamente condonata.
Secondo quanto espone la sentenza della Corte di appello, lo Z. era stato ritenuto responsabile dalle autorità giudiziarie spagnole per aver ottenuto con la società Tecnagrind, da lui costituita, sovvenzioni comunitarie in relazione a due progetti (Ricino e Vetiver), previa esibizione di fatture per lavori non effettuati.
La Corte di appello esclude il bis in idem con altro procedimento penale instaurato in Italia, avente ad oggetto analoghe imputazioni e che si era definitivamente concluso con il suo proscioglimento per prescrizione nel 2006, in quanto in tal caso il giudice italiano si era pronunciato con esclusivo riferimento a finanziamenti comunitari riguardanti progetti diversi (tuffa Cylindrica; Pascolo Arboreo; Coltura del Girasole).
2. Propone ricorso per cassazione Z.C., deducendo a mezzo di difensore, i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 13, comma 1, lett. c) e art. 649 c.p.p.e al principio del ne bis in idem.
La Corte di appello non ha considerato l'identità dei fatti, oggetto dei due procedimenti penali, posto che si trattava di progetti unitari, concessi in favore delle società delle quali il ricorrente era socio o amministratore dalla stessa Direzione generale e a valere sullo stesso fondo e trattati congiuntamente anche davanti al Tribunale delle Comunità Europee (a riprova della inscindibile connessione tecnica, economica e finanziaria tra tutti i cinque progetti presentati dalle società beneficiarie, tra loro collegate).
A riprova dell'identità dei fatti, era stata allegata la relazione della Guardia di Finanza che nel processo italiano aveva trattato diffusamente anche dei due progetti oggetto del procedimento spagnolo, in quanto l'indagine si era estesa all'intera attività svolta dalle società dello Z., compresa quella spagnola.
La Corte di appello si è invece limitata alla lettura del mero capo di imputazione, che tra l'altro faceva riferimento alla società spagnola.
Anche la stessa sentenza, oggetto di riconoscimento, ha fatto riferimento al meccanismo dei flussi finanziari con le società italiane del gruppo, posto che i due progetti Vetiver e Ricino erano stati sviluppati in Italia per essere poi venduti alla Tecnagrind (che a sua volta aveva collaborato ai progetti sviluppati in Italia).
Si era pertanto in presenza di medesimi fatti oggetto dei due giudizi, in quanto le condotte si riferivano ad un unico disegno unitario, essendo stato contestato al ricorrente da entrambe le autorità giudiziarie il fatto come truffa ai danni della Comunità Europea.
Motivi della decisione
1. Il ricorso declina motivi che non hanno fondamento.
2. La tesi del ricorrente, secondo cui, in presenza di un disegno illecito unitario, tutte le condotte espressione di tale disegno debbano ricadere nella nozione di "medesimo fatto", che costituisce il presupposto della regola del ne bis in idem, non può essere accolta.
Va in primo luogo rammentato che la nozione di "stessi fatti", richiamata dalle decisioni quadro sul reciproco riconoscimento nell'ambito dell'U.E. ai fini del il divieto del bis in idem, costituisce una nozione autonoma del diritto dell'Unione Europea (Grande Sezione, Corte U.E. 16 novembre 2010, Mantello, p. 38), in quanto non può essere lasciata alla discrezionalità delle autorità giudiziarie dei singoli Stati membri l'esegesi di tale concetto sulla base del loro diritto nazionale, occorrendo di esso garantire l'applicazione uniforme nel diritto dell'Unione Europea.
Tale nozione, come ha affermato la Corte U.E., trova quindi fondamento nell'art. 54 della Convenzione di Schengen - secondo cui "una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita", che a sua volta è da ritenersi compatibile con il principio del ne bis in idem enunciato dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali ("Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge") (Grande Sezione, Corte U.E. 27 maggio 2014, Spasic, p. 59).
Ebbene, in base all'interpretazione fornita dalla Corte U.E., la nozione di "stessi fatti" ricomprende un insieme di fatti "inscindibilmente collegati tra loro", indipendentemente dalla qualificazione giuridica dei fatti medesimi dall'interesse giuridico tutelato (Grande Sezione, Corte U.E. 16 novembre 2010, Mantello, p. 39).
La sentenza Mantello, ora citata, ha affrontato anche il profilo evidenziato dal ricorrente della presenza in entrambi i fascicoli giudiziari delle stesse vicende. La presenza nel fascicolo di una delle autorità giudicanti degli elementi probatori relative ai fatti illeciti, oggetto dell'altro procedimento penale, è questione, secondo la Corte dell'Unione, che rileva non tanto per la definizione degli "stessi fatti" quanto piuttosto per verificare se la sentenza in relazione a quei fatti abbia natura definitiva e quindi ostativa.
E una tale verifica va compiuta - ha aggiunto la Corte U.E. - alla luce del diritto dello Stato membro in cui tale sentenza è stata pronunciata.
In tale prospettiva, corretta è la conclusione della Corte di appello, secondo cui la sentenza pronunciata in Italia, riguardando un'imputazione diversa (in quanto riferita a finanziamenti comunitari diversi) non veniva ad estinguere definitivamente l'azione penale a livello nazionale per gli altri fatti, oggetto del procedimento spagnolo, sol perchè in qualche modo citati nelle carte processuali e senza che di essi vi fosse stato dal giudice italiano un effettivo apprezzamento, ai fini della decisione finale assunta.
