L'assegno divorzile ha una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa.
Il Giudice, per stabilire se attribuire o meno l’assegno, deve verificare in primo luogo se sussista un divario rilevante nella situazione economica delle parti, eventualmente esercitando proprio in questa fase i poteri ufficiosi richiamati nella sentenza: se tale divario non emerge, non potrà essere riconosciuto alcun diritto al percepimento di un contributo economico da parte del richiedente.
Se invece emerge un divario rilevante nella situazione economica, non per ciò solo vi sarà diritto ad un assegno divorzile, dovuto solo qualora lo squilibrio sia conseguenza anche dei sacrifici effettuati dal richiedente, il diritto alla corresponsione dell’assegno vi sarà. Viceversa, qualora nessuno dei coniugi si sia sacrificato a tal fine (solo a titolo di esempio, nel caso in cui matrimonio abbia avuto durata molto breve, non siano nati figli e non vi sono state rinunce delle parti allo sviluppo della propria professionalità per favorire la crescita della famiglia), non vi sarà spazio per il riconoscimento di un assegno divorzile.
Deve necessariamente ritenersi che vi sarà un diritto all’assegno e che, sotto il profilo del quantum, sarà riconosciuto in misura proporzionalmente sempre maggiore, nel caso di esistenza di un rilevante divario economico – patrimoniale fra i coniugi formatosi anche come conseguenza della circostanza che uno di essi si è sacrificato per la famiglia e per consentire al compagno di sviluppare il patrimonio familiare. L’assegno, viceversa, non vi sarà, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale fra i coniugi, qualora non vi sia stato alcun sacrificio di uno di essi per la formazione del patrimonio comune nel periodo dell’unione matrimoniale. Se, infatti, deve essere attribuita rilevanza centrale alla funzione compensativa, la quale mira a compensare i sacrifici fatti dai coniugi nel matrimonio, allora non vi può essere spazio per l’attribuzione dell’assegno quando i sacrifici non siano stati effettuati.
In Italia, ove il sistema del welfare e del reinserimento lavorativo è molto ridotto, la corresponsione di un assegno divorzile, stante la presenza di ammortizzatori sociali, deve essere valorizzata anche quale strumento che consente al coniuge meno abbiente una vita dignitosa sino all’instaurarsi di una nuova situazione lavorativa.
L'assegno divorzile ha anche funzione assistenziale, fondata sull’art. 29 Cost., al fine di fornire, al contempo, protezione alla dignità della persona, evitando la creazione di ingiustificate rendite di posizione; anche il principio di solidarietà ex art. 2 Cost. deve comunque trovare spazio in particolari situazioni di disagio.
Va data dignità e importanza al vissuto della coppia nel matrimonio, dando rilievo al principio di solidarietà post-coniugale e senza che il divorzio possa azzerare il passato, come confermato anche da altre disposizioni, quali la previsione di una assegno a carico eredità o la ripartizione della quota del trattamento di fine rapporto.
Nel solo caso in cui venga riconosciuto l’assegno divorzile – sotto il profilo dell’an – in considerazione della funzione assistenziale (ossia sulla base di un duplice presupposto: il primo, alternativo, o dell’assenza di divario patrimoniale o della presenza di divario ma non generato anche dai sacrifici e dalle rinunce del coniuge debole, il secondo dell’assenza di mezzi adeguati per vivere e dell’incapacità del coniuge di procurarseli), la misura dell’assegno dovrà essere parametrata, sotto il profilo del quantum, a quel tantundem che consenta al richiedente di mantenersi per il tempo necessario a reinserirsi nel mondo del lavoro, senza far rivivere parametri para legislativi quali quello del “tenore di vita”.
Alla luce della funzione compensativa, dell’esistenza di un divario economico fra i coniugi e delle ragioni che hanno condotto alla formazione dello stesso, vanno poi valutati tutti gli altri parametri di cui alla legge, fra i quali posizione centrale assume la durata del matrimonio.
