Quando la revoca dell’incarico professionale all'avvocato non sia stata compiutamente disciplinata dalle parti con riferimento, in particolare, all’entità del compenso e alla determinazione del valore della controversia resta regolata dalle fonti integrative del contratto d’opera intellettuale (artt. 1374 e 2233 CC; si applicava l'ormai superato d.m. n. 585/1994).
Cfr. approfondimento sulle spese legali.
Corte di Cassazione
sez. II Civile, ordinanza 4 ottobre 2018 – 23 maggio 2019, n. 14083
Presidente Manna – Relatore Fortunato
Fatti di causa
L’avv. T.S. ha adito il Tribunale di Roma, esponendo di aver ricevuto incarico dall’Ispettorato Generale per la liquidazione degli Enti Disciolti del Ministero del Tesoro, ora Ministero dell’economia e delle finanze, per le attività di difesa svolte in un rilevante numero di controversie civili, penali ed amministrative riguardanti enti pubblici in liquidazione; che, con convenzione del 19.9.2000, le parti avevano stabilito un compenso in favore del ricorrente pari agli onorari massimi previsti dalla tariffa per le cause di particolare complessità, agli onorari medi per quelle importanti e complesse e agli onorari compresi tra il minimo ed il massimo per quelle ordinaria complessità, salvo a poi rinegoziarle con la successiva convenzione del 18.3.2002, stabilendo l’applicazione degli onorari minimi, salvo che per le liti conclusesi favorevolmente per l’ente, senza nulla prevedere per l’ipotesi di revoca del mandato.
Intervenuta detta revoca in data 30.5.2002, il ricorrente ha ottenuto ingiunzione di pagamento di Euro 114.900 e la relativa opposizione è stata definita con la sentenza n. 2465/2005 che ha dichiarato l’inapplicabilità dei minimi tariffari per i giudizi non conclusi ed ha liquidato in Euro 73.501,84 i compensi spettanti al ricorrente, in applicazione degli onorari medi.
L’avv. T. ha inoltre proposto un’autonoma azione volta a far dichiarare la nullità o la risoluzione per inadempimento della convenzione del marzo 2002, instando per l’applicazione degli onorari medi in virtù del D.M. n. 585 del 1994 per le attività svolte nell’ambito dei giudizi per i quali gli era stato revocato il mandato, e per la condanna del Ministero al risarcimento del danno.
Il tribunale ha respinto le domande con pronuncia confermata in appello.
Per quanto ancora rileva, il giudice distrettuale ha ritenuto che:
il Tribunale non avesse affatto riconosciuto, neppure per implicito, la nullità della convenzione e la sua integrazione ex lege con gli onorari medi della tariffa, essendosi limitato a rilevare che nulla le parti avevano pattuito per l’ipotesi di revoca del mandato, ed avendo ritenuto applicabili, in tal caso, le disposizioni della tariffa professionale;
- che il ricorrente non potesse invocare direttamente in appello il giudicato di cui alla sentenza n. 2465/2005 del Tribunale di Roma, essendosi in presenza di una domanda nuova;
- che il terzo motivo di appello volto a censurare la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla domanda di risarcimento del danno, fosse inammissibile, poiché carente dell’esposizione delle ragioni di critica alla sentenza di primo grado, rilevando inoltre che il ricorrente aveva rinunciato alla domanda.
La cassazione di questa sentenza è richiesta dall’avv. T.S. sulla base di otto motivi di ricorso, illustrati con memoria.
Il Ministero delle finanze ha depositato controricorso.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo del ricorso censura la violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c. e art. 2909 c.c., sostenendo che la Corte di appello abbia erroneamente escluso che la sentenza n. 2465/2005 avesse dichiarato la nullità della convenzione del marzo 2002 (a causa della mancata previsione dei criteri di calcolo dei compensi in caso di revoca del mandato), poiché tale statuizione era esplicita ed aveva comportato l’inserimento nel contratto delle prescrizioni del D.M. n. 585 del 1994 e la vincolante applicazione dei valori medi della tariffa, come era stato statuito anche dalle sentenze nn. 21295/2007, 21296/2007, 21299/2007, 21300/2007, 21301/207, 49704/2009, 4980/2009 e 131180/2010, 24986/2010, 25576/2010 e 25555/2010, passate in giudicato.
Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 99, 100 e 101 c.p.c. e art. 163 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, sostenendo che il ricorrente, già in primo grado aveva avanzato la domanda di nullità della convenzione del marzo 2002 ed aveva chiesto di integrarne i contenuti con i valori medi della tariffa per le cause non concluse, per cui il ricorrente poteva avvalersi dei successivi giudicati conformi, non trattandosi di domanda nuova.
Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c. e art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, sostenendo che la sussistenza dei giudicati sulla nullità della convenzione del marzo 2002, comportanti la sostituzione ab origine delle clausole della convenzione con le previsioni del D.M. n. 585 del 1994, era rilevabile d’ufficio, il che escludeva che la loro allegazione in appello desse luogo ad una domanda inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c..
Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sostenendo che erroneamente la sentenza avrebbe distinto la nullità ex lege delle clausole della convenzione relative alle modalità di computo dei compensi e l’inefficacia per annullamento delle medesime pattuizioni, mentre entrambe comportavano la modifica della convenzione e l’applicabilità degli onorari medi, dovendo la sentenza impugnata tener conto dei precedenti giudicati espressisi in tal senso.
Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, contestando l’erroneità della motivazione con cui il giudice ha asserito che la domanda di risarcimento del danno era stata oggetto di rinuncia, non rilevando che essa era stata respinta in primo grado.
Il sesto motivo denuncia - testualmente - che il quarto motivo dell’appellante era stato rinunciato con conseguente la riduzione della domanda.
Il settimo motivo deduce la violazione degli artt. 91 e 112 c.p.c., per aver il giudice di appello omesso di statuire sul motivo di impugnazione relativo alla condanna alle spese processuali di primo grado, sostenendo inoltre che, essendo la domanda fondata, dette spese dovevano gravare sul Ministero.
L’ottavo motivo deduce testualmente che "il sesto motivo dell’appellante era stato rinunciato con la riduzione della domanda".
Il nono motivo denuncia testualmente che "il settimo motivo dell’appellante era stato rinunciato con la riduzione della domanda".
Il decimo motivo denuncia, testualmente, la violazione degli artt. 99, 101, 112, 113, 115 e 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, come richiamati dall’art. 359 c.p.c., lamentando che la sentenza abbia omesso di richiamare e valutare le conclusioni assunte dal ricorrente in data 12.1.2011, i giudicati richiamati in atti, la rinuncia ai motivi di appello nn. 6 e 7, la nomina di un nuovo difensore, tutte le ulteriori difese formulate in giudizio.
2.2. I primi quattro motivi, che sono suscettibili di esame congiunto, sono infondati.
Il ricorrente ha ottenuto l’incarico dal Ministero del Tesoro di curare un notevole numero di contenziosi riguardanti l’ENCC e le controllate SAF s.p.a. e SIVA s.p.a..
Con una prima convenzione del 19.9.2000 era stato concordato un compenso graduato sulla complessità delle singole controversie e rapportato all’esito dei singoli contenziosi, mentre, con successiva convenzione modificativa del 18.3.2002 era stato stabilito, al paragrafo 1/B, che nel caso di soccombenza totale o parziale e di compensazione delle spese di lite, le competenze sarebbero state liquidate nei minimi tariffari di cui al D.M. n. 585 del 1994, in base al valore effettivo della causa, ancorato al risultato economico raggiunto in ciascun grado di lite.
Ai sensi del par. 1/C dell’accordo, ove il giudizio avesse avuto esito positivo e le spese processuali fossero state poste a carico della controparte, il difensore avrebbe ottenuto l’importo liquidato, tenendo conto dell’attività effettivamente espletata.
La convenzione non contemplava, invece, alcun criterio di determinazione del compenso nel caso di cessazione anticipata del mandato.
