Il riconoscimento della sentenza penale straniera costituisce istituto complementare al rinnovamento del giudizio in Italia ed entrambi rappresentano mere alternative all'obbligo di estradizione verso il Paese con cui vige un regime convenzionale di consegna, sicché deve il più possibile essere rispettato il dictum della sentenza straniera ai sensi dell'art. 3, comma 2, della legge n. 257 del 3 luglio 1989 che rinvia ai fini della concreta determinazione della pena all'art. 10 della Convenzione europea del 21 marzo 1983, secondo cui lo Stato di esecuzione gode di un limitato potere di adattamento e soltanto quando la natura e la durata della sanzione stabilite dallo Stato di condanna siano incompatibili con la legge dello Stato di esecuzione.
Nel caso di convenzionale multilaterale, come nel caso della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate del 21 marzo 1983 applicabile al caso in esame, quanto di accordo bilaterale (nel presente caso quelli integrativi della Convenzione europea stipulati tra Italia e Repubblica di
Albania), la Corte di appello, in forza da un lato del regime del proseguimento dell'esecuzione scelto con la legge di ratifica n. 334 del 25 luglio 1988 e dallo altro del carattere meramente integrativo della disciplina bilaterale, non deve convertire la pena inflitta dal giudice straniero ma limitarsi a recepirla, salvo il
limite previsto dall'art. 10 della stessa Convenzione europea, della sua incompatibilità, per durata o natura, con quella edittale prevista dalla legislazione interna, nel qual caso potrà adattare detta sanzione a quella prevista per reati della stessa natura, purché non sia più grave o più lunga.
Corte di Cassazione
Sezione VI Penale
num. 41057 Anno 2021
Presidente: MOGINI STEFANO
Relatore: VILLONI ORLANDO
Data Udienza: 7 ottobre 2021 (deposito 11 novembre 2021)
1. Con la sentenza impugnata la Corte d'Appello di Roma ha disposto il riconoscimento della pronuncia emessa dal Tribunale del Distretto di Durazzo (Albania) il 31 luglio 2017, divenuta irrevocabile il 18 luglio 2019, nei confronti di
CE e l'esecuzione in Italia della pena di sei anni di reclusione.
Il riconoscimento è avvenuto ai sensi della Convenzione europea sul trasferimento delle persone condannate adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 e ratificata con legge n. 334 del 25 luglio 1978 nonché in forza dell'Accordo aggiuntivo a detta Convenzione intervenuto tra Italia ed Albania il 23 aprile 2002 e infine sulla base della legge n. 257 del 3 luglio 1989 contenente disposizioni per l'attuazione di convenzioni internazionali aventi ad oggetto l'esecuzione delle sentenze penali.
Le autorità albanesi avevano, infatti, inizialmente presentato domanda di estradizione del C- condannato irrevocabilmente in Albania per plurime condotte di truffa commesse nel periodo in cui era impiegato presso la Intesa San Paolo Bank Albania - per poi rinunziarvi con l'apprendere l'acquisto da parte dell'estradando della cittadinanza italiana per contrazione di matrimonio, esprimendo il consenso all'esecuzione della pena in Italia.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Carni che formula i seguenti motivi di censura.
Violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 7 cod. pen. e all'applicazione dell'istituto della continuazione di cui all'art. 81 cod. pen. Sostiene il ricorrente che sebbene la pronuncia albanese abbia riconosciuto la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 143/3 del Codice penale
della Repubblica di Albania per avere con la sua condotta "ingenerato gravi conseguenze a ciascuna vittima", ciò non implica automaticamente il riconoscimento delle aggravanti speciali previste dal nostro ordinamento per il reato di truffa, soprattutto qualora il modello di condotta tenuto dal condannato
non integri gli estremi per il loro riconoscimento.
La sentenza impugnata non ha, dunque, operato nessun riconoscimento delle aggravanti speciali previste dai commi 2 e 3 dell'art. 640 cod. pen., mentre ha proceduto all'arbitraria applicazione dell'art. 61 n. 7 cod pen., che appare contraddittoria in relazione alla concomitante esclusione della diversa aggravante di cui all'art. 61 n. 11 cod. pen. dell'abuso delle relazioni d'ufficio, invece ritenuta dal giudice albanese.
Il ricorrente lamenta, inoltre, che la Corte di appello avrebbe profondamente riformato la sentenza straniera, applicando l'istituto della continuazione sullo erroneo presupposto che la norma incriminatrice albanese contemplerebbe una sorta di aggravante da continuazione interna, là dove prevede l'aumento della pena "se il fatto è commesso in concorso o più di una volta", invece esclusa dalla sentenza riconosciuta.
Violazione di legge e vizi di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, sebbene la pronuncia albanese abbia escluso in sentenza la pericolosità sociale dell'imputato, per avere egli stipulato atti notarili in favore delle persone offese, affinché le stesse, in difetto di
risarcimento, potessero rifarsi civilmente nei suoi confronti.
Violazione dell'art. 2 del Protocollo d'intesa tra Ministero della Giustizia, Autorità garante dell'infanzia e dell'adolescenza e Associazione Bambini Senza Sbarre Onlus, essendo il C attualmente padre di due minori, rispettivamente di uno e quattro anni di età, con i quali intrattiene un ottimo rapporto genitoriale.
3. Con successiva memoria del 1 marzo 2021, il difensore del C ha, inoltre, fatto presente di essere entrato in possesso di documenti che attestano come la sentenza albanese non sia ancora divenuta irrevocabile, essendo stata impugnata la decisione di secondo grado mediante ricorso per cassazione in data 29 agosto 2019, registrato presso la Suprema Corte albanese con il numero di
causa penale 53102-01006-00-2019, allegando pertinente documentazione di supporto.
4. E' stata di conseguenza avanzata richiesta al Ministero della Giustizia per acquisire, tramite interpello delle autorità albanesi, informazioni circa il carattere definitivo o meno della pronunzia albanese oggetto del riconoscimento, risposta pervenuta con nota del 19 aprile 2021.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va preliminarmente rilevato che, all'uopo interpellata mediante richiesta veicolata dal Ministero della Giustizia, l'autorità albanese e segnatamente la Procura presso il Tribunale del Distretto Giudiziario di Durazzo, con nota n. 15991/1 Prot (KB) del 19 aprile 2021, ha confermato che la sentenza penale n.
552 del 31 luglio 2017 emessa nei confronti dell'allora cittadino albanese CE deve considerarsi definitiva, poiché passata in giudicato in data 23 luglio 2019.
In termini puramente ipotetici, infatti, la non ancora intervenuta irrevocabilità della decisione posta alla base della richiesta delle autorità albanesi sarebbe stata di ostacolo al riconoscimento, atteso che uno dei requisiti per procedervi è proprio il carattere definitivo della pronuncia (art. 2, par. 1, Accordo aggiuntivo
tra Italia e Albania del 24 aprile 2002 sul trasferimento delle persone condannate), evenienza come anzidetto, però, non verificatasi.
Il tenore della risposta trova poi riscontro nella lettera dell'art. 462 del vigente codice di procedura penale albanese, da ultimo modificato con legge n. 35 del 2017, secondo cui quella emessa dalla Corte di appello è sempre una decisione definitiva (lett. eseguibile), laddove occorre una pronunzia della Corte Suprema
affinchè la sentenza divenga irrevocabile unicamente in tema di estradizione e di trasferimento delle persone condannate.
2. Nel merito il ricorso va dichiarato inammissibile poiché manifestamente infondato.
La Corte territoriale ha proceduto al riconoscimento della sentenza cercando di rispettare il più possibile il perimetro dell'accertamento penale definito dalla sentenza albanese, ricorrendo all'applicazione di istituti dell'ordinamento
nazionale che trovano corrispondenza sostanziale nelle norme di cui hanno fatto governo i giudici albanesi ed escludendo, per contro, quelli preclusi dalla peculiarità della fattispecie.
E' in tale prospettiva che non arbitrariamente la Corte di appello ha ravvisato nei fatti oggetto della decisione il delitto di truffa (art. 640 cod. pen.) aggravata dal danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61 n. 7 cod. pen.) per avere l'imputato con le condotte ascrittegli "ingenerato gravi conseguenze a ciascuna vittima", escludendo, invece, l'ulteriore aggravante di cui all'art. 61 n. 11 cod. pen. per le esaurienti e affatto contraddittorie argomentazioni svolte a pag. 5 della pronuncia impugnata.
In maniera del pari non arbitraria la Corte territoriale ha applicato l'istituto della continuazione sulla scorta della norma incriminatrice straniera (art. 143/3 Codice penale albanese) che contempla un'aggravante interna alla fattispecie astratta nel caso in cui il fatto sia commesso "in concorso a danno di più persone
o più di una volta", ipotesi la seconda del tutto sovrapponibile a quella di cui al secondo comma dell'art. 81 cod. pen.
Sebbene la difesa del ricorrente abbia contestato con veemenza tale interpretazione, il Collegio osserva che dalla lettura della sentenza straniera emerge che la condotta fraudolenta del ricorrente si sia esplicata quanto meno nei confronti di almeno tre persone (pag. 22 sent. albanese), risultando, perciò, la previsione incriminatrice violata più di una volta.
