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Registrare la moglie nuda a sua insaputa è reato (Cass. 36109/18)

27 luglio 2018, Cassazione penale

Commette reato il padrone di casa che registra in casa immagini attinenti alla vita privata degli altri che vi si trovino, sia come conviventi o come ospiti,  salvo vi sia condivisione dell'attività registrata. Il discrimine tra interferenza illecita e lecita non è infatti dato dalla natura del momento di riservatezza violato, bensì dalla circostanza che il soggetto attivo vi sia stato o meno partecipe.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 maggio – 27 luglio 2018, n. 36109
Presidente Fumo – Relatore Pistorelli

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Brescia ha confermato la condanna di C.M. per il reato di minaccia aggravata commesso in danno della moglie P.A. , mentre in parziale riforma della pronuncia di primo grado e in accoglimento dell’appello della parte civile, ha poi riconosciuto la responsabilità dello stesso imputato ai soli effetti civili per il reato di interferenze illecite nella vita privata, con rideterminazione del disposto risarcimento dei danni.
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato, a mezzo del proprio difensore, articolando due motivi. Con il primo deduce errata applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della fattispecie di interferenze illecite. In particolare il ricorrente richiama le argomentazioni del giudice di primo grado, che aveva escluso il delitto in oggetto sul presupposto che esso si configuri solo allorché la condotta intrusiva provenga da un terzo estraneo alla vita privata della persona ripresa, non anche quando provenga da un soggetto in qualche modo ammesso a farne parte, come il coniuge convivente. Per altro verso le pronunzie di legittimità citate dalla Corte territoriale a sostegno dell’opposta tesi si riferirebbero alla diversa ipotesi di indebita captazione di conversazioni telefoniche del convivente intrattenute con terzi e destinate come tali a rimanere riservate e, dunque, a fattispecie non assimilabile a quella contestata. Nel caso di specie l’imputato ha invece ripreso attimi della vita quotidiana condivisa con la sua famiglia, non potendo pertanto ravvisarsi alcuna indebita intrusione. Con il secondo motivo lamenta poi gli stessi vizi in relazione al reato di minaccia aggravata, chiedendone la derubricazione in minaccia semplice con consequenziale estinzione del reato per tardività della querela. Infatti la Corte territoriale avrebbe ritenuto irrilevante che la denunzia di tale fatto fu sporta a distanza di due anni e mezzo dalla sua consumazione, circostanza che si ritiene invece determinante nel valutare la sussistenza di un effettivo turbamento psichico tale da giustificare la ritenuta qualificazione.
3. Con memoria depositata il 27 aprile 2018 la parte civile ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile o comunque rigettato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato e per certi versi inammissibile.
2. Infondato è anzitutto il primo motivo. Va osservato preliminarmente che l’art. 615-bis c.p., primo comma, punisce esclusivamente colui che si procura indebitamente immagini o notizie attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi di privata dimora utilizzando mezzi di ripresa visiva o sonora. Dalla ricostruzione del fatto tipico si evince dunque che oggetto giuridico del reato è la riservatezza domiciliare, formula che identifica il diritto alla esclusiva conoscenza di quanto attiene alla sfera privata domiciliare e cioè all’estrinsecazione della personalità nei luoghi di privata dimora. In altri termini oggetto di tutela è la proiezione spaziale della personalità nei luoghi in cui questa si manifesta privatamente.
2.1 Come osserva anche il ricorrente, la norma incriminatrice sanziona i soli comportamenti di interferenza posti in essere da chi risulti estraneo agli atti di vita privata oggetto di indebita captazione. Ciò perché altrimenti il bene giuridico della riservatezza domiciliare non risulterebbe leso. E pertanto chi partecipa, con l’assenso dell’offeso, alla scena ritratta (sia essa domestica, intima, o comunque tale da non rendersi percepibile ad una generalità indeterminata di persone) non può essere soggetto attivo del reato (Sez. 5, n. 22221 del 10 gennaio 2017, PM in proc. D.M., Rv. 270236).
2.2 In proposito è però necessaria una precisazione. Non risulta infatti decisivo per escludere la rilevanza penale della condotta che il fatto avvenga nell’abitazione di chi ne sia autore, giacché ciò che rileva è che il dominus loci non sia estraneo al momento di riservatezza captato. Conseguentemente risponde del reato anche chi predispone mezzi di captazione visiva o sonora nella propria dimora carpendo immagini o notizie attinenti alla vita privata degli altri soggetti che vi si trovino, siano essi stabili conviventi od occasionali ospiti. Mentre non risponde dello stesso reato colui che condivide con i medesimi soggetti e con il loro consenso l’atto della vita privata. Il discrimine tra interferenza illecita e lecita non è infatti dato dalla natura del momento di riservatezza violato, bensì dalla circostanza che il soggetto attivo vi sia stato o meno partecipe (cfr. in motivazione. Sez. 5, n. 22221 del 10 gennaio 2017, PM in proc. D.M., cit.).
2.3 Non si discosta da tale criterio neppure la sentenza citata dal ricorrente e ripresa dalle argomentazioni del giudice di primo grado (Sez. 5, n. 1766/08 del 28 novembre 2007, Radicella Chiaramonte, Rv. 239098). Essa, invero, stimando lecita la condotta di un soggetto che aveva filmato dei rapporti sessuali intrattenuti con la convivente, lo ha assolto dal reato in quanto le immagini concernevano "anche la sua persona nell’ambiente ad entrambi riservato", con ciò ammettendo la configurabilità del reato anche a carico del dominus loci in presenza delle seguenti condizioni: 1) che egli non compaia nelle registrazioni effettuate; 2) che egli risulti, anche momentaneamente, escluso dal luogo ripreso a beneficio della riservatezza altrui.
2.4 Condizioni che, entrambe, ricorrono nel caso di specie. È emerso infatti - si tratta di circostanze ammesse dall’imputato e non contestate con il ricorso - che il C. ha filmato la propria moglie in bagno o in camera da letto, nuda o seminuda, intenta alla cura della propria persona o all’igiene del corpo, senza che risulti in alcun modo che la donna volesse condividere con l’imputato i descritti momenti di intimità. Il C. non era dunque ammesso a partecipare agli stessi, come ha accertato la Corte territoriale sulla scorta delle dichiarazioni dell’imputato. Deve allora ritenersi che, pur nella sua qualità di coniuge e quindi di soggetto in generale coinvolto nella vita privata della P. , egli fosse estraneo alla visione di quelle specifiche attività indebitamente captate ed oggetto di protezione in quanto private. Pertanto non sussiste l’errore di diritto lamentato, mentre la motivazione sul punto appare congrua e logicamente argomentata.
3. Il secondo motivo è invece inammissibile in quanto manifestamente infondato e generico. La Corte territoriale ha ben spiegato come l’idoneità della minaccia ed il suo grado di offensività debbano essere valutati ex ante tenendo conto delle circostanze del caso concreto.

