L’obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità. Come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare: le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono, dunque, un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga sulla base di scelte e valutazioni discrezionali dell’autorità politica, poiché assumono, in base al principio "pacta sunt servanda", un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna.
La mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale.
La libertà personale, oltre ad essere tutelata dall’art. 13 Cost. quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge, è riconosciuta quale garanzia minima ed imprescindibile di ogni individuo ai sensi dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, ha trovato una dettagliata tutela, sul piano regionale in seno al Consiglio d’Europa, ai sensi dell’art. 5 della CEDU: l’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU, atteso che l’art. 13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinché possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale. Ne discendono non marginali ricadute applicative anche sul diritto, di cui all’art. 5 par. 4 della CEDU, a presentare ricorso ad un tribunale per contestare la legittimità della misura restrittiva e ottenerne, in caso di illegittimità, l’immediata cessazione. L’insussistenza di disposizioni mirate a tipizzare una peculiare ipotesi di trattenimento e la mancanza di un provvedimento individuale, motivato e notificato, escludono infatti la possibilità di assicurare, nell’immediato, un controllo giurisdizionale sui requisiti giustificativi della misura.
Non può risultare sufficiente ragione di scriminazione della condotta, sotto il profilo della colpa, l’incertezza normativa in ordine alla individuazione dello Stato competente, né la pure consentita flessibilità sulle determinazioni da adottare al momento di individuare il POS e autorizzare allo sbarco, non potendo tale flessibilità comunque risultare esente da ragionevoli limiti temporali senza altrimenti tradursi di fatto in una misura restrittiva della libertà personale, intollerabile per l’ordinamento costituzionale e sovranazionale.
Deve escludersi che la restrizione della libertà personale avvenuta, a bordo della nave della Guardia Costiera italiana “U. Diciotti”, dal 16/08/2018 al 25/08/2018 integri i tratti tipologici dell'atto politico per così dire «puro», come tale sottratto al sindacato giurisdizionale: è ritenuto atto politico non l'atto amministrativo che sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente di ordine politico, ma solo l'atto che sia esercizio di un potere politico.
Va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale. Non lo è perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. Non si è di fronte, cioè, ad un atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo.
La nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità. Il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere, di soggezione del potere alla legge ogni qualvolta esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana. L'impugnabilità dell'atto è la regola: una regola orientata ad offrire al cittadino una concreta protezione della propria sfera soggettiva individuale contro le molteplici espressioni di potere in cui si concreta l'azione della pubblica amministrazione. Il diritto vivente conferma la recessività della nozione di atto politico, che coincide con gli atti che attengono alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. L'esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi: non è, quindi, soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
CC – 18/02/2025 – deposito 6/03/2025
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17687/2024 R.G. proposto da ***, rappresentato e difeso dall’Avv. AF – ricorrente –
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell’Interno, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura generale – controricorrenti e ricorrenti incidentali – avverso la sentenza n. 1803/2024 della Corte d’Appello di Roma, depositata il 13 marzo 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 febbraio 2025 dal Consigliere Emilio Iannello.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., depositato in data 13 dicembre 2018, ** , unitamente ad altri connazionali eritrei, si rivolse al Tribunale di Roma chiedendo la condanna del Governo italiano in persona del Presidente del Consiglio dei Ministro p.t. e del Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti in occasione dell’illegittima restrizione della libertà personale avvenuta, a bordo della nave della Guardia Costiera italiana “U. Diciotti”, dal 16/08/2018 al 25/08/2018: nei primi quattro giorni a causa del mancato consenso all’attracco della nave nei porti italiani; nei successivi sei giorni, una volta permesso l’attracco della nave nel porto di Catania, a causa del mancato consenso allo sbarco sulla terra ferma; in subordine, limitatamente a quest’ultimo periodo, per il forzato ed arbitrario trattenimento sulla nave “U. Diciotti” nel porto di Catania senza che fosse loro consentito lo sbarco sulla terra ferma.
Costituendosi in giudizio il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri eccepirono in via preliminare il difetto assoluto di giurisdizione trattandosi di c.d. “atto politico” ad essa sottratto; contestarono nel merito la fondatezza della domanda, rilevando che la nota vicenda della nave “Ugo Diciotti” si inseriva in un contesto internazionale di forte tensione tra l’Italia e Malta ed aveva, altresì, coinvolto le autorità comunitarie nel tentativo dell’Italia di fermare gli sbarchi sulle proprie coste o quantomeno di ottenere una redistribuzione in sede europea dei migranti salvati dalle autorità italiane in acque internazionali e fatti sbarcare sulle coste italiane.
2. Con ordinanza in data 9 luglio 2019 il Tribunale dichiarò l’assoluta carenza di giurisdizione ritenendo che i comportamenti censurati avessero la natura di atti politici.
3. Con sentenza n. 1803/2024, resa pubblica il 13 marzo 2024, la Corte d’appello di Roma, pur ritenendo sussistere la giurisdizione ordinaria, per essersi trattato non di un atto politico, ma di un atto amministrativo, pienamente sindacabile, ha tuttavia respinto nel merito la domanda degli appellanti in difetto della colpa della pubblica amministrazione (non allegata dai ricorrenti e comunque da escludere «alla luce delle concrete modalità con cui si è realizzato il fatto, nonché della complessità e della non univocità della normativa di riferimento») e, comunque, in mancanza di allegazione e prova del danno conseguenza.
4. Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico mezzo.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno hanno depositato controricorso, con lo stesso atto proponendo ricorso incidentale «eventualmente condizionato» sulla base di due motivi.
5. Con decreto in data 10 ottobre 2024 il ricorso è stato trasmesso alle Sezioni Unite in relazione alla censura proposta in punto di giurisdizione con il primo motivo di ricorso incidentale «eventualmente condizionato».
6. Il Procuratore Generale ha depositato memoria, concludendo per il rigetto del ricorso principale con il conseguente assorbimento della questione di giurisdizione.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo posto a fondamento del ricorso principale denuncia, con riferimento all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. in relazione agli artt. 13, 24, 111 e 117 Cost., articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed art. 6 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ed artt. 7 e 14 della direttiva 2008/115/CE».
Sostiene che erroneamente la Corte abbia attribuito rilevanza alla complessità della normativa in tema di soccorso dei migranti in zona SAR, omettendo di considerare che a fondamento della domanda era stata dedotta una condotta meramente materiale, senza alcun provvedimento amministrativo o giudiziario, violando così gli articoli 13, 24 e 111 della Costituzione.
Contesta che non fosse stata allegata la colpa delle autorità italiane, rilevando che a determinare il dedotto danno non patrimoniale non era stata la mancata concessione del c.d. POS (Place of Safety), ma la restrizione della libertà personale non giustificata da provvedimenti amministrativi o giudiziari.
Sottolinea in tale prospettiva (citando precedenti di questa Corte in tema di proroga del trattenimento dei migranti: Cass. n. 2789 del 2012, n. 9596 del 2012, n. 22788 del 2012, n. 22790 del 2012, nonché Corte Cost. n. 105 del 2001) che «in assenza di un provvedimento amministrativo espresso, men che meno della relativa convalida giudiziaria, la condotta della P.A. che priva l’individuo della libertà personale per ben dieci giorni, costringendolo negli angusti limiti spaziali di una nave militare, realizza una detenzione arbitraria a fronte della quale non è minimamente configurabile nemmeno in nuce l’esercizio del potere amministrativo, tale non essendo la mera condotta materiale che si esplica al di fuori ed al di sopra della legge ed in primis della Costituzione».
Lamenta, inoltre, che erroneamente la Corte di merito abbia ritenuto che non fosse stato provato il danno non patrimoniale, rilevando che la privazione della libertà personale per dieci giorni è di per sé una lesione della dignità umana sufficiente a configurare il danno non patrimoniale e che il giudice può ricorrere alle presunzioni semplici per valutarne l'incidenza negativa sulle condizioni di vita.
2. Con il primo motivo del ricorso incidentale «eventualmente condizionato» ─ rubricato «sul difetto assoluto di giurisdizione e sulla configurabilità dell’atto politico: violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 c.p.a. in relazione all’art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c.» ─ le Amministrazioni in epigrafe lamentano che erroneamente la Corte di merito abbia ritenuto che la condotta del Ministero dell’Interno nella vicenda in esame non costituisse atto politico, ma atto di alta amministrazione come tale sindacabile.
Sostengono che dell’atto politico sussistono sia l’elemento soggettivo (provenienza da un organo di governo) che quello oggettivo (espressione della funzione di indirizzo politico).
Argomentano in tal senso che:
─ «l’unica vera ragione che abbia indotto lo Stato italiano ad autorizzare lo sbarco è da rinvenirsi nella decisione esclusivamente politica di soprassedere ai – gravi e conclamati – inadempimenti dello Stato di Malta e di intervenire, ciononostante, nell’immediatezza, in via suppletiva al medesimo, al fine di prestare soccorso ai migranti, continuando, nel contempo, a sollecitare il rilascio del POS da parte delle autorità maltesi», trattandosi, in buona sostanza, di trovare una
«soluzione della controversia internazionale insorta»;
─ «l’obbligo giuridico: i) di provvedere al salvataggio in zona SAR;
ii) di indicare il porto al quale avrebbero dovuto approdare, l’imbarcazione che li trasportava, prima, e la nave Diciotti, poi; iii) di procedere alle conseguenti operazioni di sbarco, identificazione, ecc., era in capo a Malta; pertanto, l’iniziativa governativa è stata adottata a seguito della -rectius imposta proprio- dalla violazione degli obblighi da parte di Malta»;
─ non può di contro rilevare il fatto che la nave “U. Diciotti” abbia attraccato al porto di Catania, atteso che:
a) tale circostanza non può sovvertire il principio giuridico della responsabilità e degli oneri di primaria accoglienza in capo agli Stati;
b) in relazione a tali oneri la nave “Diciotti” ben avrebbe potuto sostare in mezzo al mare in una posizione equidistante ancora per un lungo tempo, non potendo certo sottrarsi l’altro Stato agli obblighi impostigli dalla normativa internazionale solo per il decorso del tempo, decorso che, anzi, ne avrebbe aggravato la posizione;
c) lo scalo tecnico a Catania è stata una scelta effettuata dall’Autorità marittima esclusivamente per ragioni di comodità legate ai rifornimenti di cibo, acqua ed altro, rifornimenti che sarebbero potuti avvenire tranquillamente anche in mezzo al mare;
─ in tale contesto, il prolungamento dello «scalo tecnico» fu determinato dalla «oggettiva necessità di attendere la risoluzione della controversia internazionale» fino al giorno in cui (il 24 agosto 2018) si tenne la riunione in ambito europeo, a tal fine fissata dopo le sollecitazioni italiane;
─ non fu dunque un caso che, solo all’esito della trattativa in ambito europeo, la Capitaneria di Porto (IMRCC) avanzò in data 24 agosto 2018 formale richiesta di POS al Dipartimento per l’Immigrazione e le Libertà Civili (articolazione del Ministero dell’Interno) che, «attesa la novità della situazione derivante dalla decisione in ambito europeo, è stato poi sollecitamente rilasciato, determinando, conseguentemente, nella notte tra il 25 ed il 26 agosto 2018, lo sbarco dei migranti»;
─ il monitoraggio ed il controllo dei flussi migratori sono anche connessi in modo essenziale con la tutela dell’interesse pubblico nazionale, sussistendo chiari profili attinenti all’ordine ed alla sicurezza pubblica, in relazione in particolare «al fine di scongiurare l’eventualità che estremisti islamici … possano fare ingresso/transitare in Europa servendosi delle rotte utilizzate dai trafficanti di esseri umani o battute dai profughi richiedenti protezione internazionale».
