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Il diritto di resistenza rispetto a fatti di incitamento dell'odio razziale

26 marzo 2012, Nicola Canestrini

Avvertenza: Si tratta di una memoria difensiva (opportunamente modificata per necessità di rispetto delle regole deontologiche) dd. 17 giugno 2010 agli atti del procedimento penale 2085/10 R.G.G.I.P. Tribunale di Trento che ipotizzava la sussistenza del reato di cui all'articolo 594 e 635 Codice penale (diffamazione e danneggiamento) per avere gli imputati definito, anche mediante apposizione di fogli A4 sui cartelli elettorali, "razzista" le affissioni elettorali della Lega Nord che invocavano una "Trento cristiana mai musulmana" . 

Il nostro ordinamento ha certamente uno dei propri capisaldi nel principio della libera manifestazione del pensiero codificato nell'articolo 21 della nostra Carta Costituzionale, "pietra angolare del sistema democratico" (Corte Costituzionale 19.02.1965, n.9; 17.4.1969, n.84): da tale diritto discendono, come è noto, il diritto di cronaca e quello di critica.

Tali principi giustamente permettono a chiunque di esprimere le proprie opinioni soggettive, anche fortemente critiche o aspre, nei confronti di chi lo circonda, garanzia ultima di democrazia e civiltà; vi è peraltro il limite così ben riassunto del divieto di diffusione di idee razziste

Poiché al diritto di critica politica - che pur consente una maggiore asprezza di toni e di espressioni - non può essere accordata valenza assoluta, dovendo anch'esso venir bilanciato, come tutti quelli riconducibili alla libertà di manifestazione del pensiero, con l'esigenza di moralità della condotta e di tutela dei diritti fondamentali ed in particolare della dignità umana, trattandosi di libertà finalizzata allo sviluppo ed alla più completa realizzazione della personalità, come emerge anche dalla giurisprudenza europea applicativa della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (secondo cui la libertà di manifestare il proprio pensiero può essere oggetto di quelle limitazioni, previste dalla legge, che costituiscono misure necessarie in una società democratica per la sicurezza pubblica, la protezione dell'ordine, della salute, della morale pubblica, dei diritti e delle libertà degli altri, fra cui in specie di quelle il cui godimento non può essere oggetto di discriminazioni fondate sulla razza), è da escludere la sussistenza della causa di giustificazione del diritto di cronaca politica predetta nelle condotte integranti diffusione di idee di superiorità razziale e di incitamento ad atti di discriminazione razziale. (Tribunale Verona, 24 febbraio 2005, n. 2203)

Non a caso lo si rileva in questa sede, essendo stata la sentenza emessa proprio nei confronti di esponenti della Lega Nord.

Si pone peraltro il problema non tanto dell'esercizio del diritto di critica per gli odierni indagati, rei di aver dato dei razzisti alla agli esponenti polici di cui si tratta: si pone la questione se tale fatto sia vero.

Cos'è il razzismo ?

L'analisi dell'evoluzione di tale ideologia nell'epoca moderna, rispetto alle sue origini da alcune correnti del positivismo darwiniano del XIX secolo, passa per le formulazioni affermatesi nel XX secolo e sfociate nelle tragiche esperienze totalitarie del nazismo e del fascismo, giungendo fino alle molteplici ramificazioni degli ultimi tempi, attraverso cui si è avuto, nella cultura della società contemporanea, un "adattamento" alla coscienza antirazzista impostasi a livello mondiale nel secondo dopoguerra, proprio per il drammatico epilogo di quelle esperienze storiche.

In questa sede preme sottolineare alcuni punti di particolare rilievo .

Il partito di cui si tratta, invero, non definisce come "razzista" l'ideologia che promuove, né come "razzisti" i suoi sostenitori, denominati piuttosto "patrioti", in quanto eserciterebbero una "reazione difensiva" di fronte ad un fenomeno che minaccerebbe l'identità della comunità alla quale appartengono: "in un certo senso sono assimilabili a dei partigiani che resistono contro l'occupazione di forze armate straniere".