Il Ministero, dopo aver revocato il mandato all’avv. T. , ha invocato l’applicazione dei minimi di tariffa sulla base della convenzione modificativa del 18.3.2002, ma il Tribunale, definendo l’opposizione ex art. 645 c.p.c. proposta dal Ministero avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dal ricorrente per il pagamento delle competenze maturate nei giudizi ancora pendenti, ha riliquidato le spettanze, riducendo gli importi pretesi dal difensore in applicazione dei valori medi della tariffa (cfr. ricorso pag. 9).
La sentenza 2465/2005, resa a conclusione del suddetto giudizio, ha così statuito: "è fondata l’eccezione di inapplicabilità di alcune delle clausole della ripetuta convenzione 18.3.2002 (in particolare quelle di cui ai paragrafi 1/E3 e 1/C concernenti i criteri di individuazione delle classi di valore della controversia e l’applicazione del minimo tariffario), con riferimento all’ipotesi di anticipato recesso dal contratto di patrocinio (ipotesi che ricorre in tutti i giudizi amministrativi relativi alle parcelle azionate con il provvedimento monitorio).
Premesso che nessuno dei giudizi indicati sopra alle lettera a), b) e c), risulta sia stato definito con sentenza alla data di efficacia del recesso esercitato dal Ministero, dalla mera lettura della convenzione (...) emerge evidente come la indicata ipotesi (revoca dell’incarico professionale ex art. 2237 c.c.) non sia stata compiutamente disciplinata dalle parti - con riferimento, in particolare, all’entità del compenso e alla determinazione del valore della controversia - e resti quindi regolata dalle fonti integrative del contratto d’opera intellettuale (artt. 1374 e 2233 c.c. in relazione al D.M. n. 585 del 1994.
La sentenza ha quindi concluso che "le prestazioni svolte dal professionista nei precedenti giudizi - non possono che essere disciplinate alla stregua delle disposizioni previste dal D.M. n. 585 del 1994 (...), essendo di intuibile evidenza l’impossibilità di utilizzare il criterio convenzionale di individuazione del valore effettivo della controversia, che presuppone la conoscenza dell’esito effettivo della lite".
Alla luce di quanto esplicitamente enunciato nella motivazione, non poteva ravvisarsi alcun giudicato sulla nullità parziale della convenzione e sull’inserimento automatico nel regolamento contrattuale dei valori medi della tariffa per la liquidazione dei compensi per i giudizi non definiti.
La pronuncia ha, per contro, esplicitamente escluso l’esistenza di un patto contrastante con una disposizione imperativa (tale da legittimare il meccanismo di sostituzione legale previsto dall’art. 1339 c.c.), rilevando la sussistenza di una lacuna nel regolamento negoziale (per le ipotesi di revoca anticipata del mandato), che ha ritenuto superabile mediante l’integrazione degli accordi con le previsioni della tariffa, in applicazione degli artt. 1374 e 2233 c.c..
Tale statuizione non implicava - sul piano testuale e logico-giuridico - alcuna statuizione comportante, inoltre, l’applicabilità dei valori tariffari medi.
Come ritenuto dal giudice di merito, la nullità parziale e l’inserzione nell’accordo dei contenuti imposti dalla legge implicano la sussistenza di una specifica previsione di legge imperativa, che contempli clausole o prezzi destinati ad essere applicati incondizionatamente e ad imporsi in ogni caso alle parti.
L’art. 1339 c.c. non è invocabile nell’ipotesi in cui non si prospetti la sostituzione di clausole contrattuali difformi rispetto a norme imperative di legge, ma solo l’integrazione di lacune della manifestazione della volontà negoziale, al fine, peraltro, di ottenere effetti che possono dipendere solo dalle pattuizioni delle parti (Cass. 11264/1998; Cass. 13459/1992; Cass. 6422/1992).
In nessun caso l’applicabilità della tariffa professionale in caso di revoca del mandato- fissata dalla sentenza n. 2456/2005 - poteva, dunque, determinare l’automatica cogenza e vincolatività dei parametri medi, tanto più che, per le prestazioni svolte integralmente nella vigenza della L. n. 794 del 1942, art. 24, e delle tariffe professionali (D.M. n. 585 del 1994, art. 4), il principio di inderogabilità era invocabile solo per i minimi tariffari (cfr., tra le tante, Cass. 8539/2018; Cass. 20269/2010; Cass. 287188/2008).