Ed alla luce di questo criterio ha ritenuto che la frase proferita - "ti pianto un coltello nella pancia", nel momento in cui l’imputato aveva in mano un coltello da cucina che stava utilizzando per uso domestico - fosse stata effettivamente turbata ed in misura rilevante la tranquillità della persona offesa. Né a riguardo prosegue la motivazione - può assumere rilievo la tardività della denunzia del fatto, posto che la persona offesa aveva tergiversato nel tentativo di ricomporre nel frattempo il rapporto coniugale. A fronte di tale puntuale giustificazione il ricorrente si limita a reiterare l’eccezione già disattesa, chiedendo a questa Corte di rivalutare il dato della tardività della querela ponendolo a fondamento di una diversa e più favorevole qualificazione giuridica. Ma il dato evocato non è decisivo, siccome, invero, in materia di minaccia ex art. 612 c.p., concorde giurisprudenza di legittimità invita il giudicante a ritenere superfluo che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo semplicemente sufficiente che la condotta posta in essere dall’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale dello stesso (ex multis Sez. 5, n. 46528 del 2 dicembre 2008, Parlato e altri, Rv. 242604). Il delitto di minaccia è infatti reato di pericolo che non presuppone la effettiva intimidazione della persona offesa, ma solo la comprovata idoneità della condotta a provocarla. Idoneità che occorre valutare con riguardo ad un criterio di medialità che rispecchi le reazioni dell’uomo comune (ex multis Sez. 1, n. 47739 del 6 novembre 2008, Giuliani, Rv. 242484; Sez. 5, n. 8264 del 29 maggio 1992, Mascia, Rv. 191433). E ciò vale anche per la minaccia grave, essendo il giudice tenuto solamente ad esprimersi sull’entità del turbamento psichico che la minaccia può determinare sul soggetto passivo (Sez. 5, n. 44382 del 29 maggio 2015, Mirabella, Rv. 266055). Nel caso di specie non v’è dubbio che, a prescindere dall’entità del timore ingenerato in concreto nella persona offesa (che il ricorrente vorrebbe attenuare introducendo il dato lamentato, ma che la Corte ha invece ritenuto sussistere in misura rilevante) l’applicazione dei predetti principi incentrati, appunto, sulla idoneità in astratto della minaccia e non sul concreto grado di lesione che il bene abbia patito - conduce inevitabilmente a qualificare la minaccia contestata come grave. Peraltro - e il rilievo è invero assorbente - rimane incontestato che la minaccia venne portata brandendo un’arma e cioè attraverso una delle condotte che lo stesso capoverso dell’art. 612 c.p. ha a priori qualificato integrare l’aggravante in quanto corrispondenti ad una delle fattispecie previste dall’art. 339 c.p., richiamato dalla disposizione precedentemente citata.
4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e l’imputato condannato al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile che si liquidano in complessivi Euro 2.500, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 2.500, oltre accessori come per legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge.