L'obbligo di soccorso in mare è previsto da una norma di diritto internazionale consuetudinario generalmente riconosciuta vigente direttamente nell'ordinamento italiano in ragione dell'art. 10 Cost., comma 1.
Si tratta di un obbligo funzionale alla tutela di diritti fondamentali di tutte le persone. Assumono rilievo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), aperta alla firma a Montego Bay il 10 dicembre 1982, entrata in vigore il 16 novembre 1994, ratificata con L. 2 dicembre 1994, n. 689, che, all'art. 98, comma 1, prevede che il comandante della nave deve prestare soccorso "a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita quanto più velocemente possibile", nei limiti della ragionevolezza dell'intervento; al comma 2 lo stesso articolo chiarisce che ogni Stato costiero è tenuto a "promuovere l'istituzione, l'attivazione e il mantenimento di un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso relativo alla sicurezza in mare e, ove le circostanze lo richiedano, di cooperare a questo scopo attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi".
L'indicato obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare enunciato dalla Convenzione UNCLOS costituisce un'esplicazione di due accordi internazionali in precedenza elaborati in seno all'Organizzazione Internazionale Marittima (IMO), ratificati da un ampio numero di Paesi, e tutt'oggi in vigore: la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (con Allegato -Safety of Life at Sea - SOLAS-) aperta alla firma a Londra il 1 novembre 1974, entrata in vigore il 25 maggio 1980, cui l'Italia ha aderito con L. 23 maggio 1980, n. 313 e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (con Annesso - Search and Rescue - SAR), aperta alla firma ad Amburgo il 27 aprile 1979, entrata in vigore il 22 giugno 1985, cui l'Italia ha aderito con L. 3 aprile 1989, n. 147 (dal 2005, anche la Libia è parte della Convenzione SAR e dal 2018 è istituita una zona SAR di questa).
Per quanto riguarda la Convenzione SOLAS, ai sensi del cap. V, Regolamento 33, dell'Allegato, il comandante di una nave in posizione idonea a prestare assistenza, che abbia ricevuto informazioni sulla presenza di persone in una situazione di pericolo in mare, è obbligato "a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza". Al contempo, in base al cap. V, Regolamento 7, dell'Allegato, gli Stati parte sono tenuti "a garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste". La ricerca e il soccorso sono disciplinati dalla Convenzione SAR che si fonda sul principio di cooperazione e che prevede una ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio d'intesa tra gli Stati interessati, i quali sono tenuti ad approntare piani operativi che prevedano le varie tipologie d'emergenza e le competenze dei centri preposti. Ai sensi della Convenzione SAR, le autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento in base agli accordi stipulati, le quali abbiano avuto notizia, dall'autorità di un altro Stato, della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare SAR di propria competenza, devono intervenire immediatamente; ai sensi del par. 2.1.10 dell'Annesso, devono assicurare "... che sia fornita assistenza a ogni persona in pericolo in mare... senza tener conto della nazionalità o dello status di tale persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata". Ai sensi del par. 1.3.2 dell'Annesso della Convenzione SAR, per salvataggio si intende una "operazione destinata a recuperare le persone in pericolo e a prodigare loro le prime cure mediche o altre di cui potrebbero aver bisogno e a trasportarle in un luogo sicuro". L'espressione "luogo sicuro" viene utilizzata anche nel par. 3.1.9 dell'Annesso, dove è previsto che la parte responsabile dell'area di ricerca e di salvataggio nella quale si procede "dovrà esercitare la primaria responsabilità per assicurare che siano svolti il coordinamento e la cooperazione, in modo che i superstiti assistiti siano sbarcati dalla nave che ha prestato assistenza e consegnati in un luogo sicuro" e che "lo sbarco sia effettuato al più presto, come ragionevolmente praticabile".
Dal tenore letterale dalla SAR, dunque, si evince che l'operazione di salvataggio può dirsi conclusa solo quando il naufrago sia stato sbarcato, esito che deve avvenire il più presto possibile e in un "luogo sicuro".
Cassazione penale
sez. VI, ud. 23 novembre 2021 – 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), n. 15869
Presidente Mogini – Relatore Silvestri
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato T.I.M.B. e A.I. per i reati previsti dagli artt. 336,337 e 339 c.p. e D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, commi 2 e 3 bis. Gli imputati, in concorso tra loro e con altri, avrebbero usato violenza e minaccia per opporsi all'equipaggio ed al comandante del rimorchiatore battente bandiera italiana "Vos Thalassa", al fine di costringere questi al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio. In particolare, dopo che si era proceduto al soccorso in area Sar Libica di 67 migranti di diversa nazionalità, dandone comunicazione a Roma - che a sua volta aveva interessato la Guardia Costiera libica- e dopo che era stata impartita la direttiva di dirigersi verso le coste africane al fine di effettuare il trasbordo dei migranti su una motovedetta libica, gli imputati accerchiavano e minacciavano di morte il marinaio di guardia Lu. e il primo ufficiale P.. Tali condotte costringevano il comandante del rimorchiatore ad invertire la rotta, a fare ritorno presso il punto di soccorso, a richiedere l'intervento delle autorità italiane - onde evitare l'incontro con motovedette libiche e scongiurare la situazione di pericolo creatasi - e, quindi, a dirigersi verso le coste italiane per ricevere i soccorsi dalla nave militare "Diciotti" (così l'imputazione contestata al capo a). In tal modo gli imputati avrebbero compiuto atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso nel territorio dello Stato di un numero imprecisato- ma comunque superiore a cinque- di migranti clandestini di varie nazionalità, "trasbordati", a causa della condotta illecita descritta, sulla nave militare "Diciotti", che giungeva al porto di Trapani (Capo b).
Il Tribunale aveva assolto ritenendo sussistente la scriminante della legittima difesa prevista dall'art. 52 c.p.; gli imputati avrebbero reagito per non essere respinti in Libia, dove sarebbero stati esposti al pericolo di violenze e di trattamenti inumani e degradanti. 2.
Ha proposto ricorso per cassazione T.I.M.B. articolando cinque motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge processuale prevista a pena di inammissibilità; l'atto di appello proposto dal Procuratore della Repubblica con riferimento al capo b) avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, attesa la mancata indicazione delle ragioni idonee a fondare la responsabilità degli imputati. La Corte di appello avrebbe irritualmente ritenuto fondato l'appello per "motivi diversi", con ciò violando il principio devolutivo, tenuto peraltro conto che il Tribunale aveva chiarito come i due imputati non fossero scafisti ma solo passeggeri e, dunque, non responsabili del reato contestato.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis, con riguardo ad entrambi i capi di imputazione. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuta superflua la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale laddove, argomenta il ricorrente, proprio la diversa valutazione sulla configurabilità della scriminante avrebbe imposto un'indagine ulteriore in ordine alle dichiarazioni assunte nel corso del procedimento dagli altri migranti, valorizzate dal Tribunale per escludere che il pericolo derivante dalla riconsegna alle autorità libiche potesse essere stato volontariamente causato dagli imputati.
2.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della scriminante della legittima difesa con riferimento al requisito della determinazione volontaria del pericolo. Secondo la Corte di appello, la situazione di pericolo sarebbe stato volontariamente creata dai migranti avendo essi pianificato una traversata in condizioni pericolose ed avendo chiesto i soccorsi al fine di essere "recuperati" dalle imbarcazioni di salvataggio: in particolare, la situazione di pericolo e di necessità sarebbe stata artificiosamente organizzata al fine di "stimolare" (così il ricorso) un intervento di supporto che conducesse all'approdo dei clandestini ed al perseguimento delle finalità dell'organizzazione criminale. L'azione del rimorchiatore (omissis) e il respingimento, secondo la Corte, non sarebbero scindibili ed autonome rispetto alla condotta precedente, volutamente finalizzata a creare lo stato di necessità dagli scafisti e dagli stessi migranti; dunque, una globale situazione di pericolo originata anche dai migranti in quanto connessa alla "ragionevole speranza che questi fossero condotti sulle coste Europee, sotto la protezione dell'azione di salvataggio". Secondo il ricorrente, invece, si tratterrebbe di un'affermazione errata in quanto la volontà dei migranti sarebbe stata solo quella di giungere sulle coste italiane con il mezzo a disposizione dei trafficanti; la Corte avrebbe errato, da una parte, nell'estendere alla legittima difesa il requisito del pericolo non volontariamente creato, previsto solo per lo stato di necessità dall'art. 54 c.p., e, dall'altra, nella stessa individuazione della situazione di pericolo rispetto alla quale valutare la reazione scriminata. Si fa riferimento alla condotta tenuta dagli imputati quando ebbero consapevolezza che il rimorchiatore (omissis) aveva invertito la rotta per dirigersi verso le coste libiche: l'accertamento e la verifica della legittimità della reazione da parte dei ricorrenti e, quindi, della invocata scriminate avrebbero dovuto essere compiuti in relazione al solo pericolo di respingimento verso la Libia e non anche rispetto al rischio del naufragio, che, in realtà, quando la condotta di resistenza fu commessa, era stato già scongiurato e non era più attuale per effetto dell'intervento di salvataggio.