Ma proprio sulla base delle analisi svolte da eminenti studiosi emerge che il razzismo oggi non si fonda più su argomenti concernenti una presunta disuguaglianza biologica fra le razze, quale sostenuta nel 1800 nell'intento di dargli un fondamento filosofico e scientifico che lo saldasse in qualche modo alle teorie evoluzioniste sulla differenziazione delle specie, bensì su formulazioni simboliche, adattate al periodo storico contemporaneo di diffusa critica e fermo rifiuto del razzismo come ideologia, quale affermatasi nell'epoca nazista, in modo da sfuggire alla stigmatizzazione sociale ed alla stessa legislazione antirazziale, diffusa ovunque a livello internazionale dopo l'ultimo conflitto mondiale.

Paradossalmente, in questa nuova versione il razzismo sembra adattarsi alla cultura pluralista contemporanea, celebrando il "principio della differenziazione", ma giungendo sempre a rifiutare, escludere ed emarginare il "diverso".

Come sottolinea il Tribunale di Verona nella sentenza citata, proprio dal presupposto dell'esistenza di categorie di uomini differenti tale ideologia muove per introdurre una differenza nella stessa differenza, ipotizzando una sorta di differenziazione "anomala", che consente di rimproverare ai "diversi" non tanto di essere differenti, quanto di esserlo "in modo anomalo", sulla base di valutazioni negative fondate sulla morale, l'etica, la "civiltà" del gruppo cui invece appartiene chi si giudica superiore: "non si stigmatizza lo zingaro per essere zingaro, ma perché egli vive come uno zingaro, dunque come si ritiene che vivano tutti gli zingari, prediligendo il nomadismo, l'accattonaggio, la nullafacenza, la ruberia".

Il secondo passaggio di tale posizione ideologica è che questa categoria di uomini "anormalmente" diversi raggrupperebbe, dunque, soggetti pericolosi e/o inutili, rispetto alla categoria degli altri uomini "superiori": per cui ad essi spetta "il rifiuto sociale, in modo incondizionato e totale, in quanto inassimilabili o inadatti ad integrarsi nella vita sociale".

Pur se pubblicamente viene dichiarata un'astratta "uguaglianza fra le razze", senza discriminazioni fondate su dati di natura biologica, l'esaminato atteggiamento ideologico porta a concludere egualmente per l'incompatibilità delle culture, delle mentalità, delle civiltà, giustificando così misure di esclusione, di espulsione, di emarginazione di coloro che sono ritenuti e/o additati come "inassimilabili" o "non integrabili".

Il razzismo contemporaneo, o neorazzismo, evita dunque il tabù di evocare esplicitamente il concetto culturalmente sospetto di "razza" in quanto tale, per presentarsi "implicitamente" sotto la forma di una teoria (c.d. razzismo implicito), che attua un compromesso tra le pulsioni di ostilità nei confronti dell'"Altro", ritenuto diverso da sé per razza, etnia o nazione, ed il rispetto formale della normativa antirazzista "interiorizzato grazie all'educazione o al senso di utilitaristico interesse socio-politico-economico".

Anche sotto questa formulazione emerge, però, l'essenza dell'ideologia razzista che, assolutizzando la differenza fra le culture, considera l'esistenza di razze diverse o, meglio, le differenze tra "categorie di uomini" quale fattore essenziale della storia, che fonda il diritto delle razze o categorie "di uomini superiori" a dominare quelle "di uomini inferiori". Per cui va ricompreso nell'ambito del divieto stabilito dalla legislazione penale italiana, conforme a quella internazionale di cui si dirà.

Come puntualmente conclude la sentenza del Tribunale di Verona, è questa l'ideologia che si manifesta nella rivendicazione populista e propagandata di un'identità culturale da affermare o "difendere" a tutti i costi, quale la presunta "identità veneta veronese" (o trentina: cfr. lo slogan "Trento cristiana mai musulmana"!), che porta ad imporre a chi è "Altro" - in ragione della sua posizione di estraneo al gruppo - meccanismi di chiusura sociale, di esclusione, di emarginazione. Alla sua base vi è infatti un giudizio di valore, che afferma la superiorità di un popolo, di un'etnia, di un gruppo sull'altro, tanto da stigmatizzare l'ibridazione e rifiutare il mescolamento (cosiddetto meticciato), inducendo ed esaltando, piuttosto, la necessità difensiva nei confronti della cultura diversa, percepita come nemica proprio sulla base della "visione differenzialista" del mondo.

