E' reato tentare di togliere il velo islamico a donne di religione musulmana, se accertata la volontà lesiva dell'integrità morale di persone appartenenti a una cultura religiosa, quella islamica, diversa da quella cattolica dominante nel Paese
Cassazione penale
Sezione III penale
sentenza 9 marzo-4 aprile 2006, n. 11919
Presidente De Maio - relatore De Maio
Pg Izzo - ricorrente Cudillo
Motivazione
Con sentenza in data 12 gennaio 2005 la Corte d'appello di Genova confermò la sentenza 6 ottobre 2003 del Tribunale di quella città, con la quale GC era stato condannato alla pena di giustizia perché riconosciuto colpevole del reato di cui agli articoli 81 co 1-527 Cp e 3 Dl 122/1933 (perché diceva a PN e CR, in presenza di entrambe e di più persone, "negre di merda, musulmane di merda, sparatemi un bocchino, voi che fate bocchini agli altri, fatemene uno anche a me" e nel contempo estraeva ed esibiva il membro virile sulla pubblica via, con l'aggravante della recidiva reiterata specifica nel quinquennio e di avere commesso il fatto per finalità di discriminazione ed odio etnico razziale e religioso, essendo le persone offese musulmane e in presenza di più persone, in Genova il 4 ottobre 1998).
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore dell'imputato, il quale denuncia: I) che la Corte di merito sarebbe "incorsa in una erronea qualificazione giuridica dei fatti, supportata da una motivazione illogica e contraddittoria", in quanto dagli atti sarebbe emerso:
- a) che "i fatti di cui al procedimento avrebbero dovuto essere eventualmente ricondotti alla fattispecie ex articolo 726 Cp";
- b) che "la condotta del Cudillo non era neppure supportata dall'elemento psicologico del reato"; II) violazione dell'articolo 3 Dl 122/93 e insussistenza della relativa aggravante, in quanto il Cudillo, anche in considerazione dello stato di alterazione psico-fisica in cui si trovava, pur avendo proferito una frase obiettivamente oltraggiosa, certamente non si era rappresentato coscientemente quei contorni razziali di cui alla contestata aggravante".
Il ricorso va dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dovendosi rilevare, quanto al primo motivo, che è ineccepibile la motivazione sul punto della sentenza impugnata che ha escluso la fondatezza della tesi difensiva della ravvisabilità del reato di cui all'articolo 726 Cp sulla base del rilievo che l'estrazione del pene sarebbe stata finalizzata all'azione di orinare contro il muro.
Esattamente, infatti, la sentenza impugnata ha rilevato che la tesi stessa presuppone una arbitraria scissione della condotta in fasi separate, laddove, invece, la condotta stessa risulta ("proprio attraverso l'articolarsi dei gesti, posti in essere senza soluzione di continuità e accompagnato da parole che provano anche l'elemento psicologico del reato") finalisticamente unitaria e tale da connotare in termini ben precisi e definiti il reato di cui all'articolo 527 Cp ("... deve aversi riguardo al complesso della condotta caratterizzata dall'abbassamento dei calzoni, dall'esibizione del sesso attraverso il gesto di toccare il pene,anche se coperto dalla biancheria intima, ma accompagnato da parole inequivocabilmente oscene, quali appunto l'invito al coito orale e solo al termine di ciò dalla minzione contro un muro"). Peraltro, la censura del convincimento in tal modo espresso dai giudici di merito è mancante del requisito di specificità, in quanto apodittica e meramente assertiva.
Quanto al secondo motivo, va osservato che anche su tale punto la motivazione dei giudici di merito è ineccepibile. Essi, infatti, hanno desunto, in modo logico ed adeguato, la volontà lesiva dell'integrità morale di persone appartenenti a una cultura religiosa, quella islamica, diversa da quella cattolica dominante nel Paese, dal significato delle parole e dal contesto nel quale le stesse furono pronunciate ("cioè cercando di togliere il velo che la religione musulmana impone alle credenti, che vennero apostrofate mentre si stavano recando alla moschea e aggredite al ritorno"). Peraltro, anche a tale proposito la censura risulta meramente assertiva e, quindi, mancante di specificità.
È opportuno precisare che in relazione al presente ricorso non è ravvisabile, in considerazione dei motivi dedotti, la possibilità di presentazione di motivi nuovi di cui all'articolo 10 co 5 legge 46/2006.
La deduzione sub I), contenente da un punto di vista formale una censura di illogicità della motivazione, si esaurisce in realtà nella prospettazione di una violazione di legge (riferibilità del fatto al reato di cui all'articolo 726 Cp, e non a quello di cui all'articolo 527 Cp).
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente alle spese processuali, nonché (non essendo ipotizzabile un'assenza di colpa) al versamento alla Cassa delle ammende della somma, equitativamente fissata, di cinquecento euro.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di euro cinquecento alla Cassa delle ammende.