L'assegno deve adattarsi sia alle situazioni più risalenti in cui il modello familiare tipico vedeva soltanto il marito svolgere un’attività lavorativa, mentre la moglie si occupava della famiglia, sia di adeguarsi ai mutamenti storico-sociali della struttura familiare moderna, riscontrandosi oggi sempre più casi nei quali entrambi i coniugi svolgono una professione; la situazione sociale penalizzante per le donne, rispetto agli uomini, sia nella ricerca del lavoro, sia nelle prospettive di carriera, sia in molti casi nel livello retributivo pur a parità di mansioni, va tenuta in considerazione al solo fine di valutare in concreto se un soggetto possa, dopo il divorzio, reinserirsi nel mondo del lavoro, ma non può essere posta a base della decisione sull’assegno divorzile dando ingresso ad una locupletazione ingiustificata basata sul criterio del tenore della vita matrimoniale, superando la funzione compensativa dell’assegno posto che quest’ultimo non servirebbe a ristorare la parte che, sulla base delle scelte della coppia, ha sacrificato le proprie ambizioni personali di realizzazione lavorativa, ma attribuirebbe invece alla parte medesima un vantaggio superiore a tale sacrificio.
Tribunale di Treviso
sez. I Civile, sentenza 8 gennaio 2019
Giudice Estensore Barbazza
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione ex art. 132, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ.
Con ricorso depositato in data 20 dicembre 2017 Ma. esponeva di aver contratto matrimonio con An. Ma. in data (omissis), scegliendo il regime patrimoniale della separazione dei beni, ed evidenziava che dall’unione non era nato alcun figlio.
In seguito all’instaurazione del presente procedimento per lo scioglimento del matrimonio, all’udienza del 3 giugno 2018 il Presidente f.f. confermava le condizioni previste in sede di separazione, concernenti l’obbligo per di corrispondere Euro 1.500,00 mensili alla moglie.
Il ricorrente riferiva di essere lavoratore dipendente di una ditta italiana in Argentina, con stipendio di circa 4.600,00 Euro mensili per tredici mensilità. Dichiarava di non avere alcuna spesa per l’alloggio, messo gratuitamente a disposizione dall’azienda, e di essere proprietario di un immobile in Italia, acquistato prima del matrimonio, per il quale corrisponde ancora oggi un mutuo di circa Euro 1.000,00 mensili.
Quanto alla moglie, egli riferiva che la stessa viveva in Italia ed era laureata in commercio estero. Specificava inoltre che si era dimessa volontariamente dall’azienda per cui lavorava e, successivamente, anche da altra attività lavorativa reperitale dal marito stesso, quale segretaria nella stessa azienda datrice di lavoro del ricorrente.
Chiedeva dunque pronunciarsi lo scioglimento del matrimonio e l’accertamento di non dover corrispondere nulla a titolo di assegno divorzile nei confronti della moglie.
Con comparsa di costituzione e risposta si costituiva An. Ma., la quale deduceva di essere giunta in Italia per seguire il marito, lasciando il proprio lavoro e la propria famiglia. Dichiarava di vivere in locazione, pagando un canone di Euro 550,00 mensili e di aver lasciato il lavoro dopo il matrimonio, d’accordo con il marito.
Specificava di averlo successivamente seguito in una diversa località e di essersi licenziata dall’impiego come segretaria, scelta condivisa con il (..) in quanto non riusciva a vedere il marito e le mansioni assegnatele non erano soddisfacenti.
Deduceva di essersi poi trasferita in Italia, sempre d’accordo con il marito, e di non essere riuscita a reperire alcuna attività lavorativa, nonostante l’invio di numerosi curricula, in quanto non conosceva bene la lingua. Specificava, inoltre, di aver frequentato un corso di italiano per stranieri e che era sempre stato il marito a chiederle di seguirlo nei suoi spostamenti, dicendo che la avrebbe mantenuta lui.
La resistente aderiva alla richiesta di pronuncia dello scioglimento del matrimonio, ma si opponeva a quella relativa alla corresponsione dell’assegno di mantenimento.
Lamentando, infatti, un’evidente maggiore capacità economica del chiedeva disporsi a suo favore un assegno di Euro 1.900,00 mensili, con rivalutazione monetaria annuale ex lege in base agli indici ISTAT.
All’udienza del 20 settembre 2018 avanti al Giudice Istruttore comparivano le parti, le quali rinunciavano alla concessione di termini ex art. 183, comma VI, cod. proc. civ. e precisavano le conclusioni. Il Giudice mandava la causa al Pubblico Ministero e si riservava di riferire al Collegio, concedendo termini ex art. 190 cod. proc. civ.
La domanda di accertamento negativo relativamente alla sussistenza dell’obbligo al versamento di assegno divorzile formulata dal è fondata e va accolta per le ragioni che seguono.
1. Giurisdizione e legge applicabile
Va innanzitutto rilevato che il matrimonio tra le parti è stato celebrato in Venezuela.