Rilevano sotto altro profilo che la complessiva condotta del governo come sopra decritta «non ha inciso direttamente sui migranti quanto tutt’al più indirettamente sugli stessi».
3. Con il secondo motivo ─ rubricato «sul difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti e sulla irritualità della procura: nullità della sentenza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c.» ─ le amministrazioni resistenti lamentano che la Corte d’appello non abbia esaminato l’eccezione preliminare da esse opposta circa il difetto di legittimazione attiva degli asseriti migranti e, dunque, dell’odierno ricorrente, con riflessi anche sulla validità della procura.
4. Lo scrutinio degli esposti motivi pone la necessità di procedere ad esame congiunto, per evidenti ragioni di reciproca dipendenza logica, del primo motivo del ricorso incidentale, ancorché proposto come «eventualmente condizionato», e dell’unico motivo di ricorso principale.
A ciò non osta il principio, consolidato nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite (v. ex aliis Cass. Sez. U. 06/03/2009, n. 5456; Id. 04/11/2009, n. 23318; Id. 25/03/2013, n. 7381; Id. 30/11/2022, n. 35308; Id. 07/12/2023, n. 34318) ed evocato dal P.M. nelle proprie conclusioni, secondo cui «il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita (ove quest'ultima sia possibile) da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione, solo in presenza dell'attualità dell'interesse, sussistente unicamente nell'ipotesi della fondatezza del ricorso principale».
Tale principio giustifica bensì la posposizione dell’esame del secondo motivo di ricorso incidentale, atteso che sulla questione da esso posta (omessa pronuncia sull’eccepito difetto di legittimazione ad agire e sulla pure dedotta nullità della procura) la Corte d’appello, come appresso sarà evidenziato, si è in realtà implicitamente pronunciata.
Non può invece valere a giustificare l’esame posposto della questione di difetto assoluto di giurisdizione, benché anche su di essa la Corte (..) si sia pronunciata, peraltro espressamente L’inclusione della questione di giurisdizione tra quelle pregiudiziali evocate da tale principio è stata affermata da Cass. Sez. U. n. 5456 del 2009 ─ superando contrasto in precedenza sul punto insorto all’interno della giurisprudenza delle stesse Sezioni Unite ─ con argomenti chiaramente riferiti alle (sole) ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, quale conseguenza delle regole di riparto tra giudici speciali e giudice ordinario o di quelle di diritto internazionale sul riparto di giurisdizione tra giudici di diversi Paesi. Sotto il primo profilo si è in particolare rimarcato (v. sent. cit., in motivazione, parr. 9.1 – 9.3) il superamento del principio di incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi in favore di quello della unità della giurisdizione ai fini del servizio giustizia per la collettività (Corte cost. n. 77 del 2007) e di quello della ragionevole durata del processo, con il conseguente
«avvicinamento ad un regime di rilevazione del tipo di quello della competenza, basato sulla volontà della parte di mantenere la questione viva, dando rilievo preclusivo a fenomeni di acquiescenza tacita, che precedentemente non avevano alcuna rilevanza»: tendenza questa – può qui aggiungersi ─ infine avallata anche dal legislatore con la previsione di cui all’art. 59 legge 18 giugno 2009, n. 69.
Se ne ricava che il principio surrichiamato riguarda (e trova fondamento in) una nozione di «giurisdizione» intesa «non in sé [come] … potere di conoscere di date controversie, attribuito per una specifica parte a ciascuno dei diversi ordini dei giudici di cui l'ordine è dotato, ma … [come] potere che la legge assegna e che è conforme a Costituzione che sia assegnato ai giudici perché risulti attuata nel giudizio l'effettività dello stesso ordinamento», ed è il portato della prevalenza da assegnare, «ai fini del servizio giustizia», all’esigenza «che l'autorità giudiziaria, vista nel suo complesso, dia risposta di merito alla domanda di giustizia» (così in motivazione Cass. n. 5456 del 2009, cit. parr. 9.4 – 9.5).
Ad esso, dunque, rimane estranea la questione di difetto assoluto di giurisdizione, con la quale quel che si contesta è l’esistenza stessa, in capo cioè a qualsiasi ordine di giudici, del potere di conoscere, a fini di giustizia, della controversia.