Preme in ogni caso evidenziare che, nel riconoscere la sentenza straniera, il giudice nazionale non è chiamato ad una rivalutazione completa delle relative risultanze probatorie, quanto ad un adattamento che, ferma la corrispondenza
tra dati oggettivi e pertinenti descrizioni normative, passa necessariamente attraverso il rilevamento di una sostanziale sovrapponibilità tra istituti dello ordinamento straniero con quelli del diritto nazionale.
E' improponibile, invece, la censura inerente la mancata concessione delle attenuanti generiche, attesa la natura della procedura di riconoscimento, che non consente al giudice nazionale valutazioni diverse da quelle condotte dal giudice
straniero.
Il ricorrente sostiene, invece, che l'affermazione del giudice albanese secondo cui egli che non avrebbe dimostrato "pericolosità criminale o il suo vero intento criminale" (pag. 18 ricorso) sarebbe pienamente compatibile con il riconoscimento delle attenuanti generiche, ma sembra evidente come al cospetto
di simile statuizione la Corte di appello avrebbe dovuto esercitare una discrezionalità incompatibile con la procedura di riconoscimento.
Infatti, pur fornendo una giustificazione di merito alla mancata concessione delle attenuanti, la Corte di appello lo fa in maniera giustamente perplessa circa "la possibilità di estendere fino a tali valutazioni discrezionali l'adeguamento della pena".
Quanto alla sanzione in concreto individuata (sei anni di reclusione) dalla Corte di merito, corrispondente a quella irrogata dal giudice albanese, il Collegio osserva innanzi tutto che alla base delle doglianze formulate alle pagg. 9-10 del
ricorso sta una erronea percezione del funzionamento del meccanismo giuridico del riconoscimento delle sentenze straniere su base convenzionale.
A differenza, infatti, di quanto stabilito dall'art. 735 cod. proc. pen. per i casi in cui non esista disciplina convenzionale che regolamenti il riconoscimento di cui all'art. 12 cod. pen. ed in cui la Corte d'appello è chiamata a determinare la pena che deve essere eseguita nello Stato (comma 1), a tal fine procedendo alla
conversione di quella stabilita nella sentenza straniera in una di quelle previste per lo stesso fatto dalla legge italiana (comma 2), diverso è il potere del giudice quando una disciplina convenzionale per contro sussista.
Tanto nel caso di convenzionale multilaterale, come nel caso della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate del 21 marzo 1983 applicabile al caso in esame, quanto di accordo bilaterale (nel presente caso quelli integrativi della Convenzione europea stipulati tra Italia e Repubblica di Albania), la Corte di appello, in forza da un lato del regime del proseguimento dell'esecuzione scelto con la legge di ratifica n. 334 del 25 luglio 1988 e dallo altro del carattere meramente integrativo della disciplina bilaterale, non deve convertire la pena inflitta dal giudice straniero ma limitarsi a recepirla, salvo il limite previsto dall'art. 10 della stessa Convenzione europea, della sua incompatibilità, per durata o natura, con quella edittale prevista dalla legislazione interna, nel qual caso potrà adattare detta sanzione a quella prevista Corte di Cassazione - copia non ufficiale per reati della stessa natura, purché non sia più grave o più lunga (esattamente in termini v. Sez. 6, n. 14505 del 20/03/2018, Di Simone, Rv. 272480).
Il riconoscimento della sentenza penale straniera costituisce, infatti, istituto complementare al rinnovamento del giudizio in Italia ed entrambi rappresentano mere alternative all'obbligo di estradizione verso il Paese con cui vige un regime convenzionale di consegna, sicché deve il più possibile essere rispettato il dictum della sentenza straniera ai sensi dell'art. 3, comma 2, della legge n. 257 del 3 luglio 1989 che rinvia ai fini della concreta determinazione della pena all'art. 10 della citata Convenzione europea del 21 marzo 1983, secondo cui lo Stato di esecuzione gode di un limitato potere di adattamento e soltanto quando la natura e la durata della sanzione stabilite dallo Stato di condanna siano incompatibili con la legge dello Stato di esecuzione, situazione che evidentemente non ricorre nel caso in esame con riferimento all'ipotesi di truffa aggravata e continuata di cui agli artt. 81 cpv., 640, 61 n. 7 cod. pen. che astrattamente contempla la pena detentiva edittale massima di dodici anni di reclusione.
Manifestamente infondato è, infine, l'ultimo motivo di censura, secondo cui la circostanza che il ricorrente sia divenuto medio tempore genitore osterebbe al riconoscimento della sentenza e all'esecuzione della pena: trattasi, infatti, di
doglianza del tutto eccentrica rispetto ai poteri spettanti al giudice nazionale nella procedura di riconoscimento della decisione straniera su base convenzionale.
3. Alla dichiarazione d'inammissibilità dell'impugnazione segue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, che stimasi equo quantificare in C 3.000,00 (tremila).
P. Q. M.
dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuale e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso, 7 ottobre 2021 (deposito 11 novembre 2021)