I migranti, si assume, avrebbero avuto diritto "non essere respinti verso un paese, la Libia, in cui sarebbero stati esposti al rischio di torture e di trattamenti degradanti ed inumani; il respingimento in Libia sarebbe stata "una evoluzione del tutto estranea al naturale decorso degli eventi nell'ambito delle operazioni di soccorso" e ciò avrebbe cagionato la reazione.
La Corte, si aggiunge, avrebbe errato anche nell'affermare che i migranti avevano accettato il pericolo di naufragio quando intrapresero la traversata del Mediterraneo; i Giudici di appello non avrebbero infatti considerato lo stato di coazione in cui le persone erano sottoposte in Libia e nei paesi di origine, né avrebbero tenuto conto:
a) della nota dell'UNHCR - valorizzata invece dal Tribunale- che descriveva la situazione dei migranti in Libia al momento in cui i fatti si verificarono - nel luglio del 2018 -;
b) della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo che aveva riconosciuto lo stato di soggezione a cui erano sottoposti i migranti in Libia;
c) delle dichiarazioni rese da alcuni soggetti che erano sulla imbarcazione (si fa riferimento a R.T., a E.G. e ad altri). La tesi difensiva è che i migranti avrebbero preferito gettarsi in mare e annegare piuttosto che tornare in Libia e che proprio ciò avrebbe legittimato la loro reazione.
2.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla sussistenza del diritto soggettivo "proprio o altrui" messo in pericolo e posto a fondamento dell'attività difensiva di cui all'art. 52 c.p.. La Corte non si sarebbe espressa sulla esistenza del diritto a tutela del quale la condotta fu compiuta, ritenendo erroneamente assorbita la questione in quella, di cui si è detto, del difetto del presupposto della non volontaria causazione del pericolo. Il diritto al respingimento in un luogo sicuro, argomenta il ricorrente, non proteggerebbe le aspirazioni migratorie degli individui, ma rappresenterebbe un diritto soggettivo riconosciuto a livello nazionale (art. 19 T.U. immigrazione) e sovranazionale (artt. 4- 10 Carta dei diritti fondamentali; art. 3 Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e art. 4 prot. Cedu).
2.5. Con il quinto motivo si deduce violazione di legge quanto al delitto di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, con riguardo ai temi: a) della irregolarità dell'ingresso nel territorio dello Stato; b) della non punibilità dell'autofavoreggiamento - rispetto al quale si lamenta la mancata rinnovazione della prova dichiarativa-; c) dell'applicabilità della scriminante umanitaria. Si assume che: - il trasporto sul territorio dello Stato di stranieri privi di documenti all'esito di operazioni di soccorso in mare, compiute in osservanza della normativa sovranazionale, non costituisce, così come affermato dalla Corte di cassazione, ingresso irregolare; - fino a quando le operazioni di salvataggio non siano terminate con lo sbarco in un porto sicuro la condizione giuridica dei naufraghi è prevalente rispetto a quella eventuale di migranti irregolari: - gli imputati non sarebbero punibili perché non sarebbe punibile chi si autoprocura l'ingresso illegale; - sarebbe comunque configurabile nella specie la scriminante umanitaria di cui all'art. 12, comma 2, T.U. immigrazione.
3. Ha proposto ricorso per cassazione A.I. articolando sei motivi.
3.1. Con il primo si deduce violazione di legge nella parte in cui la Corte ha escluso la scriminante della legittima difesa sul presupposto che, diversamente, si giustificherebbe l'uso della violenza contro gli equipaggi di salvataggio. Si tratterebbe di una affermazione errata e confliggente con numerose disposizioni; il diritto al respingimento in un luogo sicuro costituirebbe un diritto soggettivo "pieno" cui corrisponderebbe un dovere degli Stati.
3.2. Con il secondo ed il sesto motivo si deduce la violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis, con riferimento, quanto al capo a), alla omessa rinnovazione delle prove dichiarative assunte in sede di incidente probatorio. Il tema è quello di cui si è già detto: la condotta sarebbe stata mossa dall'intento di impedire il ritorno in Libia e non, invece, di facilitare l'approdo in Europa (si indicano le testimonianze che non sarebbero state valutate dalla Corte di appello ovvero che sarebbero state valutate diversamente rispetto al Tribunale, senza tuttavia procedere alla rinnovazione della prova).
3.3. Con il terzo motivo si lamenta vizio di motivazione quanto alla ritenuta volontaria causazione del pericolo da parte degli imputati. 3.4. Con il quarto motivo si deduce, in relazione ad entrambi i capi di imputazione, vizio di motivazione e travisamento della prova quanto alla natura del pericolo ed alla violazione dei diritti umani in Libia, in relazione ad entrambi i capi di imputazione. 3.5. Con il quinto motivo si lamenta vizio di motivazione con riferimento all'ordine di rimpatrio in Libia: il tema è quello del diritto al respingimento in un luogo sicuro.
Considerato in diritto
1.I ricorsi sono fondati.
2. I motivi pongono molteplici questioni che attengono al diritto degli Stati di controllare i confini e garantire la sicurezza nell'esercizio della propria sovranità, all'obbligo di contrastare e punire il traffico illecito di migranti e la tratta di esseri umani, alle norme sui diritti umani che impongono di trarre in salvo coloro che rischiano la vita in mare - inclusi i migranti-, alla tutela dei diritti fondamentali di ogni persona, al principio di non respingimento. Si tratta di questioni che richiedono una ricostruzione del quadro normativo nel cui ambito si collocano i fatti oggetto del processo, necessaria per verificare la "tenuta" della sentenza impugnata non solo in ordine alla verifica della rilevanza penale dei fatti contestati, ma anche, sotto il profilo più strettamente processuale, alla osservanza dell'obbligo di motivazione rafforzata cui la Corte di appello era vincolata al fine di riformare la sentenza pronunciata all'esito del giudizio di primo grado.
3. E' utile fare innanzitutto riferimento alla ricostruzione fattuale compiuta dal Tribunale ed al ragionamento posto a fondamento della sentenza di assoluzione.
Secondo il Tribunale: - l'8.7.2018 il Centro Nazionale di coordinamento del Soccorso marittimo (IMRCC) ricevette una telefonata da una utenza libica con cui fu segnalata la partenza di un barcone dalla costa libica con a bordo circa sessanta persone; - alle 15.18 di quel giorno il rimorchiatore (omissis), battente bandiera italiana, comunicò di avere compiuto un soccorso di circa sessanta migranti presenti a bordo di un piccolo natante in legno in procinto di affondare; - l'evento fu correlato alla comunicazione giunta quello stesso giorno, di cui si è detto, e fu comunicato alle autorità SAR libiche; - in assenza di comunicazioni dalle Autorità libiche, il IMRCC invitò il rimorchiatore a fare rotta verso Lampedusa per incrociare un'altra unità navale; - alle 22.00 circa il rimorchiatore comunicò a IMRCC di avere ricevuto ordine dalla Guardia Costiera Libica (LNGC), evidentemente informata dell'accaduto, di dirigersi verso le coste africane al fine di effettuare il trasbordo dei migranti su una motovedetta di quello Stato; - a seguito della comunicazione ricevuta, il rimorchiatore si recò verso il punto di incontro indicato dall'autorità libica, a circa 15 miglia dalla costa africana, in acque internazionali; - alle 23,34 il comandante della (omissis) richiese al IMRCC l'immediato invio di una nave militare italiana, comunicando l'esistenza di una grave situazione di pericolo per l'equipaggio, fatto oggetto di minacce e violenze da parte di alcuni migranti soccorsi; - la condotta delle persone migranti fu compiuta quando questi si accorsero che il rimorchiatore aveva iniziato la navigazione verso le coste libiche: detta circostanza causò lo stato di agitazione e indusse i migranti a dirigersi verso il marinaio di guardia, Lu., chiedendogli, con un comportamento aggressivo e minaccioso, di poter parlare con un ufficiale o con il comandante; - condotte simili furono tenute nei riguardi del Primo Ufficiale, P.C., che fu accerchiato, spintonato e minacciato anche di morte; - in tali concitati momenti i migranti continuarono a ripetere "No Libia" e minacciarono di gettarsi in mare se la nave non avesse invertito la rotta "perché meglio morire annegati che ritornare in Libia"; nel corso degli accadimenti fu effettivamente compiuto il gesto di "tagliare la gola" (si è spiegato che detto gesto poteva essere interpretato sia come minaccia verso l'equipaggio, sia come trattamento che i migranti temevano di poter subire tornati in Libia - in tal senso sono state riportate dichiarazioni descrittive delle gravi violenze subite sul territorio libico prima della partenza da parte dei migranti). - dopo aver informato il comandante della situazione creatasi, questi cambiò rotta e adottò le procedure di sicurezza al fine di impedire alle persone a bordo di assumere il comando della nave; - la situazione creatasi determinò l'invio della unità navale (omissis) della Guardia costiera italiana. Sulla base di tale quadro fattuale, il Tribunale aveva ricostruito il quadro normativo di riferimento, valorizzato il generale divieto di espellere, respingere o estradare qualora sussista il rischio reale, personale, concreto e attuale di sottoposizione della persona a torture o trattamenti degradanti o inumani, aveva riconosciuto al diritto al non respingimento il rango di jus cogens e ritenuto detto diritto vigente nell'ordinamento interno ai sensi dell'art. 10 Cost.
Secondo il Tribunale, ai fini della valutazione dei fatti oggetto del processo, non assumerebbe decisivo rilievo nemmeno il memorandum d'intesa stipulato tra l'Italia e la Libia nel 2017 in quanto la Libia, al momento della commissione dei fatti, non poteva comunque considerarsi un luogo sicuro in cui condurre le persone; al momento in cui la condotta fu posta in essere, gli imputati "stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro in ragione di un ordine....contrario alla Convenzione di Amburgo": esisteva una situazione di pericolo concreto ed attuale non volontariamente determinato che legittimò la reazione proporzionata degli imputati (così il Tribunale).
3. La riforma della sentenza di assoluzione imponeva alla Corte di appello di adottare una motivazione rafforzata.
3.1. Le Sezioni unite della Corte hanno evidenziato come l'obbligo della motivazione rinforzata si imponga per il giudice di appello tutte le volte in cui ritiene di ribaltare la decisione del giudice di primo grado, sia assolutoria, che di condanna. Tale principio è ormai consolidato ed è parte integrante dell'ordinamento giuridico vivente; tale obbligo non opera nel caso di conferma della sentenza di primo grado, perché, in questa ipotesi, la motivazione della decisione di appello si salda con quella precedente fino a formare- quasi sempre- un unico complesso argomentativo.
Quanto all'obbligo di motivazione rafforzata - autonomo rispetto alla previsione dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis quando il giudice di appello deve dare una spiegazione razionalmente diversa rispetto alla ragione giustificativa di una sentenza, deve indicare "in modo rafforzato" perché ritiene di ribaltarla e chiarire le ragioni per cui una determinata prova assuma una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado (per tutte, Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272480; ma anche Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, in motivazione; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679).
Il tema è allora cosa debba intendersi per "motivazione rinforzata". Si nota correttamente in dottrina che una motivazione rafforzata è quella che abbia una "forza persuasiva superiore", in grado cioè di conferire alla "nuova" decisione la maggior solidità possibile. Motivare in modo rafforzato significa costruire un impianto giustificatorio più robusto, più solido, più argomentato in relazione alle questioni - giuridiche e fattuali- che in quella materia ed in relazione al caso concreto sono decisive per la correttezza logica e per la legittimità dell'accertamento penale. Si tratta di un tema, quello della perimetrazione dei passaggi obbligati da parte del giudice di appello, che involge tematiche centrali del processo penale, quali quelle del ragionevole dubbio, dei lineamenti e delle finalità del giudizio d'appello, del principio del contraddittorio, della tendenziale cartolarità delle impugnazioni, e, soprattutto, della inesistenza di una regola per cui, in caso di riforma in appello, si possa affermare che il giudizio del secondo giudice sia per posizione, di per sé, "migliore", più corretto e più affidabile di quello del primo.
Mentre infatti la c.d. doppia decisione conforme, si nota testualmente in dottrina, porta in sé una valenza rassicurante sull'aspettativa che il processo si sia davvero avvicinato alla verità, l'esistenza di decisioni radicalmente difformi trasmette un messaggio asimmetrico perché lascia sullo sfondo un insoluto quesito decisivo, quello che attiene alla individuazione della decisione giuridicamente corretta tra le due difformi. Si tratta di una questione che trova soluzione non in una regola generale e preventiva, ma in alcune garanzie finalizzate a sterilizzare il rischio che con la seconda decisione si realizzino effetti regressivi e gravi errori rispetto alla prima sentenza, ormai riformata. Questo spiega l'esigenza che il giudice di appello, nel riformare una sentenza - di assoluzione o di condanna-, adotti una "motivazione rafforzata".
Dunque, si fa notare, "il giudice di seconde cure che intenda mutare (integralmente o parzialmente) la decisione di primo grado deve partire dalla sua motivazione e ad essa fare ritorno mentre rivaluta l'intera vicenda".
Il ragionamento del giudice d'appello, cioè, deve muoversi e svilupparsi dalla sentenza impugnata perché esiste "un nesso di stretta relazione tra la quantità e la qualità delle ragioni espresse nella motivazione del giudice con la quantità e la qualità degli argomenti e delle ragioni espresse dall'impugnante, e, di conseguenza con il dovere di motivazione rafforzata del giudice di appello nel caso in cui decida di riformare la decisione impugnata".
Assolvere l'obbligo di motivazione rafforzata significa: a) dimostrare di avere compiuto un analisi stringente, approfondita, completa del provvedimento impugnato; b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro cognitivo devoluto, perché non si è condiviso il decisum; c) chiarire quali sono le ragioni fondanti - a livello logico, probatorio, giuridico - la nuova decisione assunta. Nel riformare una sentenza è necessario dimostrare di aver esaminato tutti gli elementi acquisiti, di avere studiato la motivazione della sentenza di primo grado, di avere compiuto, sulla base del devoluto, un confronto argomentativo serrato con essa al fine di evidenziarne le criticità (cfr., Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679) per poi procedere a formare una nuova motivazione che non si limiti ad inserire in quella argomentativa del primo giudice mere notazioni critiche di dissenso, "in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, ma riesami il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura argomentativa che spieghi le difformi conclusioni" (cfr., Sez. U., n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci Rv. 191229).
Il giudice d'appello deve "delineare le linee portanti del proprio, alternativo ragionamento probatorio e confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento" (Sez. 2, n. 57765 del 20/12/2018, non massimata; cfr., Sez. 6 n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Ricotta, Rv. 258005; Sez. 6, n. 46742 dell'08/10/2013, Hamdi Ridha, Rv. 257332; Sez. 4 n. 35922 dell'11/07/2012, Rv. 254617; Sez. 6, n. 2004 del 16/01/2019, non massimata in cui si fa riferimento ad un "obbligo di dimostrare specificamente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza del primo giudice, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da una completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati").
Il ribaltamento della decisione deve conseguire non ad una mera critica "orizzontale", cioè solo ad una diversa valutazione dello stesso materiale di prova, quanto, piuttosto, all'accertamento di un "errore" di giudizio commesso dal giudice di primo grado alla luce delle circostanze dedotte dagli appellanti ed in funzione dello specifico tema devoluto. Ad una plausibile ricostruzione del primo giudice, non può, come detto, sostituirsi semplicemente un altrettanto plausibile - ma diversa - "ricostruzione operata in sede di impugnazione; la sentenza di appello deve necessariamente misurarsi con le ragioni addotte a sostegno del decisum dal primo giudice e porre criticamente in evidenza gli elementi, in ipotesi, sottovalutati o trascurati, e quelli che, al contrario, risultino inconferenti o, peggio, in contraddizione, con la ricostruzione di fatti e della responsabilità poste a base della sentenza appellata" (Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. n. 261327; si tratta di principi poi recepiti da Sez. U, n. 14800 del 12/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430; in senso conforme, Sez. 4, n. 16/06/2021, Frigerio, Rv. 281404).