Ai sensi dell’art. 3 Regolamento CE n. 2201/2003 (c.d. Bruxelles II bis) sussiste la giurisdizione italiana, stante la residenza abituale in Italia della convenuta.
Quanto alla legge applicabile alla presente controversia, dato atto che deve ritenersi siano utilizzabili, ratione temporis, i criteri di collegamento individuati dal Regolamento UE n. 1259/2010 del Consiglio del 20 dicembre 2010 (in quanto applicabile ex art. 18 ai procedimenti avviati a partire dal 21 giugno 2012), va individuata nella legge italiana, ex art. 8 Regolamento UE n. 1259/2010 (Cosiddetto Roma III), essendo stata adita l’autorità giudiziaria italiana.
2. La disciplina normativa di cui all’art. 5, legge 1 dicembre 1970, n. 898
2.1 Il diritto al riconoscimento di un assegno divorzile è previsto dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898 la quale, all’art. 5, comma sesto, dispone: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
L’interpretazione di tale disposizione deve essere rivisitata in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite 11 luglio 2018, n.18287, con la quale la Suprema Corte ha cercato di offrire alcune chiavi di volta ai giudici di merito per la determinazione e quantificazione dell’assegno divorzile, a fronte del variegato panorama giurisprudenziale formatosi successivamente al revirement compiuto dalla prima sezione della Corte di Cassazione nel maggio 2017 con la sentenza n. 11504, chiarendo che non deve ritenersi sussistente alcuna scissione tra “an debeatur” e “quantum debeatur”, come invece ritenuto per orientamento consolidato sin dalle Sezioni Unite del 29 novembre 1990 n. 11490.
Per maggiore chiarezza espositiva devono essere ripercorsi le fasi salienti dell’iter giurisprudenziale.
2.2.1 In un primo momento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 2008 del 1974) avevano attribuito all’istituto dell’assegno divorzile una natura composita, al contempo assistenziale, risarcitoria e compensativa.
In seguito alla riforma introdotta dalla l. n. 74 del 1987, si è ritenuto dovesse essere effettuato un giudizio bifasico, stabilendo in primo luogo se sussistesse o meno un diritto all’assegno e solo successivamente quantificandone l’ammontare. L’an veniva individuato nella sussistenza di mezzi adeguati, e dunque slegato da parametri legali, mentre il quantum era parametrato in base ai criteri indicati nel modificato art 5 l. div.
2.2.2 Si è successivamente affermata in giurisprudenza una funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno, fondata, quanto alla fase di accertamento del diritto all’assegno divorzile, sul criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (il cui apice si è registrato in Cass. civ., Sez. Unite, sent. 29 novembre 1990, n. 11490), parametro tuttavia privo di un riferimento legislativo, costruito sul presupposto dell’ “inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio” (fra le altre, cfr. Cassazione civile, sentenza 21 ottobre 2013, n. 23797).
Tale criterio andava desunto “dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall'ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali” (in questo senso, anche Cassazione civile, sentenza 9 giugno 2015, n. 11870; Cassazione civile, sentenza 12 luglio 2007, n. 15610; Cassazione civile, sentenza 28 febbraio 2007, n. 4764): l’inadeguatezza dei mezzi era quindi intesa come insufficienza delle sostanze e dei redditi del richiedente ad assicurargli la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
2.2.3 La circostanza che il tenore di vita non trovasse un suo riferimento nel dato legislativo aveva portato alla rimessione della questione alla Corte costituzionale, con ordinanza del 22 maggio 2013 da parte del Tribunale di Firenze. Infatti ci si era chiesti se l’interpretazione fornita dal diritto vivente di un assegno volto a garantire al coniuge più debole economicamente il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio fosse compatibile con la Costituzione. Con sentenza n. 11 del 2015 la Corte ha dichiarato la questione non fondata, stabilendo che il tenore di vita dovesse essere tenuto in considerazione in astratto quale tetto massimo della misura dell’assegno, suggerendo inoltre una concezione unitaria del giudizio tra an debeatur e quantum debeatur.
2.2.4 L’interpretazione dell’articolo 5, comma sesto, l. div. è stata profondamente modificata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 10 maggio 2017, n. 11504, poi confermata dalla sentenza 22 giugno 2017, n. 15481.
La Suprema Corte ha ritenuto in tale arresto giurisprudenziale che la presenza di mezzi adeguati o la possibilità di procurarseli comporti la negazione del diritto all’assegno divorzile. Poiché con il divorzio si attua uno scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale, si sarebbe dovuto accertare il raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente, al quale non doveva essere riconosciuto il diritto se economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo.