Appare anzi evidente che una siffatta questione, riguardando in definitiva la stessa «giustiziabilità» dell’interesse la cui lesione è posta a fondamento della domanda, è indissolubilmente legata alla questione di merito posta dal ricorso principale e, in certo senso, ne fa parte. Non si potrebbe invero riconoscere, in ipotesi, la fondatezza della pretesa risarcitoria senza prima riconoscere la suscettibilità di quella pretesa ad ottenere tutela giurisdizionale.
5. Muovendo dunque dalla questione ─ per quanto detto, logicamente preliminare ─ posta con il primo motivo del ricorso incidentale, se ne deve rilevare l’infondatezza.
Deve, infatti, escludersi che nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria possano ravvisarsi i tratti tipologici dell'atto politico per così dire «puro», come tale sottratto al sindacato giurisdizionale.
5.1. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente fornito, con la sentenza n. 27177 del 22/09/2023, indicazioni particolarmente chiare su tale nozione, che in questa sede giova interamente richiamare.
L'art. 7, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. amm. ─ riprendendo una previsione già contenuta nell’art. 31 del Testo Unico delle (..) Consiglio di Stato (approvato con il regio decreto n. 1054 del 1924), e, prima ancora, nell'art. 3, comma 2, della legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge n. 5992 del 1889) ─ esclude dall'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo gli atti ed i provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico.
Per qualificare un atto come politico, la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2022, n. 4636) richiede due requisiti:
─ sotto il profilo soggettivo, l'atto deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello;
─ sotto il profilo oggettivo, l'atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.
È ritenuto tale non l'atto amministrativo che sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente di ordine politico, ma solo l'atto che sia esercizio di un potere politico.
La nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità.
Il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere, di soggezione del potere alla legge ogni qualvolta esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana.
L'impugnabilità dell'atto è la regola: una regola orientata ad offrire al cittadino una concreta protezione della propria sfera soggettiva individuale contro le molteplici espressioni di potere in cui si concreta l'azione della pubblica amministrazione.
Il diritto vivente conferma la recessività della nozione di atto politico, che coincide con gli atti che attengono alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali.
L'esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi (Cass. Sez. U. 02/05/2019, n. 11588, cit.). Non è, quindi, soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502).
Ai fini della giustiziabilità dell'atto, accanto ai caratteri del provvedimento, occorre guardare alla dimensione sostanziale della legalità, la quale richiede che l'atto di esercizio del potere sia suscettibile di essere confrontato con le norme che lo disciplinano. Va inoltre valutata la presenza di interessi giuridicamente rilevanti: se mancano situazioni qualificate differenziate o si è in presenza di interessi di mero fatto, allora è possibile parlare di atto non sindacabile proprio perché non tocca direttamente situazioni giuridiche.
La chiave di volta ai fini del giudizio di insindacabilità di un atto del potere pubblico è costituita, in generale, dalla mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione.
Viene in rilievo, infatti, l'art. 101, secondo comma, Cost., il quale, nel fissare il principio della soggezione dei giudici soltanto alla legge, individua nella legge il fondamento e la misura del sindacato ad opera del giudice.
Ciò significa che, in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi: per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza. Lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri. La "zona franca" è il riflesso della pretesa di una politicità dell'atto che non si presta ad una rilettura giuridica.
L'insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall'ordinamento a vincoli di natura giuridica.
Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso.
Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità, e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l'esercizio dell'azione di governo.
La giustiziabilità dell'atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere. Se dunque esiste una norma che disciplina il potere, che ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l'atto è suscettibile di sindacato.
È questo un approccio coerente con gli approdi della giurisprudenza costituzionale.
Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto.
Nella misura in cui l'ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l'esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell'atto, sindacabile nelle sedi appropriate.
E tra tali vincoli rilievo primario ha certamente il rispetto e la salvaguardia dei diritti inviolabili della persona.
L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati.
Questa prospettiva metodologica informa gli svolgimenti della giurisprudenza, del Consiglio di Stato e di questa Corte regolatrice.
Il giudice amministrativo è giunto alla conclusione che l'insindacabilità in sede giurisdizionale dell'atto va esclusa in presenza di una norma che predetermina le modalità di esercizio della discrezionalità politica o che comunque la circoscriva: è impugnabile l'atto, pur promanante dall'autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica, la cui fonte normativa riconosce l'esistenza di una situazione giuridica attiva protetta dall'ordinamento riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta dall'amministrazione (Cons. Stato, Sez. I, 19 settembre 2019, n. 2483).
5.2. Alla luce di queste premesse va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale.
Non lo è perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.
Non si è di fronte, cioè, ad un atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali.
Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini.
Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo.
5.3. Non vi è dunque difetto assoluto di giurisdizione, e nemmeno relativo, in favore cioè del giudice amministrativo (il che per vero non è nemmeno eccepito dalle amministrazioni ricorrenti), non vertendosi in materia riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
6. Rigettato dunque il primo motivo del ricorso incidentale e passando all’esame del ricorso principale se ne deve rilevare, anche alla luce delle considerazioni che precedono, la fondatezza, con riferimento ad entrambi i profili di censura.