3.2. L'obbligo di motivazione rafforzata assume un contenuto argomentativo diverso a seconda che il giudice di appello, in riforma della sentenza di primo grado, condanni o assolva. Il tema attiene al rapporto tra motivazione rafforzata e principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio. Mentre infatti per pronunciare nel giudizio di appello una sentenza di condanna a fronte di una pronuncia assolutoria in cui sia emerso un dubbio ragionevole, è necessario rimuovere il dubbio con un ragionamento che ne dimostri l'insussistenza, nel caso di assoluzione che riformi una precedente sentenza di condanna è invece sufficiente argomentare in positivo, nel senso che è necessario e sufficiente rappresentare l'esistenza del dubbio ragionevole. Si è condivisibilmente notato come, mentre nel caso di riforma peggiorativa di una sentenza di assoluzione, il giudice di appello debba prima demolire il ragionamento probatorio culminato con la deliberazione del primo giudice e poi strutturare un proprio ragionamento che dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, il fondamento della tesi opposta, in caso invece, di integrale riforma migliorativa di una sentenza di condanna il giudice di appello, seppur con una motivazione rafforzata- nel senso indicato-, deve solo destrutturare il ragionamento del primo giudice, nel senso di configurare l'esistenza di un ragionevole dubbio che di per sé è destinato a destituire di fondamento la prospettiva accusatoria recepita dal primo giudice (sul tema cfr., Sez. 2, n. 41571, del 20/06/2017, Marchetta, in motivazione).
4. Nel processo a lungo si è discusso del contenuto e dei limiti dell'obbligo di soccorso in mare. L'obbligo di soccorso in mare è previsto da una norma di diritto internazionale consuetudinario generalmente riconosciuta vigente direttamente nell'ordinamento italiano in ragione dell'art. 10 Cost., comma 1. Si tratta di un obbligo funzionale alla tutela di diritti fondamentali di tutte le persone. Assumono rilievo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), aperta alla firma a Montego Bay il 10 dicembre 1982, entrata in vigore il 16 novembre 1994, ratificata con L. 2 dicembre 1994, n. 689, che, all'art. 98, comma 1, prevede che il comandante della nave deve prestare soccorso "a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita quanto più velocemente possibile", nei limiti della ragionevolezza dell'intervento; al comma 2 lo stesso articolo chiarisce che ogni Stato costiero è tenuto a "promuovere l'istituzione, l'attivazione e il mantenimento di un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso relativo alla sicurezza in mare e, ove le circostanze lo richiedano, di cooperare a questo scopo attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi".
L'indicato obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare enunciato dalla Convenzione UNCLOS costituisce un'esplicazione di due accordi internazionali in precedenza elaborati in seno all'Organizzazione Internazionale Marittima (IMO), ratificati da un ampio numero di Paesi, e tutt'oggi in vigore: la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (con Allegato -Safety of Life at Sea - SOLAS-) aperta alla firma a Londra il 1 novembre 1974, entrata in vigore il 25 maggio 1980, cui l'Italia ha aderito con L. 23 maggio 1980, n. 313 e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (con Annesso - Search and Rescue - SAR), aperta alla firma ad Amburgo il 27 aprile 1979, entrata in vigore il 22 giugno 1985, cui l'Italia ha aderito con L. 3 aprile 1989, n. 147 (dal 2005, anche la Libia è parte della Convenzione SAR e dal 2018 è istituita una zona SAR di questa).
Per quanto riguarda la Convenzione SOLAS, ai sensi del cap. V, Regolamento 33, dell'Allegato, il comandante di una nave in posizione idonea a prestare assistenza, che abbia ricevuto informazioni sulla presenza di persone in una situazione di pericolo in mare, è obbligato "a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza". Al contempo, in base al cap. V, Regolamento 7, dell'Allegato, gli Stati parte sono tenuti "a garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste". La ricerca e il soccorso sono disciplinati dalla Convenzione SAR che si fonda sul principio di cooperazione e che prevede una ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio d'intesa tra gli Stati interessati, i quali sono tenuti ad approntare piani operativi che prevedano le varie tipologie d'emergenza e le competenze dei centri preposti. Ai sensi della Convenzione SAR, le autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento in base agli accordi stipulati, le quali abbiano avuto notizia, dall'autorità di un altro Stato, della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare SAR di propria competenza, devono intervenire immediatamente; ai sensi del par. 2.1.10 dell'Annesso, devono assicurare "... che sia fornita assistenza a ogni persona in pericolo in mare... senza tener conto della nazionalità o dello status di tale persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata". Ai sensi del par. 1.3.2 dell'Annesso della Convenzione SAR, per salvataggio si intende una "operazione destinata a recuperare le persone in pericolo e a prodigare loro le prime cure mediche o altre di cui potrebbero aver bisogno e a trasportarle in un luogo sicuro". L'espressione "luogo sicuro" viene utilizzata anche nel par. 3.1.9 dell'Annesso, dove è previsto che la parte responsabile dell'area di ricerca e di salvataggio nella quale si procede "dovrà esercitare la primaria responsabilità per assicurare che siano svolti il coordinamento e la cooperazione, in modo che i superstiti assistiti siano sbarcati dalla nave che ha prestato assistenza e consegnati in un luogo sicuro" e che "lo sbarco sia effettuato al più presto, come ragionevolmente praticabile".
Dal tenore letterale dalla SAR, dunque, si evince che l'operazione di salvataggio può dirsi conclusa solo quando il naufrago sia stato sbarcato, esito che deve avvenire il più presto possibile e in un "luogo sicuro".
Ne' la Convenzione SOLAS, né la SAR, forniscono una definizione della nozione di "luogo sicuro" (piace of safety, o POS).
Assumono, tuttavia, rilevante valenza il contenuto delle Linee guida dell'Organizzazione Internazionale Marittima- Comitato per la sicurezza marittima-(IMO) sul trattamento delle persone soccorse in mare, benché esse non possano essere considerate come fonti del diritto internazionale ai sensi dell'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia e siano prive di efficacia vincolante. Per dette linee guida per "luogo sicuro" deve intendersi "una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse... dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non siano più minacciate, dove le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte. E', inoltre, un luogo dal quale possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale" (par. 6.12).
In via provvisoria, fintantoché i naufraghi non siano stati sbarcati, anche la nave che presta soccorso può essere considerata un luogo sicuro, come previsto nei parr. 6.13 e 6.14 delle Linee guida (sul tema, in maniera chiara, Sez. 3, n. 6626 del 16/01/2020, Rackete, in motivazione).
5. Sulla base della ricostruzione fattuale compiuta e del quadro normativo indicato è allora possibile verificare se la Corte di appello abbia adempiuto l'obbligo di motivazione a lei imposto ed abbia fatto corretta applicazione della legge penale.
5.1. I punti devoluti alla cognizione della Corte riguardavano: a) l'esistenza, affermata dal Tribunale, di un diritto fondamentale della persona al non respingimento in un luogo non sicuro; b) la definizione di "luogo sicuro"; c) la individuazione dell'Autorità che avrebbe dovuto coordinare le azioni di salvataggio; d) il tema dell'applicazione del Trattato di Amburgo e del memorandum sottoscritto tra Italia a Libia nel 2017; e) l'esistenza di un pericolo attuale della lesione di un diritto soggettivo "in quanto al momento in cui i migranti avevano posto in essere le condotte violente e minacciose, al più sarebbe stato violato il principio di non respingimento che... costituisce un obbligo per lo stato e non anche un diritto soggettivo per i soggetti soccorsi in mare, molti dei quali avevano deciso liberamente di affidarsi a pericolose organizzazioni criminali per realizzare un loro progetto di vita Europeo" (così la Corte di appello a pag. 4 della sentenza).