La Corte di Cassazione, pertanto, aveva confermato la finalità assistenziale dell’assegno, evidenziando però la necessità di sostituire il parametro del tenore di vita matrimoniale con quello dell’autosufficienza economica. Va rilevato, però, che anche tale criterio non trova appiglio in alcun specifico riferimento legislativo, al pari del tenore di vita.
2.2.5 Successivamente alla pronuncia del maggio 2017, si sono registrate diverse tesi in dottrina e giurisprudenza.
In particolare, le Corti di merito hanno evidenziato i problemi legati al parametro dell’autosufficienza economica e alla necessità di valutarla in concreto, richiamando, ad esempio, quali criteri la capacità di sostenere le spese essenziali di vita, l’ammontare degli introiti che consente di accedere al patrocinio a spese dello Stato, il reddito medio percepito nella zona in cui vive il richiedente (si vedano, ad esempio, Trib. Milano, sez. IX, ordinanza 22 maggio 2017). Ancora, si è fatto riferimento alla necessità che il richiedente provi di essersi attivato per reperire un’occupazione lavorativa consona all’esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito o di essere nell’impossibilità, per impedimento fisico o altro, di svolgere qualsivoglia attività lavorativa (Trib. Roma, sez. I, sent. 23 giugno 2017).
Altra parte della giurisprudenza si era invece discostata dal nuovo orientamento, continuando ancora a fare riferimento al precedente parametro del tenore di vita (cfr. Tribunale di Udine, sentenza 10 maggio 2017, che ha evidenziato che i concetti di “mezzi adeguati” e “indipendenza economica” non trovano riscontro nel tessuto normativo, oltre ad essere labili e forieri di divergenti interpretazioni).
2.3 A fronte di tali contrasti, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite non da parte di una Sezione semplice, ma da parte del Primo Presidente della Suprema Corte, il quale ha ravvisato nel contrasto una questione di massima di particolare importanza ex art. 374, comma secondo, cod. proc. civ.
Con la pronuncia del 2018, le Sezioni Unite hanno specificatamente affermato che l’art. 5, comma 6, l. div., è una norma autosufficiente, non essendo necessario ricercare i criteri per valutare l’adeguatezza dei mezzi all’esterno della stessa.
Pertanto, non sussiste alcuna distinzione tra la fase dell’an e del quantum debeatur, essendo necessario “abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell'assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell’art. 5, comma 6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento”. Di conseguenza, i vari criteri indicati nella norma devono essere tenuti in considerazione dal Giudice in posizione equiordinata.
In relazione alla natura giuridica dell’assegno divorzile, la Suprema Corte, superando la tesi della funzione eminentemente assistenziale posta dalle Sezioni Unite del 1990 a fondamento del loro pensiero, ha specificato che allo stesso “deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa”.
A tal proposito, va ricordato che alla sentenza del 2018 sono state mosse delle censure, soprattutto da parte della dottrina, in quanto le Sezioni Unite avrebbero dettato dei principi di diritto in parte motiva poi non specificamente ripresi nel dispositivo, ingenerando confusione tra le diverse funzioni dell’assegno.
2.6 Al fine di individuare, pertanto, quale sia l’indicazione nomofilattica fornita dalla Corte per affrontare in modo uniforme le controversie al vaglio della giurisprudenza di merito, va dato rilievo alla circostanza che la pronuncia delle Sezioni Unite pone una particolare attenzione al metodo comparatistico, al fine di analizzare il quadro della legislazione degli altri paesi Europei “in considerazione della natura dei diritti in gioco e della composizione del principio solidaristico ad essi sottesi”; solo il metodo comparato, infatti, con l’analisi delle varie soluzioni offerte in diversi ordinamenti al medesimo problema, permette di individuare le “soluzioni migliori” per il tempo ed il luogo in questione.
Inoltre, tale metodo può essere utilmente impiegato anche nell’interpretazione di norme di diritto nazionale nella misura in cui sorgano dubbi sull’interpretazione delle stesse o si riscontrino specifiche lacune di un ordinamento giuridico che devono essere colmate dal giudice e per le quali il procedimento puramente letterale o logico non sia sufficiente. In tali casi, come nel presente in cui è dubbio quale debba intendersi la natura giuridica prevalente dell’istituto analizzato fra le tre evidenziate dalla Suprema Corte, va tenuto presente che l’odierno legislatore sempre più frequentemente si adegua a modelli e soluzioni comparate ed il metodo comparatistico diviene quindi fondamentale nell’analisi della ratio legis della disposizione.
2.6.1 Per ciò che concerne la Francia, l’art. 270, comma secondo, Code civil, stabilisce che uno dei coniugi può essere obbligato a versare all’altro una prestazione di carattere forfettario di natura compensatoria, di regola versata in un’unica soluzione (capital). Solo in via eccezionale, quando l’obbligato non sia in grado di adempiere con una singola dazione, il Giudice può disporre una dilazione periodica, ma per un arco temporale massimo.
Solo per specifica motivazione del giudicante e in via del tutto residuale, è prevista la possibilità di corresponsione di una rendita vitalizia (rente à vie) in casi residuali quali, ad esempio, l’incapacità del coniuge di provvedere autonomamente ai bisogni primari di vita.
Con la riforma del 2000, è stata inoltre stabilita la possibilità di riconoscere una prestazione mista fra rendita vitalizia e corresponsione in via capitale, confermando tuttavia che l’orientamento seguito dal legislatore francese è quello di non riconoscere assegni divorzili a tempo indeterminato, ma di consentire, da un lato, ai coniugi di mantenersi autonomamente o di reinserirsi nel mondo del lavoro e, dall’altro, di configurare tale dazione come una compensazione dei sacrifici sopportati da uno dei due in costanza di matrimonio.
2.6.2 Anche nell’ordinamento tedesco è centrale il principio di auto-responsabilità, ai sensi dei paragrafi 1569 e 1577 BGB e soltanto quando una delle parti non sia in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita può essere richiesto il versamento di un assegno. Ciò accade, ad esempio, quando uno dei coniugi non riesca a reperire un’occupazione lavorativa per ragioni di età, malattia o infermità oppure ancora il diritto sussiste per almeno tre anni dopo la nascita di un figlio.
Regola fondamentale, pertanto, in Germania è quella degli incrementi patrimoniali, sulla base del modello di comunione differita dei paesi del Nord Europa. Soggiacendo a tale regola, qualora le parti non abbiano previsto diversamente, i coniugi non avranno un patrimonio comune e allo scioglimento del matrimonio sarà dunque suddiviso l’incremento patrimoniale prodotto da entrambi in costanza dell’unione, con il versamento di un conguaglio, parametrato in conseguenza.
2.6.3 Dalla breve analisi comparata svolta, pertanto, emerge come regola generale quella dell’autosufficienza di ciascun coniuge al termine del rapporto matrimoniale e della limitazione dell’assegno ad un periodo circoscritto, aspetto riscontrabile anche nei principi redatti dalla Commission on European Family Law (CEFL). Un assegno periodico vitalizio, invece, viene riconosciuto solo in via eccezionale e la corresponsione è inoltre parametrata ad accadimenti particolari.
2.6.4 Corollario di tale tesi è che la funzione assistenziale dell’assegno divorzile, basata sull’aspetto solidaristico letto alla luce dell’art. 2 Cost., non può e non deve essere considerata come equiparata agli altri aspetti perequativo – compensativi.
Così è ad esempio in Germania dove, come brevemente accennato sopra, l’assegno divorzile nei limitati casi in cui viene disposto va parametrato, sotto l’aspetto del quantum, agli incrementi patrimoniali che durante il matrimonio il soggetto avrebbe potuto conseguire e ai quali ha invece rinunciato per favorire lo sviluppo professionale e quindi reddituale del coniuge, con la conseguenza che in base a tale regola, la ricchezza viene redistribuita mediante il conguaglio dei rispettivi incrementi economici.
Con la precisazione, tuttavia, che tali analisi si scontrano necessariamente con la realtà economico–sociale e con la funzione di welfare dello Stato di riferimento: laddove, infatti, in quest’ultimo vi sia un modello di welfare forte, vi sarà una minor necessità della corresponsione di un assegno essendo garantita l’erogazione di prestazioni sociali e sussistendo maggiori possibilità per il soggetto di reinserirsi grazie a tale supporto nel mercato del lavoro, con l’effetto che tali prestazioni statali sostituiscono la funzione dell’assegno divorzile, rendendo superflua la corresponsione di somme da parte dell’altro coniuge allorché si abbracci una funzione compensativa dell’istituto.
In Italia, ove viceversa il sistema del welfare e del reinserimento lavorativo è molto ridotto, la corresponsione di un assegno divorzile, stante la presenza di ammortizzatori sociali, deve essere valorizzata anche quale strumento che consente al coniuge meno abbiente una vita dignitosa sino all’instaurarsi di una nuova situazione lavorativa.