Così individuato l'ambito di rilevanza della nozione attuale di "razzismo", è possibile individuare meglio l'oggetto della tutela offerta dalle incriminazioni applicate, da ravvisare nella "dignità di ogni uomo ad essere considerato come egli è, per razza, per etnia, per nazione o per credo religioso".

È concettualmente e culturalmente preferibile fondare proprio sull'elaborazione del contenuto attuale della nozione di "razzismo", oggetto di specifico contrasto ai massimi livelli del diritto interno ed internazionale, l'esplicito riconoscimento che il diritto inviolabile della dignità umana (Menschenwürdigkeit, secondo l'efficace espressione del diritto costituzionale tedesco), riferito a persone concrete, appartenenti a gruppi ben individuati od individuabili, rappresenta l'interesse o bene giuridico protetto dalla normativa penale in esame, come tale ben distinguibile dalla generica prospettiva di garanzia della sicurezza e stabilità delle condizioni della vita sociale, che è ratio non solo di questa, ma anche di una molteplicità di altre fattispecie penali.

Il bene giuridico della dignità dell'uomo viene piuttosto a specificarsi come "diritto di ciascuno alla differenza", vale a dire "ad essere come si è, per natura ed appartenenza ad una determinata razza, etnia, nazione o religione": diritto personale, che merita piena tutela nell'interesse stesso della collettività, in cui le diverse persone vivono, perché - come ben sottolinea la sentenza - "se si cancellasse la variabilità culturale dell'umanità si negherebbe tutto ciò che di specifico esiste nell'esistenza umana" .

Solo garantendo la "dignità di persona" di tutti, a prescindere dalla razza, dal colore della pelle, dalla etnia, dalla nazionalità, dalla religione, si rende effettiva l'uguaglianza fra gli uomini, che implica pieno rispetto anche dell'identità culturale del gruppo di appartenenza.

Riprendendo un pensiero di Hannah Arendt , si deve qui sottolineare che tale "antirazzismo è una conquista", acquisita dopo le tragiche esperienze storiche dell'umanità, che resta perciò ancora, per molti versi, un traguardo da raggiungere. E per garantire la stabilità di tale conquista, occorre non solo dar rilievo primario al bene della persona, di cui è indiscutibile la "meritevolezza", bensì riconoscere anche la "necessità" della tutela penale, in conformità con l'esigenza di sussidiarietà (od extrema ratio) dell'intervento della massima sanzione punitiva, di fronte all'insufficienza di altre meno incisive tecniche di tutela, dimostratesi inefficaci a garantire realmente la protezione della "dignità dell'uomo" dagli effetti inaccettabili di ideologie ed esternazioni, che le recano concretamente offesa.

E proprio tali conquiste antirazzista vengono concretamente poste in dubbio dalla Lega, che non disdegna (anzi: ne fa strumento di persuasione e non solo in sede di campagna elettorale!) di diffondere idee fondate proprio sulla inferiorità dell'altro, giungendo ad affermazioni che - come si è detto - hanno visto suoi esponenti condannati per la violazione della legge Mancino.

Non pare in questa sede inutile sottolineare come anche in sede europea la Lega si stata più volte definita razzista, con prese di posizioni anche dure ("Io ne ho più che abbastanza, non voglio essere complice di razzisti intolleranti": così testualmente Herman Verheirstreaten, ex segretario degli Autonomisti ed Indipendentisti dell'Alleanza Libera Europea nel gennaio 2009, senza menzionare il paragone esplicito a Hitler in una lettera aperta di un deputato al Parlamento europeo On. Nelly Maes, esponente indipendentista!).

E' diffamatorio chiamare i leghisti razzisti? E' diffamatorio sostener lo stampo razzista di volantini quali "fermiamoli arrivano a milioni - stop - fuori dalle palle" con raffigurazioni denigratorie di neri che con la solita finezza intellettuale pronunciano frasi quali vu ciulà? Vu stuprà? Vu cumprà? Vu sballà?