Dalla sentenza impugnata emerge come la Corte di appello non abbia sostanzialmente affrontato e risolto nessuno dei temi e dei punti a lei devoluti, su cui il Giudice di primo grado, il Pubblico Ministero impugnante e le parti si erano a lungo impegnati; essendosi limitata a mostrare dubbi e perplessità- in realtà non esplicitati - sia sulla ricostruzione giuridica recepita dal Tribunale, sia su quella portata alla sua cognizione da parte del Pubblico ministero appellante; la Corte ha di fatto ritenuto che, pur volendo accogliere la prospettazione secondo cui il diritto al non respingimento costituisca un vero e proprio diritto soggettivo, sussistevano nondimeno ragioni impeditive al riconoscimento della legittima difesa ("Semmai, occorrerebbe verificare se le articolate e dottrinali discettazioni esposte dal giudice di primo grado a sostegno della tesi di un diritto al ricovero immediatamente tutelabile da parte del migrante soccorso in mare, siano corrette sotto il profilo esegetico o meno. Ma, per ragioni di economia processuale, ritenendosi comunque assorbente il difetto dei presupposti applicativi della legittima difesa, ci si limiterà ad affrontare tale aspetto; e, dunque, operando una sorta di prova di resistenza, accedendo in via incidentale alle valutazioni operate dal GUP in ordine alla esistenza di un diritto soggettivo del migrante al ricovero". (così la Corte a pag. 6 della sentenza).
In particolare, al di là dei temi devoluti, la Corte ha ritenuto non configurabile la causa di giustificazione, di cui all'art. 52 c.p., attraverso un "diverso" approccio giuridico, fondato sull'approfondimento del tema della non volontaria causazione da parte dei ricorrenti della situazione di pericolo rispetto alla quale si era diretta la loro condotta difensiva. In tale prospettiva, nel riformare la sentenza di assoluzione, la Corte, dopo aver sottolineato come detto profilo fosse stato solo accennato dal Tribunale, ha valorizzato il principio per cui "la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa non per la mancanza del requisito dell'ingiustizia dell'offesa, ma per difetto del requisito della necessità della difesa" (pag. 6 sentenza); sulla base di tale presupposto, i Giudici hanno affermato "nessun dubbio può serbarsi sul fatto che i migranti si siano posti in stato di pericolo volontariamente, sia avendo pianificato una traversata in condizioni di estremo pericolo, sia avendo poi chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da natanti di salvataggio (...) Venne dunque posta in essere una condotta da parte dell'organizzazione criminale che organizzò il viaggio, pienamente accettata dai migranti, per cui venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone in legno stipato di persone e chiaramente inadatto alla traversata del Canale di Sicilia) atta a stimolare un intervento di supporto, che conducesse all'approdo dei clandestini ed al perseguimento del fine dell'organizzazione criminale; e, dunque, ad assicurare lo sbarco dei migranti in suolo italiano.
In sostanza, l'azione di salvataggio cui procedette in prima battuta l'equipaggio del rimorchiatore (omissis), non può essere considerata isolatamente rispetto alla condotta pregressa, che volutamente ha creato lo stato di necessità, proprio perché si tratta di una condizione di pericolo intenzionalmente causata dai trafficanti e dai migranti, che si ricollega alla ragionevole speranza che questi ultimi fossero condotti sulle coste Europee, sotto la protezione dell'azione di salvataggio" (così testualmente la sentenza impugnata a pagg. 6-7).
L'intero ragionamento della Corte si sviluppa su un dato fattuale specifico, e cioè che le condotte violente contestate ai due imputati "non sono state poste in essere per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo di un'offesa ingiusta, bensì come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio (per i migranti) di non essere portata a termine a causa dall'adempimento da parte della (omissis) di un ordine impartito da uno stato sovrano che aveva la competenza sulla zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi".
5.2. Quello della Corte di appello è un ragionamento obiettivamente viziato, che viola l'obbligo di motivazione rafforzata per più ordini di ragioni e che non fa correta applicazione della legge penale. Sotto un primo profilo, si è valorizzato un tema probatorio sostanzialmente non devoluto dal Pubblico Ministero appellante, il quale - così come il Tribunale - non aveva dubitato del fatto che gli imputati non fossero i responsabili della imbarcazione, non avessero colluso con gli scafisti, non avessero contribuito a creare "artificiosamente una situazione di necessità". Un tema probatorio non devoluto e tuttavia riscritto d'ufficio dalla Corte d'appello. Sotto altro profilo, pur volendo ritenere che la Corte abbia inteso approfondire il tema in questione in ragione della necessità di qualificare esattamente i fatti e, dunque, di accertare i requisiti strutturali della legittima difesa, non è per nulla chiaro sulla base di quali elementi e di quali circostanze sia stato ritenuto provato l'assunto che ha condotto alla riforma della sentenza di assoluzione. Sul punto la sentenza impugnata è totalmente silente e la motivazione è del tutto omessa, tenuto conto che nessuna ipotesi era stata anche solo prospettata quanto al coinvolgimento ed alla partecipazione delle persone migranti - e dei ricorrenti - all'organizzazione del viaggio, alla conduzione dell'imbarcazione, al traffico illecito che doveva condurre sul territorio dello Stato quelle persone. Sotto ulteriore profilo, è viziato il ragionamento giuridico della Corte anche in relazione alla corretta individuazione della situazione di pericolo rispetto alla quale valutare la sussistenza della causa di giustificazione. La Corte di cassazione in molteplici occasioni, seppur in relazione a fattispecie molto diverse da quella in esame, ha chiarito che, pur non contenendo l'art. 52 c.p. nessun riferimento all'involontaria causazione del pericolo espressamente previsto invece nell'art. 54 c.p. - al fine dell'accertamento del requisito della necessità della reazione difensiva, l'involontarietà del pericolo deve ritenersi un requisito strutturale anche della legittima difesa. La giurisprudenza si avvale di detto requisito al fine di escludere la causa di giustificazione nell'ambito dello "schema" della sfida, della rissa, del duello, cioè, in situazioni in cui i soggetti sono ordinariamente animati dall'intento reciproco di offendersi ed accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si pongono, con la conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata (Sez. 5, n. 33112 del 08/10/2020, Borghi, Rv. 279972; Sez. 5, n. 22040 del 21/2/2020, Rondanini, Rv. 279356; Sez. 5, n. 15090 del 29/11/2019, dep. 2020, Titone, Rv. 279085; Sez. 5, n. 32381 del 19/2/2015, D'Alesio, Rv. 265304; Sez. 5, n. 7635 del 16/11/2006, dep. 2007, Daidone, Rv. 236513); si è peraltro precisato come il venir meno dell'intento aggressivo in uno dei gruppi contrapposti comporti l'applicazione dell'art. 52 c.p. - e dunque l'esclusione del reato di rissa - solo nell'ipotesi in cui coloro che si difendono si pongano in una posizione passiva, limitandosi a parare i colpi degli avversari o dandosi alla fuga, mentre quando la difesa si esplica attivamente il reato sussiste, giacché anche coloro che si difendono con tale modalità colluttano (Sez. 5, n. 10080 del 23/6/1980, Miotello, Rv. 146127).
In tale quadro di riferimento, il ragionamento della Corte, che peraltro non affronta il tema relativo a se ed in che limiti i richiamati principi siano applicabili anche in fattispecie - obiettivamente diverse- come quelle in esame, appare instabile perché, in violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata, tende ad assimilare profili giuridici e fattuali diversi in un tutt'uno indistinto.
5.3. Il tema, in particolare, riguarda la sovrapposizione tra il pericolo di naufragio e il pericolo derivante da un respingimento in un luogo non sicuro, con conseguente rischio per le persone di trattamenti inumani. Si è già detto di come il ragionamento della Corte di appello, relativo alla causazione volontaria da parte dei migranti del pericolo di naufragio, sia assertivo perché sfornito di ogni evidenza probatoria. E tuttavia, pur volendo prescindere da tale profilo, ciò che rileva nel caso in esame non è il pericolo di naufragio, cioè il pericolo derivante da una situazione che, al momento in cui la condotta fu compiuta, aveva cessato di essere attuale per effetto dei soccorsi, quanto, piuttosto, la diversa situazione di pericolo derivante dal respingimento verso la Libia, per evitare la quale gli imputati tennero i contegni aggressivi a loro rimproverati. Ciò che non è stato spiegato dalla Corte e', da una parte, perché, pur volendo ipotizzare che i migranti fossero "complici" degli scafisti quanto alla causazione del pericolo di naufragio, anche la seconda situazione di pericolo sarebbe comunque riconducibile alla prima ed entrambe sarebbero imputabili ai ricorrenti, e, dall'altra, perché, rispetto al respingimento in un luogo non sicuro ed alla connessa situazione di pericolo- in relazione al quale, solo, avrebbe dovuto essere verificata la sussistenza della legittima difesa- le persone migranti sarebbero state privi di diritti da far valere. Non, dunque, una condizione generale di inquinamento, di seriale causazione volontaria del pericolo - attribuibile sempre agli imputati - strutturata per derivazione automatica da una situazione di pericolo- quello di naufragio- in realtà cessata; un ragionamento viziato in diritto, ma anche sul piano fattuale, perché fondato su una ricostruzione degli accadimenti non ordinata e sulla sovrapposizione di situazioni diverse, che invece la Corte ha esaminato e valutato in modo unitario.
