Ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita di una soma di denaro, è necessario che l’agente violi, attraverso l’utilizzo personale, la specifica destinazione di scopo ad esso impressa dal proprietario al momento della consegna, non essendo sufficiente il semplice inadempimento all’obbligo di restituire somme in qualunque forma ricevute.
La mancata restituzione di una somma ricevuta per errore genera un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra però esclusivamente un inadempimento di natura civilistica.
Corte di Cassazione
sez. II Penale, sentenza 29 gennaio – 26 febbraio 2019, n. 8459
Presidente Gallo – Relatore Aielli
Ritenuto in fatto
L.S. ricorre avverso la sentenza della Corte di Appello di Trieste del 4/7/2017 con la quale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pordenone del 18/11/2014, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9, è stata ridotta la pena a lui inflitta per il delitto di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), aggravata ex art. 61 c.p., n. 11; deduce il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 15, 646 e 647 c.p., atteso che la Corte d’appello pur ritenendo che la condotta appropriativa del denaro - posta in essere dal L. il quale, nonostante il collocamento in acquiescenza, continuò a percepire lo stipendio - fosse riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 647 c.p., per la quale non era stata proposta querela, concludeva per la rilevanza penale del fatto ex art. 646 c.p., in violazione del principio di specialità, dovendosi invece ritenere, a parere del ricorrente, che in ogni caso la condotta in parola dovesse rientrare nella previsione di cui al D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 4, comma 1, lett. f) che prevede una sanzione assimilabile a quella penale ovvero una sanzione amministrativa che, in virtù dell’art. 15 c.p. ovvero della L. n. 689 del 1981, art. 9, dovrebbe essere applicata in luogo dell’art. 646 c.p., dovendosi escludere in ogni caso, ex art. 2 c.p., la rilevanza penale del fatto.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce i vizi di violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione avuto riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, dovendosi escludere che la erogazione dello stipendio fosse ricollegabile al preesistente rapporto lavorativo quanto piuttosto ad un errore di comunicazione tra la Direzione generale del Lavoro e la Ragioneria territoriale dello Stato, deficit di comunicazione cui non avrebbe contribuito il L. con la conseguenza che data l’ipotizzabilità dell’appropriazione indebita semplice, il reato sarebbe improcedibile per mancanza di querela.
Con il successivo motivo il L. censura la sentenza impugnata per della violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione avuto riguardo alla condotta appropriativa. Secondo il ricorrente, data la confusione del denaro, bene fungibile, con il patrimonio dell’accipiens, si potrebbe ipotizzare solo un’azione civile di indebito arricchimento ex art. 2033 c.c., come ritenuto in fase di indagini dal Gip che negò il sequestro delle somme indebitamente percepite; in ogni caso anche a voler considerare, come ritenuto dalla Corte di merito, che la condotta penalmente rilevante del L. fosse quella successiva al ricevimento del denaro e si sostanziasse nella omessa segnalazione dell’errore, tale condotta non darebbe luogo ad alcuna fattispecie penalmente rilevante, né lo sarebbero le condotte distrattive segnalate dalla Corte di merito, costituenti un post factum non punibile a fronte, invece, della disponibilità alla restituzione manifestata dal ricorrente, il quale si sarebbe fondatamente opposto alla diffida amministrativa di restituzione, solo con riguardo quantum computato chiedendo, data la propria situazione economica, solo una rateizzazione del debito. Aggiunge il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato senza tener conto dell’autodenuncia del L. circa l’indebito percepimento; censura, infine, con riguardo al trattamento sanzionatorio, l’eccessività della pena, il diniego delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuate comune di cui all’art. 62 c.p., n. 6.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato e va accolto.
Nel caso di specie si verte in tema di appropriazione indebita di somme di denaro erroneamente erogate dall’Ente dal 20 gennaio 2010 al 14/11/2012, nonostante l’intervenuta cessazione del rapporto di lavoro.
Orbene a prescindere dalla contraddittorietà della argomentazione riportata nella premessa della impugnata sentenza, laddove si ritiene la condotta appropriativa del L. , caratterizzata dall’errore sulla persona diversa dal disponente, integrativa "certamente" della fattispecie di cui all’art. 647 c.p., comma 3, ora depenalizzata D.Lgs. n. 7 del 2016, ex art. 4, salvo poi considerare la condotta medesima penalmente rilevante ai sensi dell’art. 646 c.p., si deve concludere, in linea con quanto sostenuto dalla difesa al punto C) del ricorso, che il fatto non presenta caratteri di illiceità penale non ricorrendo l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 646 c.p. e ciò non in ragione della natura fungibile del bene (denaro) oggetto della condotta appropriativa, che va considerato di altri quando sia affidato per un uso determinato o per una specifica indicazione nell’interesse del proprietario, ma perché ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita, qualora oggetto della condotta sia appunto il denaro, è necessario che l’agente violi, attraverso l’utilizzo personale, la specifica destinazione di scopo ad esso impressa dal proprietario al momento della consegna, non essendo sufficiente il semplice inadempimento all’obbligo di restituire somme in qualunque forma ricevute (Sez. 2, n. 15815/2017, Rv. 269462; Sez. 2 n. 50672/2017, Rv. 271385; Sez. 2, n. 24857/2017, Rv. 270092).
Nel caso di specie la disposizione di bonifico bancario da parte dell’Ente erogatore dello stipendio, sia pure erroneamente eseguita, ha determinato il trasferimento del denaro sul conto corrente del L. i cui atti dispositivi non possono considerarsi dimostrativi dell’interversio possessionis trattandosi di bene entrato nel patrimonio dell’accipiens, senza destinazione di scopo e configurandosi, in tal caso, solo un obbligo di restituzione dell’indebito. Infatti a seguito della dazione, la somma di denaro è entrata definitivamente a far parte del patrimonio dell’"accipiens" senza alcun vincolo di impiego, con la conseguenza che venuto meno il rapporto, tra le parti matura solo un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra esclusivamente un inadempimento di natura civilistica.
Tali considerazioni impongono l’annullamento senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.