7. Occorre anzitutto rilevare che le circostanze fattuali e le argomentazioni poste nel ricorso introduttivo a fondamento della domanda, riportate in quello in esame con pieno assolvimento degli oneri di cui agli artt. 366 n. 6, privano di fondamento, specie alla luce delle considerazioni che saranno appresso svolte, il rilievo dell’insufficiente allegazione dei profili di colpa dell’amministrazione.
Occorre al riguardo anzitutto rimarcare che, diversamente da quanto postulato dalle resistenti nel controricorso, il ricorrente non manca di indicare il parametro giuridico cui riferire il denunciato vizio di violazione di legge, chiaramente indicato nella responsabilità da illecito extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., né ha inteso sostenere che, nel caso di specie, occorra prescindere dal requisito della colpa della amministrazione, né infine ha mancato di allegarne i presupposti nella fattispecie concreta.
Ha piuttosto censurato la valutazione negativa operata dalla Corte di merito in ordine alla sussistenza di detti presupposti in quanto inficiata da un errore di prospettiva, quello cioè commesso nel rapportare tale valutazione alla la mancata concessione del c.d. POS (Place of Safety) anziché alla restrizione della libertà personale non giustificata da provvedimenti amministrativi o giudiziari, in violazione dell’art. 13 Cost..
Violazione della quale si fornivano specifiche indicazioni fattuali riportando testualmente (alle pagg. 18-19 dell’atto introduttivo e poi alle pagg. 66 e 67 dell’atto di appello, specificamente richiamate in ricorso, pagg. 21-22) il contenuto di due informative inviate alle Procure di Agrigento e Catania dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, salito a bordo della Nave Diciotti in data 23 agosto 2018, nelle quali tra l’altro si legge:
«alle persone non è consentito scendere dall’imbarcazione malgrado non vi sia alcun atto motivato di limitazione della libertà personale disposto nei loro confronti da parte della competente Autorità, né alcuna apparente ragione pratica di impedimento»; «[vi è a bordo] … la presenza sia di un dispositivo di vigilanza interno a bordo della nave composto da squadre di quattro membri dell’equipaggio, di cui uno armato, che alternandosi sorvegliano costantemente il ponte dove sono alloggiati i migranti, sia di un nucleo di Forze di Polizia armato appostato sulla banchina ai piedi della scaletta di accesso al vascello»;
«sul ponte funziona un sistema di videosorveglianza che rende visibile dalla plancia di comando ogni area della zona di vita dei migranti»;
«nel momento della salita a bordo nella nave ai migranti soccorsi, insieme agli effetti personali, sono stati requisiti i telefoni cellulari e … non si era proceduto alla loro restituzione», essendo così ad essi impedita la «comunicazione con l’esterno, inclusa la possibilità di mettersi in contatto con i propri familiari e affetti».
8. Ciò detto quanto agli oneri di allegazione, deve osservarsi che, nel merito, quanto al negato presupposto della colpa, la motivazione della Corte di merito poggia essenzialmente sui seguenti due argomenti:
─ le Autorità nazionali hanno agito in una situazione di opinabilità idonea quantomeno ad escludere o a ritenere del tutto insufficiente la sussistenza della colpa; la condotta lesiva, risoltasi essenzialmente nel ritardo di dieci giorni nella indicazione del POS (Place of Safety) e nel conseguente diniego della autorizzazione allo sbarco si inserisce in un quadro di forte incertezza delle norme internazionali che regolano la materia dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo: incertezza che ha generato un vero e proprio “conflitto” di attribuzioni, specie tra i paesi rivieraschi, ed ha portato all’emersione di vere e proprie controversie internazionali, come quella avvenuta tra Malta e Italia; mancano in particolare regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo;
─ non appare comunque sussistente, in termini di certezza, un obbligo giuridico – in capo allo Stato competente – di rilasciare il POS ovvero di rilasciarlo entro un determinato termine e secondo determinate modalità: POS nel caso de quo negato in data 17 agosto e autorizzato solo il 25 agosto 2018; un obbligo giuridico direttamente coercibile può ravvisarsi solo con riferimento all’attività di salvataggio in mare, venendo in rilievo il diritto fondamentale alla vita; l’operazione di soccorso in mare non crea un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”; le Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e le Linee guida IMO, non impongono agli Stati di consentire illimitatamente l’accesso ai propri porti per imbarcazioni soccorse in mare, mantenendo gli stessi il potere di regolare l’ingresso nei territori su cui esercitano la sovranità; vi è quindi la possibilità di aprire una fase endoprocedimentale diretta a contemperare tutti gli interessi in gioco, in primis quello della tutela dell’ordine pubblico; tale procedimento va ponderato caso per caso attraverso un non sempre agevole bilanciamento tra le esigenze umanitarie, da un lato, e quelle di contrasto del fenomeno migratorio via mare, dall’altro; inevitabilmente, tale procedura potrà comportare dei ritardi nello sbarco, i quali dovranno tuttavia essere minimizzati.
Sotto entrambi tali profili il ragionamento della Corte di merito appare privo di efficacia argomentativa idonea a contrastare i fondamenti fattuali e giuridici della pretesa risarcitoria, e per certi versi anche contraddittorio.