Al momento in cui le condotte furono compiute, ciò che doveva essere accertato e spiegato con una motivazione rafforzata dalla Corte di appello era se: a) il respingimento verso la Libia causò una situazione di "pericolo di offesa ingiusta"; b) i migranti, in particolare, fossero titolari di un diritto a non essere respinti verso un Paese in cui sarebbero stati esposti al pericolo di torture e trattamenti inumani o degradanti; c) se fosse legittima una loro reazione.
6. Quanto al diritto di non respingimento la Corte si è limitata ad affermare che "la prospettiva in senso dicotomico tra diritto (del migrante) e principio regolatore (per lo Stato che soccorre) appare eccessivamente rigida e probabilmente mal posta", in tal modo mostrando di non essere convinta né della tesi recepita dal Tribunale e neppure di quella esplicitata nell'atto di appello del Procuratore della Repubblica.
6.1. Il principio di non respingimento ha costituito l'oggetto di una progressiva evoluzione che ne ha gradualmente potenziato l'estensione applicativa e che ha trovato compiutezza a seguito della sentenza Hirsi Jamaa e a. c. Italia pronunciata dalla Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo il 23 febbraio 2012. Si è chiarito come nella sua accezione classica il principio in questione trovi riconoscimento nell'art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati, secondo cui "Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche".
Nella sua nota sulla protezione internazionale del 13 settembre 2001 (A/AC.96/951, p. 16), l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (I'UNHCR), che ha il compito di vigilare sul modo in cui gli Stati parte applicano la Convenzione di Ginevra, ha chiarito che il principio enunciato all'art. 33, detto di "non-respingimento" costituisce: "un principio fondamentale di protezione al quale non sono ammesse riserve. Sotto molti aspetti, questo principio è il complemento logico del diritto di chiedere asilo riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.
Tale diritto ha finito per essere considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario vincolante per tutti gli Stati. Inoltre, il diritto internazionale dei diritti dell'uomo ha stabilito che il non-respingimento è una componente fondamentale del divieto assoluto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L'obbligo di non respingere è anche riconosciuto come applicabile ai rifugiati indipendentemente dal loro riconoscimento ufficiale, il che comprende evidentemente i richiedenti asilo il cui status non è stato ancora determinato. Esso copre qualsiasi misura imputabile ad uno Stato che possa produrre l'effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate e in cui rischierebbe una persecuzione.
Ciò include il rigetto alle frontiere, l'intercettazione e il respingimento indiretto, che si tratti di un individuo in cerca di asilo o di un afflusso massiccio". Dunque, un diritto funzionale a prevenire qualsiasi respingimento, di chiunque si trovi in una determinata situazione oggettiva, verso un paese in cui la sua vita o la sua libertà siano a rischio, a prescindere dal fatto che lo status di rifugiato della persona interessata - ai sensi dell'art. 1 della Convenzione di Ginevra - sia stato o meno ufficialmente riconosciuto.
Il divieto di respingimento verso un luogo non sicuro è stato esplicitamente previsto e regolamentato da numerosi altre fonti internazionali adottate successivamente alla Convenzione di Ginevra.
Si fa comunemente riferimento: alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sull'asilo territoriale del 1967; alla Convenzione americana dei diritti umani del 1969; alla Convenzione dell'Organizzazione per l'Unità Africana (ora Unione Africana) del 1969 che regola gli aspetti specifici dei problemi inerenti ai rifugiati in Africa; alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti; alla Convenzione americana sulla prevenzione e punizione della tortura del 1985; alla Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati del 1984; alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, adottata a Nizza nel 2000; ai Principi concernenti il trattamento dei rifugiati adottati dall'Organizzazione consultiva afro-asiatica nel 2001; alla Convenzione per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate del 2006.
La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo a partire caso Soering c. Regno Unito (Soering c. Regno Unito, sentenza del 7 luglio 1989) ha in maniera continuativa ritenuto che il respingimento (in qualsiasi forma esso sia attuato) di una persona verso un paese dove sussista il rischio che essa sia soggetta a tortura o trattamenti ad essa analoghi si collochi nell'ambito di operatività dell'art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. La Corte, pur nella consapevolezza che l'articolo in questione non contempli espressamente alcun obbligo di non respingimento a carico degli Stati parti, ha tuttavia chiarito che la Convenzione necessita di essere interpretata ponendo particolare attenzione al suo carattere speciale di trattato per l'applicazione collettiva dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il cui oggetto e scopo richiedono che le disposizioni siano interpretate e applicate in modo da rendere le sue salvaguardie coerenti con lo spirito generale della Convenzione, quale strumento inteso a mantenere e promuovere gli ideali e i valori di una società democratica (cfr., sentenza Soering, pag. 87).
In senso simmetrico con la Corte Europea dei diritti dell'uomo si colloca il Comitato dei diritti umani, il Comitato sui diritti del fanciullo e la Commissione africana dei diritti dell'uomo e dei popoli. Il Comitato dei diritti umani, si è osservato, non considera l'ambito di applicazione del divieto di refoulement limitato al solo caso " classico " della tortura e dei trattamenti ad essa analoghi, ma lo estenda a tutti i diritti contemplati dal Patto finalizzati a proteggere la persona umana contro un " danno irreparabile " (tra i quali il Comitato fa espresso riferimento al diritto inerente alla vita sancito dall'art. 6).
Si tratta di una posizione condivisa dalla stessa Corte Europea dei diritti dell'uomo, la quale ha rilevato in più occasioni che la costruzione interpretativa operata in relazione all'art. 3 in relazione ai respingimenti si estende ad altre norme del sistema della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, e, in particolare, all'art. 8 (diritto alla vita privata e familiare) e all'art. 4 del Protocollo n. 4, il quale sancisce il divieto di espulsioni collettive).
Ne' pare in contestazione che si tratti di un divieto "interno" ad una regola di diritto internazionale consuetudinario a cui è riconosciuto carattere assoluto. Se nella sua configurazione originaria, il principio del non-refoulement era espressamente soggetto ad una serie di deroghe (par. 2 dell'art. 33 della Convenzione di Ginevra volto a valorizzare la possibilità degli Stati parti della Convenzione di sottrarsi all'obbligo di offrire protezione a soggetti che potessero mettere in pericolo la sicurezza del paese o quella dei cittadini), vi sono una serie di elementi dimostrativi del carattere sostanzialmente assoluto di detto divieto.
Sul punto assumono rilievo la Convenzione africana del 1969, che regola gli aspetti specifici dei problemi inerenti ai rifugiati in Africa, secondo cui il divieto di refoulement è esente da qualsiasi possibilità di deroga, l'art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti, l'art. 13 della Convenzione americana sulla prevenzione e punizione della tortura del 1985, l'art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. In senso conforme si pone la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, la cui grande Camera- all'unanimità- anche in relazione a sollecitazioni da parte di alcuni Stati membri del Consiglio d'Europa, volte a far rivedere l'interpretazione già data del divieto sancito dall'art. 3 e a riconoscere agli Stati la possibilità di porre in essere delle deroghe all'attuazione dello stesso nei casi in cui la persona richiedente protezione, a causa della sua indole terroristica, costituisca una minaccia per la sicurezza del paese, ha tuttavia ribadito il principio già espresso nelle precedenti sentenze in ordine al carattere assoluto del divieto (Cfr., Corte EDU, Grande Camera, sentenza 26 febbraio 2008, Saadi c. Italia).
Così la Corte Europea: "L'art. 3, che proibisce in termini assoluti la tortura o le pene o trattamenti inumani e degradanti, sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Non prevede limitazioni, e in ciò differisce dalla maggioranza degli articoli della Convenzione e dei Protocolli n. 1 e 4 e non subisce alcuna deroga cosi come prevista dall'art. 15, anche in caso di un pericolo pubblico che minacci la vita della nazione (Irlanda c. Regno sentenza dell'8 gennaio 1978, serie A no 25, p. 163, Chahal precitata, p. 79, Selmouni c. Francia (GC), no 25803/94, p. 95, CEDH 1999-V, AlAdsani c. Regno Unito (GC), no 35763/97, p. 59, CEDH 2001-XI, e Chamaiev e altri c. Georgia e Russia, no 36378/02, p. 335, CEDH 2005-111).