In conclusione, sulla scorta di tali dati, deve ritenersi abbia maggior rilevanza quanto affermato dalla Suprema Corte in parte motiva, offrendo prevalenza alla natura perequativo-compensativa dell’assegno divorzile.
2.6.5 Non va tuttavia dimenticato, diversamente da quanto indicato, che la pronuncia della Suprema Corte attribuisce valore anche alla funzione assistenziale, fondata sull’art. 29 Cost., al fine di fornire, al contempo, protezione alla dignità della persona, evitando la creazione di ingiustificate rendite di posizione.
Se, di conseguenza, il fondamento dell’assegno non deve essere più riscontrato, come accadeva prima del 2017, nel principio di solidarietà ex art. 2 Cost., tuttavia tale funzione deve comunque trovare spazio in particolari situazioni di disagio.
2.7 La sentenza del 2018 ha certamente il merito di restituire dignità e importanza al vissuto della coppia nel matrimonio, dando rilievo al principio di solidarietà post-coniugale e senza che il divorzio possa azzerare il passato, come confermato anche da altre disposizioni, quali la previsione di una assegno a carico eredità o la ripartizione della quota del trattamento di fine rapporto.
Tuttavia, il principale problema che si palesa agli interpreti è relativo al passaggio motivazionale nel quale la Corte evidenzia che: “la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall'assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro”.
Pertanto ed a tal fine, il principio di autoresponsabilità e di autodeterminazione deve essere coniugato con il principio di solidarietà in concreto, ponendolo a fondamento della spettanza dell’assegno e la pronuncia del 2018 delle Sezioni Unite, se è ben vero che offre delle indicazioni teoriche e degli spunti al giudice di merito per risolvere le situazioni poste al suo vaglio, non fornisce strumenti certi, in particolare in relazione all’iter da seguire.
2.8 Poste tali premesse sulla natura giuridica e sulla funzione dell’istituto, ed in base alle indicazioni fornite dalle recenti Sezioni Unite della Suprema Corte, il Collegio ritiene che il Giudice, per stabilire se attribuire o meno l’assegno, debba dunque verificare in primo luogo se sussista un divario rilevante nella situazione economica delle parti, eventualmente esercitando proprio in questa fase i poteri ufficiosi richiamati nella sentenza.
2.8.1 Se tale divario non emerge, non potrà essere riconosciuto alcun diritto al percepimento di un contributo economico da parte del richiedente.
2.8.2 Nel caso contrario, però, non per ciò solo vi sarà diritto ad un assegno divorzile: in presenza di un divario rilevante nella situazione economica delle parti, infatti, si deve innanzitutto comprendere quale sia la causa del divario stesso.
Infatti, solo qualora lo squilibrio sia conseguenza anche dei sacrifici effettuati dal richiedente, il diritto alla corresponsione dell’assegno vi sarà.
Viceversa, qualora nessuno dei coniugi si sia sacrificato a tal fine (solo a titolo di esempio, nel caso in cui matrimonio abbia avuto durata molto breve, non siano nati figli e non vi sono state rinunce delle parti allo sviluppo della propria professionalità per favorire la crescita della famiglia), non vi sarà spazio per il riconoscimento di un assegno divorzile.
In conclusione, dall’attenzione centrale fornita della Suprema Corte nella fase di determinazione dell’assegno al parametro perequativo-compensativo, deve necessariamente ritenersi che vi sarà un diritto all’assegno e che, sotto il profilo del quantum, sarà riconosciuto in misura proporzionalmente sempre maggiore, nel caso di esistenza di un rilevante divario economico – patrimoniale fra i coniugi formatosi anche come conseguenza della circostanza che uno di essi si è sacrificato per la famiglia e per consentire al compagno di sviluppare il patrimonio familiare.
L’assegno, viceversa, non vi sarà, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale fra i coniugi, qualora non vi sia stato alcun sacrificio di uno di essi per la formazione del patrimonio comune nel periodo dell’unione matrimoniale. Se, infatti, deve essere attribuita rilevanza centrale alla funzione compensativa, la quale mira a compensare i sacrifici fatti dai coniugi nel matrimonio, allora non vi può essere spazio per l’attribuzione dell’assegno quando i sacrifici non siano stati effettuati.