9. Prima e al fine di spiegarne le ragioni, giova brevemente rammentare nelle sue linee essenziali il quadro normativo all’interno del quale occorre collocare la vicenda ai fini della predetta valutazione:
— l’obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità;
— come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e
gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare;
— le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono, dunque, un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga sulla base di scelte e valutazioni discrezionali dell’autorità politica, poiché assumono, in base al principio "pacta sunt servanda", un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna;
— tale obbligo trova una più dettagliata enunciazione, con riguardo alla specifica attività di soccorso in mare, nella Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (c.d. Convenzione SOLAS, acronimo di Safety Of Life At Sea, del 1974, ratificata dall’Italia con legge 23 maggio 1980, n. 313), nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (c.d. Convenzione SAR, acronimo per Search And Rescue, anche nota come Convenzione di Amburgo:- ratificata dall’Italia con legge 3 aprile 1989, n. 147, ha trovato concreta attuazione con il d.P.R. n. 662 del 1994, che ha attribuito il servizio di
ricerca e soccorso alla competenza primaria del Ministero delle infrastrutture e trasporti che, all’uopo, si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia costiera), nonché nella Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982 (c.d. Convenzione UNCLOS, acronimo per United Nations Convention on the Law of the Sea, ratificata dall’Italia con legge 2 dicembre 1994, n. 689);
— in particolare la Convenzione di Amburgo, nel rispetto del principio di cooperazione internazionale, obbliga gli Stati costieri ad assicurare un servizio di “Search and Rescue” nelle zone marittime di competenza, ripartite d’intesa tra gli stessi, ed a coordinare tra di loro i vari servizi SAR; a tal fine, ciascuno Stato membro è tenuto a dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento delle attività di soccorso (MRCC – Maritime Rescue Coordination Centre) nonché di appositi piani operativi che prevedano le varie tipologie di emergenza e, in relazione a queste, le competenze dei centri preposti; ciò al fine di «garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Capitolo 2.1.10); di
«[…] fornirle le prime cure mediche o di altro genere» e di «trasferirla in un luogo sicuro» (Capitolo 1.3.2);
─ lo Stato responsabile di un'area SAR, in caso di emergenza in mare nella propria area di responsabilità, ha l'obbligo di intervenire assumendo, per il tramite del proprio Rescue Coordination Center (RCC) o Rescue Sub Centre qualora designati (RSC), il coordinamento delle operazioni di soccorso con l'impiego di unità SAR, ma anche con unità militari e/o civili;
─ ciò non toglie che tanto la Convenzione SAR (capitolo 3.1.9), quanto la Convenzione SOLAS, come interpretate dalla dottrina maggioritaria, prevedano un dovere di attivazione sussidiario in capo agli Stati che ne sono parte, nel senso che la mancata attivazione dello Stato competente impone agli altri Stati di collaborare per supplire alle necessità dei naufraghi e per portarli in salvo, e ciò a prescindere dalla nazionalità della nave che opera il salvataggio e, dunque, dai doveri dello Stato di bandiera;
─ non può pertanto ritenersi che lo Stato responsabile sia sempre lo Stato di bandiera in quanto titolare della giurisdizione sulla nave soccorritrice; ed infatti, in disparte il fatto che tale Stato potrebbe trovarsi ad una distanza di migliaia di chilometri dalla zona di intervento, in occasione di un evento di pericolo risulta prevalente l’applicazione delle disposizioni della Convenzione SAR, fondate sul principio della massima rapidità ed efficacia nelle operazioni di salvataggio, piuttosto che sul dato formale della sussistenza della giurisdizione sulla nave soccorritrice (v. in tal senso, Cons. Stato 25/02/2025, n. 1615, in motivazione, par. 33.2);
─ lo Stato responsabile del soccorso deve organizzare lo sbarco «nel più breve tempo ragionevolmente possibile» (Convenzione SAR, capitolo 3.1.9), fornendo un luogo sicuro in cui terminare le operazioni di soccorso; è solo con la concreta indicazione del POS, e con il successivo arrivo dei naufraghi nel luogo sicuro designato, che, infatti, l'attività di Search and Rescue può considerarsi conclusa;
— nell'ottica della Convenzione SAR, sulla base dei successivi interventi che ne hanno integrato i principi fondamentali, per "luogo sicuro" si intende un "luogo" in cui sia garantita non solo la "sicurezza" – intesa come protezione fisica – delle persone soccorse in mare, ma anche il pieno esercizio dei loro diritti fondamentali, tra i quali, ad esempio, il diritto dei rifugiati di chiedere asilo; nel caso di operazioni di soccorso a favore di migranti, il POS è determinato secondo le procedure concordate con il Ministero dell'interno (procedure operative standard n. 9/2015 del settembre 2015), quale dicastero compente in materia di immigrazione, anche per permettere gli specifici adempimenti di cui all'art. 10-ter del T.U. dell'immigrazione (identificazione dei cittadini stranieri soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare);
─ la Risoluzione MSC.167(78) del 20 maggio 2004 (Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare) esclude che la nave stessa possa esser considerata un POS, se non temporaneamente (par. 6.13:
«Una nave di soccorso non dovrebbe essere considerata un luogo sicuro basandosi unicamente sul fatto che i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave. Una nave di soccorso potrebbe non avere strutture e attrezzature adeguate per supportare altre persone a bordo senza mettere a repentaglio la propria sicurezza o prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti. Anche se la nave è in grado di accogliere in sicurezza i sopravvissuti e può fungere da luogo sicuro temporaneo, dovrebbe essere sollevata da questa responsabilità non appena possono essere prese disposizioni alternative») (v. in tal senso Cass. pen. 16/01/2020, n. 6626, relativa al “caso Rackete”; v. anche Cons. Stato n. 1615 del 2025, in motivazione, par. 35);
— ove l’attività di soccorso in mare sia stata effettuata da unità navali della Guardia Costiera italiana, la normativa italiana di attuazione della sopra citata disciplina internazionale – segnatamente, la direttiva della Guardia Costiera SOP 009/15 – prevede che la richiesta di assegnazione del POS debba essere presentata da MRCC Roma al Centro nazionale di coordinamento (NCC) e successivamente inoltrata al Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’Interno cui spetta, in concreto, l'effettiva designazione del POS; ai sensi della summenzionata direttiva SOP, l'indicazione del POS costituisce un atto amministrativo endo-procedimentale dovuto, privo di discrezionalità nell’an;
— in capo agli Stati residua, infatti, un margine di "discrezionalità tecnica" solo ai fini dell’individuazione del punto di sbarco più opportuno, tenuto conto del numero dei migranti da assistere, del sesso, delle loro condizioni psicofisiche nonché in considerazione della necessità di garantire una struttura di accoglienza e cure mediche adeguate; ferma restando la doverosità dell'indicazione del luogo sicuro in cui concludere l'evento SAR dichiarato, ritardi nella designazione dello stesso potrebbero pertanto essere giustificati (solo) alla luce della necessità di individuarne uno adeguato alle esigenze che, caso per caso, si presentano.