Essendo il divieto di tortura o di pene o trattamenti inumani o degradanti assoluto, quali che siano i comportamenti delle persone coinvolte (Chahal precitata, p. 79), il tipo di reato di cui è ritenuto responsabile il ricorrente è ininfluente ai fini della valutazione di cui all'art. 3 (Indelicato c. Italia, no 31143/96, p. 30, 18 ottobre 2001, e Ramirez Sanchez c. Francia (GC), no 59450/00, p.p. 115-116, 4 luglio 2006)".
E' dunque condivisibile quanto lucidamente si osserva in dottrina: posto che il divieto di tortura costituisce un principio di jus cogens e che il non-respingimento costituisce una componente - un segmento- del divieto di tortura strumentale alla sua attuazione, ne deriva che anche il non-refoulement assurge al livello di norma cogente, nella misura in cui, appunto, sia funzionale a proteggere la persona da trattamenti riconducibili alla tortura. Un principio di diritto internazionale consuetudinario, sostanzialmente assoluto, invocabile non solo dai "rifugiati" (art. 33 Convenzione di Ginevra), ma, così come chiarito dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, da qualunque essere umano nei confronti di qualunque paese in cui l'individuo interessato corra un rischio effettivo di subire una violazione dei propri diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti. Un divieto a cui non corrisponde l'obbligo di consentire l'ingresso della persona interessata nel territorio dello Stato, ma il cui contenuto riguarda solo il non respingimento verso un paese ove sussista un ragionevole rischio che la persona interessata possa subire un pregiudizio alla propria vita, alla libertà ovvero alla integrità psicofisica.
6.2. In tale quadro di riferimento si è posta la questione relativa a se il divieto in esame includa o meno, nella sua estensione applicativa, le zone extraterritoriali in cui lo Stato eserciti la propria giurisdizione. Il tema attiene ai respingimenti effettuati nel mare internazionale. Si tratta di una questione su cui è il 23 febbraio 2012 la Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo si è pronunciata, a seguito di un ricorso presentato da alcuni cittadini somali ed eritrei i quali, nel maggio 2009, avevano tentato di raggiungere le coste italiane; le loro imbarcazioni erano state intercettate dalla Guardia costiera italiana e i migranti, a bordo di navi militari italiane, erano stati ricondotti in Libia (da dove erano partiti alla volta dell'Italia) ed affidati alle autorità locali.
La Corte, ricostruito il quadro normativo, ha innanzitutto ribadito che, in virtù delle disposizioni riguardanti il diritto del mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui batte bandiera; si tratta di un principio di diritto internazionale che, da una parte, ha portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, come anche degli aeromobili registrati, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione di quello Stato, e, dall'altra, ad affermare la giurisdizione anche nelle operazioni di salvataggio in alto mare. Pur nella consapevolezza da parte della Corte "che gli Stati situati alle frontiere esterne dell'Unione Europea incontrano attualmente notevoli difficoltà nel far fronte ad un crescente flusso di migranti e di richiedenti asilo", della impossibilità di "sottovalutare il peso e la pressione imposti sui paesi interessati da questa situazione, tanto più pesanti in quanto inseriti in un contesto di crisi economica", della consapevolezza "delle difficoltà legate al fenomeno delle migrazioni marittime, causa per gli Stati di ulteriori complicazioni nel controllo delle frontiere meridionali dell'Europa", si è tuttavia chiarito come "stante l'assolutezza dei diritti sanciti dall'art. 3, ciò non può esonerare uno Stato dagli obblighi derivanti da tale disposizione".
Sulla base di tali presupposti la Corte Europea ha ritenuto nella specie violato l'art. 3 della Convenzione, da una parte, perché i ricorrenti erano stati riaccompagnati in Libia, benché fosse noto che in tale Paese essi sarebbero stati esposti al concreto rischio di subire trattamenti contrari alla Convenzione, in violazione dunque del principio di non-refoulement (p. 85-138), e, dall'altra, perché i ricorrenti, in seguito al loro riaccompagnamento in Libia, correvano il rischio di essere rimpatriati in Somalia o in Eritrea, dove sarebbero stati con ogni probabilità sottoposti a trattamenti anch'essi contrari a quanto disposto dalla Convenzione (p. 139-158).
E' utile riportare un breve passo della articolata motivazione: "La Corte osserva che il mancato rispetto da parte della Libia degli obblighi internazionali era una delle realtà denunciate dai rapporti internazionali riguardanti quel paese. Ad ogni modo, la Corte si sente in dovere di rammentare che l'esistenza di testi interni e la ratifica di trattati internazionali che sanciscono il rispetto dei diritti fondamentali non sono sufficienti, da soli, a garantire un'adeguata tutela dal rischio di maltrattamenti quando, come nella fattispecie, fonti affidabili rappresentino prassi delle autorità - o da queste tollerate - manifestamente contrarie ai principi della Convenzione".
Si è aggiunto che "nessuna delle disposizioni di diritto internazionale citate.. giustificava il rinvio dei ricorrenti verso la Libia, nella misura in cui tanto le norme in materia di soccorso alle persone in mare quanto quelle relative al contrasto alla tratta di esseri umani impongono agli Stati il rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale in materia di rifugiati, tra i quali il "principio di non respingimento" sancito anche dall'art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Al riguardo, la Corte attribuisce un peso particolare al contenuto della lettera scritta il 15 maggio 2009 dal.... vicepresidente della Commissione Europea, nella quale questi ribadisce l'importanza del rispetto del principio di non respingimento nell'ambito di operazioni condotte in alto mare dagli Stati membri dell'Unione Europea". La Corte nella specie ha ritenuto anche violati: a) l'art. 4 del Protocollo n. 4, che vieta i respingimenti collettivi (della cui applicabilità anche alle ipotesi di respingimento in mare la Corte non vede ragione di dubitare), posto che i ricorrenti erano stati trasferiti in Libia senza alcuna valutazione delle peculiarità di ogni singolo caso (p. 159-186); l'art. 13, in relazione all'art. 3 ed all'art. 4 prot. 4, considerato come i ricorrenti non avessero avuto alcuna possibilità di contestare davanti ad un'autorità competente la legittimità del respingimento cui venivano sottoposti (p. 187-207).
A seguito della sentenza Hirsi, consegue che nell'area applicativa del divieto di respingimento devono essere ricondotte anche le operazioni di respingimento in alto mare, come quelli oggetto del caso di specie, e che la Libia, almeno fino al 2012, non poteva essere considerato un "luogo sicuro". Dunque, almeno fino al 2012, il respingimento, inteso come componente del diritto assoluto previsto dall'art. 3 Cedu, non poteva essere disposto verso la Libia.
6.3. Si pone l'ulteriore tema, anche questo non affrontato dalla Corte di appello, relativo alla verifica di un profilo che pure aveva impegnato il Tribunale e le parti, quello relativo a se, al momento in cui i fatti si verificarono (estate 2018), la Libia continuasse a non essere un "luogo sicuro", con conseguente divieto di respingimento. Occorreva cioè accertare se il quadro di riferimento descritto dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo con la sentenza Hirsi fosse successivamente mutato. Per valutare ciò il Tribunale aveva richiesto formalmente informazioni all'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, il cui dettagliato parere è stato poi ampiamente riportato nella sentenza di primo grado: il Tribunale, in particolare, aveva descritto il contenuto delle informazioni ricevute, relative alle condizioni dei centri di detenzione per i migranti presenti in Libia, ove le perone ivi trattenute (ed in particolare le donne) sono risultate sottoposte a continue e gravi violazioni dei diritti umani, con particolare riguardo al diritto alla vita ed all'integrità fisica e sessuale.
In tale contesto si pone un fatto ulteriore, e cioè che il 2 maggio 2017 l'Italia e la Libia hanno siglato un Memorandum d'intesa sulla gestione dell'immigrazione, volto ad attuare gli accordi in materia migratoria precedentemente sottoscritti dalle Parti. Il tema, su cui pure il Tribunale si era a lungo soffermato, è quello del se il contenuto di quel Memorandum potesse incidere sul quadro generale normativo descritto e dunque legittimare, al momento in cui i fatti si verificarono, i respingimenti dei ricorrenti in Libia.