2.8.3 Avendo però l’assegno natura composita, è proprio in tale circostanza che deve essere recuperata la funzione assistenziale dell’istituto, riconoscendo al coniuge un assegno divorzile nel solo caso in cui non abbia mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli (per ragioni di età, salute, situazioni personali o sociali); tuttavia, sotto il profilo del quantum, in tale eventualità l’assegno dovrà essere ricondotto ad un importo sostanzialmente “alimentare”, ossia tale da garantire le esigenze minime di vita della persona.
Assume così nuova rilevanza, la funzione solidaristica dell’istituto, la quale riesce a garantire il rispetto dell’art. 2 Cost. senza, però, che attraverso il ricorso ad essa possano formarsi dei redditi di posizione.
Pertanto, nel solo caso in cui venga riconosciuto l’assegno divorzile – sotto il profilo dell’an – in considerazione della funzione assistenziale (ossia sulla base di un duplice presupposto: il primo, alternativo, o dell’assenza di divario patrimoniale o della presenza di divario ma non generato anche dai sacrifici e dalle rinunce del coniuge debole, il secondo dell’assenza di mezzi adeguati per vivere e dell’incapacità del coniuge di procurarseli), la misura dell’assegno dovrà essere parametrata, sotto il profilo del quantum, a quel tantundem che consenta al richiedente di mantenersi per il tempo necessario a reinserirsi nel mondo del lavoro, senza far rivivere parametri para legislativi quali quello del “tenore di vita”.
Alla luce della funzione compensativa, dell’esistenza di un divario economico fra i coniugi e delle ragioni che hanno condotto alla formazione dello stesso, vanno poi valutati tutti gli altri parametri di cui all’art. 5, comma sesto, l. div., fra i quali posizione centrale assume la durata del matrimonio.
2.9 In tal modo, l’istituto così riletto sarà in grado di adattarsi sia alle situazioni più risalenti in cui il modello familiare tipico vedeva soltanto il marito svolgere un’attività lavorativa, mentre la moglie si occupava della famiglia, sia di adeguarsi ai mutamenti storico-sociali della struttura familiare moderna, riscontrandosi oggi sempre più casi nei quali entrambi i coniugi svolgono una professione; come è stato correttamente rilevato da Tribunale di Pavia (sent. 17 luglio 2018) la situazione sociale penalizzante per le donne, rispetto agli uomini, sia nella ricerca del lavoro, sia nelle prospettive di carriera, sia in molti casi nel livello retributivo pur a parità di mansioni, va tenuta in considerazione al solo fine di valutare in concreto se un soggetto possa, dopo il divorzio, reinserirsi nel mondo del lavoro, ma non può essere posta a base della decisione sull’assegno divorzile dando ingresso ad una “locupletazione ingiustificata” basata sul criterio del tenore della vita matrimoniale, superando la funzione compensativa dell’assegno “posto che quest’ultimo non servirebbe a ristorare la parte che, sulla base delle scelte della coppia, ha sacrificato le proprie ambizioni personali di realizzazione lavorativa, ma attribuirebbe invece alla parte medesima un vantaggio superiore a tale sacrificio.”.
3. L’applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nel caso concreto
3.1 Va in primo luogo rilevato che la separazione tra i coniugi è ancora pendente, ma è già passata in giudicato la sentenza parziale sullo status, pronunciata il 26 settembre 2017 e la comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale risale al 17 dicembre 2015 (cfr. docc. 5, 6 e 7 parte ricorrente). Pertanto, deve essere dichiarato lo scioglimento del matrimonio poiché la separazione personale fra i coniugi si è protratta per il periodo di tempo previsto ex art. 3, numero 2), lett. b) legge 1 dicembre 1970 n. 898 ed è pacifico che la comunione materiale e spirituale fra gli stessi non può più essere ricostituita.
3.2 Relativamente alla domanda della resistente di attribuzione alla stessa di un assegno divorzile, i principi indicati dalle Sezioni Unite devono essere applicati in concreto al caso di specie, giungendo ad affermare che non sussiste alcun diritto all’assegno divorzile a favore di An. Ma. per le ragioni che seguono.
Quanto alla situazione della resistente, si rileva che la stessa ha 35 anni, non è contestato sia laureata in commercio estero e attualmente non ha alcun impiego lavorativo.
Per ciò che concerne il possesso di redditi di qualsiasi specie, dal modello Persone Fisiche 2018 risulta che nell’annualità 2017 la Be. abbia percepito come unica entrata l’assegno di mantenimento da parte del marito, per la somma complessiva di circa Euro 15.000,00 netti l’anno (circa Euro 1.100,00 netti mensili).