10. Alla stregua di tali univoche indicazioni si rivela destituita di fondamento già la premessa da cui muove la Corte d’appello, circa l’«assenza di regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo»
Nel caso di specie, secondo quanto è pacifico in causa, i migranti sono stati soccorsi e accolti da una unità della Guardia Costiera ed a bordo di essa si trovavano quando ha avuto inizio e si è protratta la condotta di cui si assume il carattere lesivo e civilmente illecito. Deve dunque ritenersi che, indipendentemente dalle contestazioni in merito allo Stato competente secondo la ripartizione in zone SAR, le operazioni di soccorso erano state di fatto assunte sotto la responsabilità di una autorità SAR italiana, la quale era tenuta in base alle norme convenzionali a portarle a termine, organizzando lo sbarco, «nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
Non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale.
Del tutto correttamente la Corte d’appello (che non ne ha tratto però poi conclusioni coerenti) ha osservato che la procedura per la designazione del POS è un atto amministrativo endoprocedimentale vincolato nell’an e discrezionale nel quomodo, inerente all’individuazione del punto di sbarco più opportuno sul territorio nazionale, evidenziando che in tale scelta intervengono valutazioni tecniche in ordine al luogo in ragione al numero di migranti da assistere, al sesso, alle condizioni psicofisiche, alla necessità di garantire una struttura di accoglienza e alle cure mediche appropriate dopo lo sbarco.
Ha trascurato, però, di considerare che sono invece da ritenere estranee a tale ambito le valutazioni politiche connesse al controllo dei flussi migratori.
Proprio queste, invece, nel caso di specie, nella prospettazione delle stesse amministrazioni, sono le uniche ad aver determinato il differimento dello sbarco al fine di attendere le determinazioni in sede europea, peraltro niente affatto destinate a dirimere il contrasto insorto tra Malta e Italia sulla competenza ad assumere le responsabilità delle operazioni di soccorso ma limitatesi di fatto alla individuazione degli Stati ed Enti tra i quali distribuire i migranti (fase indipendente e non pregiudicata in alcun modo dalla ultimazione delle operazioni di soccorso) e ciò, peraltro, su base esclusivamente volontaria.
11. Sono tuttavia i connessi profili legati alla violazione della libertà personale dei migranti a segnare più propriamente la prospettiva nella quale occorre valutare la fattispecie in relazione alla dedotta responsabilità civilistica.
Giova rammentare che la libertà personale, oltre ad essere tutelata dall’art. 13 Cost. quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge, è riconosciuta quale garanzia minima ed imprescindibile di ogni individuo ai sensi dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, ha trovato una dettagliata tutela, sul piano regionale in seno al Consiglio d’Europa, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e successivamente, a livello internazionale in seno alle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Da ultimo, l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce il diritto «alla libertà e alla sicurezza» di «ogni individuo».
Sulla base di tale quadro normativo, teso a garantire l’inviolabilità della persona, occorre valutare se il trattenimento dei migranti a bordo della nave Diciotti integri, oppure no, un’arbitraria violazione della libertà personale.
Rilievo particolare assume al riguardo l’art. 5 par. 1 lett. f) CEDU il quale ammette, eccezionalmente, la privazione della libertà personale nella peculiare ipotesi in cui si tratti dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione.
In tale prospettiva, però, escluso che il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati (e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost.) possa essere inquadrato nell’ambito di procedimenti di espulsione o di estradizione, non può nemmeno ipotizzarsi che detto trattenimento possa trovare copertura sovranazionale quale misura (assimilabile all’arresto o alla detenzione regolare) finalizzata a impedire l’ingresso illegale nel territorio.
Una tale interpretazione della norma convenzionale è stata chiaramente respinta dalla Corte EDU nella sentenza Khlaifia and Others v. Italy, relativa ad un caso — per alcuni aspetti analogo a quello in esame — di trattenimento di migranti tunisini a bordo di navi, ormeggiate nel porto di Palermo, per effetto di un atto dell’Esecutivo.