Si tratta di un Memorandum che fa esplicito riferimento al Trattato di Bengasi del 2008 e alla Dichiarazione di Tripoli del 2012, oltreché, in generale, a ulteriori accordi e memorandum in materia sottoscritti dalle parti; si esplicita "la ferma determinazione di cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l'esclusivo controllo del Ministero dell'interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei Paesi di origine".
Dunque, una chiara volontà di cooperare per la individuazione di soluzioni urgenti, costituite sostanzialmente dalla predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia. In particolare: - ai sensi dell'art. 1: a) le parti si sono impegnate ad avviare iniziative di cooperazione per il sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari libiche al fine di arginare i flussi di migranti illegali; b) l'Italia si è impegnata a fornire sostegno e finanziamento a programmi di crescita nelle regioni libiche colpite dal fenomeno dell'immigrazione illegale; c) lo Stato italiano si è impegnato a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l'immigrazione clandestina; - ai sensi dell'art. 2, entrambi i Paesi si sono impegnati, tra l'altro, a completare il sistema di controllo dei confini terrestri del sud della Libia e ad adeguare e finanziare i centri di accoglienza libici già attivi, usufruendo degli eventuali finanziamenti italiani e dell'Unione Europea. Con D.L. 10 luglio 2018, n. 84, convertito nella L. 9 agosto 2018, n. 98, è stata autorizzata la cessione a titolo gratuito alla Libia di 12 unità navali della Guardia di Finanza, con l'obiettivo di incrementare la capacità operativa delle autorità libiche "nelle attività di controllo e di sicurezza rivolte al contrasto all'immigrazione illegale e al traffico di esseri umani, nonché nelle attività di soccorso in mare".
Il 16 maggio 2019 il governo italiano ha proposto alla Libia, che ha accettato, la cessione di 10 unità navali per i fini indicati nel D.L. indicato. Successivamente al memorandum sono state espresse nuove riserve dalle Nazioni Unite (UNHCR position on returns to Libya (Update II), settembre 2018): si affermato che "finché non miglioreranno considerevolmente la sicurezza del Paese e il rispetto dei diritti umani, la Libia non potrà essere considerato né come Paese terzo sicuro per i respingimenti di cittadini libici o provenienti da esso (parr. 37-40), né come Paese terzo sicuro (par. 41), né come porto sicuro nel quale procedere allo sbarco, dopo le operazioni di salvataggio in mare (par. 42)".
Il 4 ottobre 2019 il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con il Ministro dell'interno e con il Ministro della giustizia, ha emanato un decreto nel quale è stabilito che "sono considerati Paesi di origine sicuri: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina": dunque non vi è la Libia. Prescindendo da ogni considerazione sulla legittimità di quel Memorandum, di cui il Tribunale ha fortemente dubitato, è sufficiente evidenziare come il suo contenuto abbia una valenza neutra rispetto all'oggetto del presente procedimento perché non consente affatto di affermare che, in concreto, al momento in cui i fatti furono commessi, esistevano le condizioni per rispingere in Libia i migranti e, in particolare, che fossero mutate le condizioni che avevano condotto la Corte Europea dei diritti dell'uomo a ritenere, per tutte le ragioni indicate, la Libia non un luogo sicuro.
7. La Libia nel luglio del 2018 non era un luogo sicuro e il respingimento dunque non poteva essere disposto ed eseguito. Esisteva una situazione di pericolo reale ed attuale di una offesa ingiusta: una situazione nota, documentata, accertata, fondata su dati di fatto concreti. Una situazione di pericolo, aveva correttamente spiegato il Tribunale, materializzatasi a seguito dell'ordine di respingimento collettivo dei migranti verso la Libia. Una situazione di pericolo per i diritti fondamentali delle persone, derivante da una condotta antigiuridica. Sul punto la sentenza della Corte è silente. Non diversamente, la sentenza è silente sul perché, diversamente da quanto aveva ritenuto il Tribunale, le persone migranti non avessero il diritto di opporsi a quella situazione, di far valere i propri diritti fondamentali, di reagire difendendosi rispetto ad un respingimento che esponeva loro al rischio concreto di trattamenti inumani; ciò che non è stato né trattato, né spiegato dalla Corte è perché le persone, che non avevano colluso alcunché con gli scafisti e con le organizzazioni criminali e che fino a quel momento non avevano manifestato nessun comportamento oppositivo, non potessero rivendicare i propri diritti fondamentali, ma dovessero restare "fermi", inerti, e accettare di tornare in Libia con il rischio di subire torture o comportamenti inumani. Le persone che erano sul rimorchiatore (omissis) subirono un grado di costrizione elevato rispetto al quale vi era una "necessità" della condotta, intesa come non sostituibilità della stessa mediante condotte alternative.
Nella costruzione della scriminante di cui all'art. 52 c.p., il dovere di ritirarsi altro non è che la manifestazione plastica del requisito della stretta necessità dell'uso della forza da parte dell'aggredito: la reazione lesiva deve essere l'ultima ed unica possibilità per la persona. Nel ragionamento della Corte di appello non è nemmeno esplicitato se nella specie esistesse una condotta alternativa percorribile e, posto che vi fosse, quale sarebbe stata, tenuto conto che le persone a bordo, anche se avessero deciso di gettarsi in mare, avrebbero neutralizzato il pericolo che correvano solo con l'annegamento.
Sotto ulteriore profilo, la Corte di appello, colora il proprio ragionamento giuridico riportando, oltre ad alcune considerazioni generali, le dichiarazioni dei pubblici ufficiali che erano a bordo del rimorchiatore e che si trovarono a fronteggiare le condotte di resistenza compiute dai migranti quando questi appresero del respingimento in Libia. Dopo aver descritto dette condotte, che pure erano state riportate dal Tribunale, la Corte - a pag. 13- dedica poche righe alla valutazione delle dichiarazioni rese da numerose persone diverse dagli imputati, assunte anche in sede di incidente probatorio, che invece erano state esaminate dal Tribunale per spiegare come: a) la reazione fu originata dalla prospettiva di essere ricondotti in Libia; b) le persone minacciarono di gettarsi in mare e lasciarsi morire piuttosto che essere respinti in Libia; c) il significato di alcuni gesti obiettivamente minacciosi, come quello "di passarsi il dito intorno alla gola", avesse una valenza non esclusivamente minacciosa nei riguardi del comandante di quella imbarcazione, ma evocasse uno condizione ed uno stato di disperazione delle persone, molte delle quali avevano lasciato intrapreso quel viaggio per allontanarsi da paesi di provenienza a loro volta non sicuri.
Al riguardo, la Corte, in violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata e di quello di rinnovazione della prova dichiarativa, ex art. 603 c.p.p., comma 3 bis, si è limitata ad affermare che le dichiarazioni in questione fossero "sostanzialmente confermative delle azioni minacciose violente poste in essere dagli odierni imputati al fine di costringere il comandante del rimorchiatore a invertire la rotta già impostata verso la Libia ed a puntare verso Nord, ossia versi l'Italia" (così a pag. 13). Anche in questo caso una motivazione non conforme agli obblighi imposti dalla legge. Ne', ancora, è stato spiegato, diversamente da quanto aveva fatto il Tribunale, se ed in che limiti la reazione fu sproporzionata; si tratta di un profilo nemmeno contestato dal Procuratore appellante, tenuto conto dei beni e dei diritti posti in pericolo a seguito di un respingimento che non poteva essere disposto e che causò la reazione delle persone a bordo di quella nave. La scriminante della legittima difesa sarebbe stata ovviamente non configurabile se la reazione fosse stata sproporzionata. Escluso che gli imputati abbiano colluso con gli scafisti e ritenuta corretta la motivazione con cui il Tribunale ha ritenuto la condotta di resistenza scriminata ai sensi dell'art. 52 c.p., non è chiaro perché sarebbe configurabile il reato contestato al capo b),
7. Una sentenza, quella impugnata, viziata sul piano della motivazione e nell'applicazione della legge penale in ordine ad entrambe le imputazioni, ai temi fondanti relativi alla oggettiva configurabilità dei reati contestati, alla responsabilità degli imputati. Dunque, una sentenza che deve essere annullata senza rinvio perché i fatti non sussistono.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i fatti non sussistono.