Quanto all'altro profilo evidenziato dal ricorrente della rilevanza al fine della nozione di "stessi fatti" dell'esistenza di un disegno illecito unitario, va richiamato quanto affermato al riguardo dalla Corte U.E..
Secondo il Giudice Europeo, fatti differenti non devono essere considerati "medesimi fatti", ai sensi dell'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen, per la sola circostanza che il giudice nazionale competente abbia constatato che essi siano collegati dallo stesso disegno criminoso, dovendo in ogni caso il criterio esegetico far comunque leva sull'identità dei fatti materiali, inteso come esistenza di un insieme di fatti inscindibilmente collegati tra loro (Corte U.E. del 18 luglio 2007, Norma Kraaijenbrink), p. 36).
Pertanto, il nesso soggettivo tra fatti che hanno dato luogo ad un procedimento penale in due Stati contraenti diversi non implica necessariamente l'esistenza di un nesso oggettivo tra i fatti materiali di cui è causa, i quali, di conseguenza, possono essere diversi dal punto di vista temporale e spaziale, nonchè per la loro natura.
Alla luce dei principi che precedono, la conclusione alla quale è pervenuta la Corte di appello appare corretta anche in relazione a tale profilo, in quanto in definitiva il disegno unitario che poteva legare i singoli episodi criminosi non veniva nel caso in esame a tradursi in una inscindibilità dei fatti, restando invece le singole azioni criminose, perpetrate dal ricorrente con la presentazione dei singoli progetti di finanziamento, ben distinte, secondo i criteri sopra indicati.
3. Premessa l'infondatezza del ricorso, il Collegio rileva l'esistenza di una causa di annullamento della sentenza impugnata diversa da quella indicata dal ricorrente.
In virtù del disposto di cui all'art. 609 c.p.p., comma 2, il giudice di legittimità decide infatti anche sulle questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, al di fuori di quelle proposte con i motivi di ricorso.
Nel caso in esame emerge dalla sentenza impugnata la violazione di norme inderogabili, relative al rispetto della sovranità degli Stati (art. 10 Cost.).
Il sistema esecutivo, delineato dalla sopra indicata decisione-quadro del 2008, si fonda essenzialmente sul consenso dello Stato di condanna all'esecuzione in altro Stato dell'U.E. di una pena detentiva inflitta in base ad una sentenza di condanna emessa dalle sue autorità giudiziarie. Consenso manifestato nell'invio del certificato - che presuppone il rispetto da parte dello Stato di esecuzione delle regole definite nella decisione-quadro.
Quindi è regola inderogabile a tutela del principio di sovranità dello Stato di condanna che lo Stato di esecuzione non possa dare alla sentenza straniera un'esecuzione diversa da quella concordata in via generale con lo strumento normativo della decisione-quadro.
Ebbene, sulla base delle regole dettate dalla decisione-quadro del 2008, presupposto fondamentale per il riconoscimento della sentenza di condanna è che la pena da essa prevista sia eseguibile nello Stato di esecuzione.
A tal fine, sono previsti limitati poteri di adattamento dello Stato di esecuzione quanto alla natura e alla durata della pena da riconoscere (art. 8), funzionali a rendere compatibile e quindi tendenzialmente eseguibile la pena inflitta dallo Stato di condanna. Al di fuori di tale ambito, non è invece consentita in linea di principio una "parziale" esecuzione della pena (art. 10).
Al fine di evitare il rifiuto del riconoscimento in tale ultimo caso, la decisione-quadro prevede un meccanismo di consultazione tra lo Stato di emissione e quello di esecuzione in vista di pervenire ad un "accordo" sull'esecuzione parziale, la cui mancanza determina in ogni caso il ritiro del certificato (art. 10, par. 2).
La normativa interna di conformazione alla suddetta decisione-quadro, nel replicare le disposizioni sopra riportate, ha stabilito chiaramente (D.Lgs. n. 161 del 2011, art. 10, comma 3) che "se la corte di appello ritiene di poter procedere al riconoscimento parziale, ne informa immediatamente, anche tramite il Ministero della giustizia, l'autorità competente dello Stato di emissione e concorda con questa le condizioni del riconoscimento e dell'esecuzione parziale, purchè' tali condizioni non comportino un aumento della durata della pena. In mancanza di accordo, il certificato si intende ritirato".
Da tali complessive disposizioni si evince quindi che lo Stato di esecuzione salva l'ipotesi del fisiologico adattamento - non può inaudita altera parte procedere ad un riconoscimento della sentenza che implichi una esecuzione soltanto "parziale" della pena detentiva, oggetto del certificato. A maggior ragione non può, come ha fatto la sentenza impugnata, riconoscere senza il consenso dello Stato di emissione una sentenza che resti del tutto ineseguita nello Stato italiano, per la concessione dell'indulto.
E' bene chiarire che solo una volta riconosciuta la sentenza, nei termini previsti dalla normativa sopraindicata, e "iniziata" l'esecuzione della pena detentiva, lo Stato di emissione perde la sovranità sulla esecuzione della pena (art. 13 della decisione-quadro), fatte salve limitate eccezioni, diventando l'esecuzione materia di stretta competenza dello Stato di esecuzione (art. 17 della decisione-quadro), con l'effetto che a quel punto sono concedibili alla persona condannata i provvedimenti clemenziali.
Le considerazioni che precedono impongono quindi l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Milano per l'ulteriore corso.
La Cancelleria procederà alle comunicazioni di rito di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5, richiamate dal D.Lgs. n. 161 del 2011, art. 12, comma 10.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Milano per l'ulteriore corso.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2019