Si pone, fra i molteplici aspetti che i fatti di cui si trattano solleticano, il problema del cd. diritto di resistenza di fronte a condotte che così palesemente si pongono in contrasto con la Costituzione, fondata sulla idea dell'uguaglianza delle persone (art. 3).

In sede di stesura della nostra Grundnorm , nel 1946 la sottocommissione incaricata all'interno della Commissione dei 75 (cosi detta dal numero dei componenti) di elaborare la prima parte della Costituzione, inserisce nel Progetto di Costituzione, al secondo comma dell'art.50, la seguente disposizione:

"Quando i pubblici poteri violino le liberta' fondamentali ed i diritti garantiti dalla costituzione, la resistenza all'oppressione e' diritto e dovere del cittadino" .

Nel maggio 1947, quando il Progetto di Costituzione e' discusso nel plenum dell'Assemblea Costituente, alcuni Deputati, appartenenti soprattutto al Partito Liberale e al Partito Repubblicano, pur non dichiarandosi, in linea di principio, contrari al riconoscimento costituzionale del diritto di resistenza, sollevano dei dubbi sull'opportunità del suo inserimento nella Costituzione ottenendone la non menzione .

Pur non essendo dunque espressamente codificato nella Carta Costituzionale, secondo autorevoli costituzionalisti, il "diritto di resistenza all'oppressione" e' implicitamente legittimato, essendo una delle garanzie di difesa della Costituzione, in caso di violazione dei principi fondamentali in essa stabiliti.

Infatti, il diritto di resistenza trova la sua legittimazione nel principio della "sovranità popolare" , sancito nell'art. 1 della nostra Costituzione , che quindi rappresenta la legittimazione all'intero ordinamento giuridico.

La "sovranità", peraltro, e' attribuita ad ogni singolo cittadino, come membro del popolo, e non solo al popolo nel suo insieme.

E' stato dunque sostenuto che nel nostro ordinamento giuridico, ci sono varie norme che stabiliscono la legittimità della resistenza individuale ( cioè del singolo individuo) di fronte al provvedimento illegittimo (anche se apparentemente legittimo) dell'autorità e/ o al comportamento arbitrario di un pubblico funzionario .

In verità, l'art. 54 della Costituzione sancisce:

"Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini, cui sono affidate le funzioni pubbliche, hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento".

Non si deve però confondere il dovere di fedeltà con quello di obbedienza.

Sono infatti due concetti diversi: la fedeltà alla Repubblica precede , logicamente e concettualmente, l'osservanza delle leggi dello Stato. Pertanto, il dovere di fedeltà alla Repubblica, e quindi alla Costituzione ed in particolare ai principi fondamentali in essa stabiliti, prevale sul dovere di obbedienza, di cui peraltro costituisce il presupposto giuridico.

Quindi, in caso di contrasto delle leggi in vigore con i principi fondamentali dell'Ordinamento Costituzionale, e' sempre l'obbedienza a questi ultimi che prevale sull'obbedienza alle leggi.

Peraltro, la semplice obbedienza alle leggi non esaurisce l'obbligo di fedeltà alle Istituzioni, che richiede un comportamento concreto in sintonia con i principi fondamentali sanciti dalla Carta Costituzionale. Non a caso il diritto di resistenza e' stato concepito nel 1946 (quando viene inserito nell'art.50 del Progetto di Costituzione) come collegato al dovere di fedeltà, stabilito dall'art. 54 ( già art. 50 del Progetto), anche se in un primo momento era stato collegato al principio della sovranità popolare.

Naturalmente, la resistenza non puo' essere esercitata in forma violenta, perchè, per difendere un diritto fondamentale, leso dall'esercizio arbitrario di pubbliche funzioni, non si può ledere e sacrificare altri diritti fondamentali, di pari o maggiore rilevanza, quale quello alla vita ed alla sicurezza delle persone.

E i fatti addebitati agli imputati, rei di aver bollato come razzista la propaganda elettorale del partito politico di cui si tratta, paiono proprio essere ispirati al diritto alla resistenza della società civile, che peraltro ben può concretamente accompagnarsi all'esercizio di altri diritti costituzionalmente garantiti quali quelli della libera manifestazione del pensiero, pietra angolare del sistema democratico secondo gli insegnamenti della Corte Costituzionale .

 

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