La resistente risiede in Italia in locazione (come risulta dalla dichiarazione dei redditi 2018), ma non fornisce alcuna documentazione attestante l’ammontare del canone pagato mensilmente.
Il matrimonio tra le parti risale al 13 dicembre 2007, mentre sentenza parziale di separazione è stata pronunciata il 26 settembre 2017. Il rapporto coniugale è, dunque, durato circa dieci anni e dal matrimonio non è nato alcun figlio.
3.3 Quanto al (..) egli è lavoratore a tempo indeterminato e percepisce uno stipendio di circa Euro 3.100,00 netti mensili (cfr. Modello UNICO 2018). Non corrisponde un canone di locazione per l’alloggio in cui vive ed è proprietario di un immobile in Italia.
3.4 La Be. fonda la sua domanda di corresponsione di un assegno su vari elementi.
In primo luogo, asserisce di aver sempre seguito il marito nei suoi trasferimenti lavorativi, di comune accordo con lo stesso, e che, sempre per scelta condivisa, si sarebbe dimessa dalle occupazioni lavorative prima presso *** e poi come segretaria. Specifica poi di essersi trasferita in Italia e di non essere riuscita a reperire alcuna attività, nonostante l’invio di numerosi curricula.
3.5 Guardando al solo aspetto patrimoniale, è pacifica la consistenza di un rilevante divario nella situazione economica delle parti. Come, però, si è già avuto modo di evidenziare, ciò non è sufficiente per riconoscere il diritto ad un assegno, essendo necessario indagare sulla causa del divario stesso.
A tal fine, deve innanzitutto rilevarsi che seppur la decisione della resistente di seguire il marito, in costanza di matrimonio, sia riconducibile ad una scelta comune tra i coniugi, non vi è prova che sia stata condivisa anche la decisione della stessa di dimettersi dalle attività lavorative in cui era impiegata (aspetto su cui diverse sono, infatti, le ricostruzioni delle parti).
Quanto alla situazione personale della resistente, la Be. ha un’età che le consente di reinserirsi nel mondo del lavoro e possiede un titolo di studio facilmente spendibile, a cui si aggiunge anche la conoscenza dello spagnolo quale lingua madre.
Inoltre, essendosi trasferita in Italia nel 2014, appare poco verosimile la circostanza da lei allegata che ai colloqui lavorativi venga scartata perché non in grado di parlare bene la lingua (cfr. dichiarazioni rese in sede di udienza presidenziale il 5 aprile 2018).
Il solo invio di curricula non è sufficiente a provare l’impossibilità di reperire un impiego e, in relazione a ciò, si rileva che la documentazione depositata dalla ricorrente risale tutta al 2018, successiva al deposito del ricorso di divorzio (soltanto un curriculum è stato inviato nel 2014).
Allo stesso modo, gli asseriti problemi di salute non sono in alcun modo provati dalla resistente, che ha rinunciato ai termini ex art. 183 cod. proc. civ.
Pertanto, deve ritenersi che la Be. possa reinserirsi nel mercato del lavoro ed è ravvisabile una sua inerzia colpevole nel reperire un’occupazione, considerato anche l’assunzione volontaria del rischio da parte sua di trasferirsi in Italia, nonostante l’asserita assenza di legami.
Oltre a tali aspetti, non sono nati figli dalla coppia e il matrimonio ha avuto una durata di circa dieci anni, ma soprattutto non vi è stato alcun apprezzabile sacrificio della Be. durante la vita coniugale che abbia contributi alla formazione o all’aumento del patrimonio del ricorrente.
Pertanto, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale, non essendovi stato alcun sacrificio, non vi è alcun diritto ad un assegno divorzile, che nel caso di specie comporterebbe una sostanziale rendita di posizione, per le ragioni sopra esposte.
4. Spese
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo ai sensi del D.M. 55/2014.
P.Q.M.
Il Tribunale in composizione collegiale, definitivamente pronunciando, rigettata ogni diversa e contraria istanza, così provvede:
- Dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto il (omissis) da Ma., nato in (omissis) e An. Ma., nata in (omissis), trascritto al n. (omissis) del registro degli atti di matrimonio del Comune di Pederobba;
- Rigetta la domanda della resistente di versamento alla stessa di un importo a titolo di assegno divorzile;
- Liquida le spese di lite nella complessiva somma di Euro 4.000,00 oltre spese generali, IVA e C.p., e condanna la resistente al pagamento delle stesse in favore di Ma.