Correttamente quindi, la Corte d’appello ha ritenuto che la pronuncia n. 2456/2005, attraverso il richiamo all’art. 1374 c.c., si fosse limitata a integrare il contenuto della convenzione con le previsioni del D.M. n. 585 del 1994, per quanto non diversamente disposto, stabilendo che la liquidazione dovesse avvenire secondo i criteri tariffari.
Non sussistevano - in definitiva - alcun giudicato sulla nullità della convenzione del 18.3.2001, nè alcun vincolo per il giudice di merito quanto all’applicazione dei valori medi della tariffa, avendo la sentenza esclusivamente disposto che la quantificazione delle spettanze dovesse prescindere dai criteri fissati dalla convenzione per le cause definite e che occorresse tener conto dei parametri di cui al citato D.M. n. 585 del 1994, quale che fosse il risultato finale della liquidazione.
Di tali principi hanno fatto puntuale applicazione le sentenze nn. 21295/2007,21296/2007, 21299/2007, 21300/2007, 21301/2007, 21307/2007, 4974/2009, 4980/2009, 13180/2010, 22578/2010, 24986/2010, 25555/2010, 25576/2010, che, in esplicita adesione aldictum della sentenza n. 2456/2005, hanno riconosciuto al ricorrente le somme risultanti dall’applicazione dei valori tariffari medi, concretamente ritenuti congrui con riferimento alle attività svolte nei singoli giudizi nei quali il ricorrente aveva esercitato il patrocinio.
Ne consegue inoltre che, sebbene la Corte di appello abbia erroneamente escluso che il ricorrente potesse invocare direttamente in appello gli effetti della sentenza n. 2456/2005 ed abbia omesso di menzionare le pronunce successive, la suddetta violazione è irrilevante, posto che nessuno giudicato poteva ritenersi formato nei termini prospettati in ricorso.
3. Il quinto è infondato.
La Corte di appello ha ritenuto che il terzo motivo di impugnazione, riguardante la domanda di risarcimento del danno, fosse inammissibile per carenza di specificità, mancando di un supporto argomentativo volto a censurare le valutazioni del primo giudice (cfr. sentenza pag. 6).
Tale statuizione non è stata oggetto di ricorso e preclude, di per sé, l’esame della censura.
4. Il sesto, l’ottavo ed il nono motivo, che sono suscettibili di esame congiunto, sono inammissibili, poiché le censure si limitano ad affermare che il quarto, il sesto e l’ottavo motivo di appello erano stati oggetto di rinuncia, senza indicarne il contenuto, dove e quando tale rinuncia fosse stata formulata ed omettendo di chiarire la rilevanza dell’errore ascritto al giudice di merito, risultando del tutto carenti del necessario requisito di specificità.
5. Il settimo motivo è infondato.
La Corte distrettuale, confermando in toto la prima decisione, ha esplicitamente respinto il motivo di gravame concernente le spese processuali (cfr. sentenza pag. 19), stabilendo che il tribunale aveva correttamente applicato il principio di soccombenza, per cui la lamentata omissione di pronuncia è del tutto insussistente.
6. Il decimo motivo è infondato.
La sentenza impugnata si è motivatamente espressa sulle questioni oggetto delle difese del ricorrente e delle sentenze prodotte in giudizio, indicando le ragioni per le quali ha escluso la sussistenza di un vincolo ex iudicato, non essendo tenuta a dar conto di tutte le contrarie emergenze processuali, da considerarsi implicitamente ritenersi respinte in quanto incompatibili con le argomentazioni assunte a fondamento della decisione.
Peraltro il ricorso non indica quali conseguenze sarebbero derivate dalle omissioni contestate e quale ulteriore elemento decisivo, diverso da quelli esaminati, avrebbe dovuto condurre ad una soluzione difforme da quella impugnata in cassazione.
Il ricorso è quindi respinto con aggravio di spese secondo soccombenza.
Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4300,00 per compenso, oltre ad iva, cnap e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%.
Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.