In tale occasione la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 della CEDU, escludendo la sussistenza dell’eccezione di cui al par. 1 lett. f) dell’art. 5 evidenziando che tale norma, nell’esigere che ogni privazione della libertà sia effettuata nei modi previsti dalla legge, impone che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno e, in via prioritaria, nella Costituzione, essendo necessario, in ossequio al principio di certezza del diritto, che le condizioni limitative della libertà personale siano chiaramente intellegibili e che la legge risulti precisa e prevedibile nella sua applicazione nei confronti dei consociati. La Corte ha quindi, in quel caso, riscontrato l’arbitrarietà delle misure restrittive per violazione della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione, prescritte ex art. 13 Cost..
Analogamente nel caso in esame, l’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU, atteso che l’art. 13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinché possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale.
Ne discendono non marginali ricadute applicative anche sul diritto, di cui all’art. 5 par. 4 della CEDU, a presentare ricorso ad un tribunale per contestare la legittimità della misura restrittiva e ottenerne, in caso di illegittimità, l’immediata cessazione. L’insussistenza di disposizioni mirate a tipizzare una peculiare ipotesi di trattenimento e la mancanza di un provvedimento individuale, motivato e notificato, escludono infatti la possibilità di assicurare, nell’immediato, un controllo giurisdizionale sui requisiti giustificativi della misura.
12. Le considerazioni sopra svolte restituiscono un quadro giuridico di tale chiarezza e cogenza da rendere insostenibile l’assunto della insussistenza di elementi sufficienti per affermare la colpa delle amministrazioni resistenti.
12.1. È noto che, perché un evento dannoso sia imputabile a responsabilità della p.a., tale imputazione non potrà avvenire in base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana.
La sussistenza di tale elemento sarà riferita non al funzionario agente, ma alla p.a. come apparato, e sarà configurabile qualora l'atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l'esercizio della funzione amministrativa, e che il giudice ordinario ha il potere di valutare, in quanto limiti esterni alla discrezionalità amministrativa.
Sia pure con riferimento non al singolo funzionario, ma alla p.a. come apparato, e quindi come unità (quanto meno nei singoli settori), va valutata la colpa, nei termini sopradetti.
Non si può, dunque, in linea di principio, escludere la rilevanza dell'errore scusabile commesso dalla P.A..
L'accento deve essere spostato sulla scusabilità dell'errore nei casi singoli.
E su questo versante non è dubbio che l'errore nell'interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riconducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata (Cass. n. 5361 del 1984) o altrimenti inevitabile a stregua delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale (sent. n. 364 del 1988 e altre), operando, in ogni altro caso, la regola della inescusabilità dell'error iuris (Cass. n. 12839 del 1992; n. 2762 del 1978).
Elemento essenziale per la sussistenza dell'errore scusabile è, quindi, l'inevitabilità dello stesso, determinata da cause oggettive, estranee all'agente, che finisce per escludere la colpevolezza, intesa quale forma di qualificazione dell'azione soggettiva nelle fattispecie di responsabilità.
L'errore scusabile rende, pertanto, inesigibile una diversa condotta, dando rilievo sia pure nell'ambito del solo elemento psicologico, alla cosiddetta inesigibilità, che pur avendo una natura oggettiva e non essendo prevista nel nostro ordinamento, ma in quello tedesco, trova, nell'ambito della rilevanza dell'elemento psicologico, un primo riconoscimento nella sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale in tema di errore inevitabile su legge penale.
Trattandosi di valutazione della scusabilità dell'errore, essa non può che essere effettuata ex ante, cioè ponendosi nella stessa posizione in cui si trovava il soggetto agente, allorché incorse in errore.
L'accertamento dell'esistenza dell'errore scusabile, costituendo un accertamento fattuale, rientra nella competenza esclusiva del giudice di merito ed è incensurabile in Cassazione, se adeguatamente motivato (Cass. n. 2424 del 2004)
Tale valutazione tanto più deve essere rigorosa ove si tratti come nella specie di condotte lesive di diritti inviolabili della persona, presidiate da norme di rango superprimario e di diritto internazionale.
12.2. Su tale piano la valutazione della Corte di merito si appalesa del tutto inadeguata e contraddittoria, tanto da potersi dire meramente apparente.
Il riferimento alla «complessità e non univocità della normativa di riferimento» e alla «indeterminatezza normativa, oltre che fattuale, in ordine al riparto delle competenze nell’ambito della generale attività SAR nel Mediterraneo» si appalesa giustificazione, da un lato, intrinsecamente debole, dal momento che il quadro delle norme convenzionali di riferimento, come sopra riassunto, appare al contrario sufficientemente chiaro, in particolare nell’evidenziare le responsabilità dello «Stato di primo contatto» anche in caso di rifiuto dello Stato competente secondo la zona SAR, come peraltro contraddittoriamente rimarcato anche nella sentenza impugnata.
In ogni caso, esso si rivela non esaustivo in relazione alla diversa prospettiva di riferimento, rappresentata alle norme, costituzionali e sovranazionali, a tutela del fondamentale diritto della libertà personale. In altra parte della motivazione (pag. 7), sebbene ad altri fini discorsivi (sindacabilità della condotta in quanto atto amministrativo, non politico), la Corte capitolina osserva -correttamente- che «la condotta del Ministero dell’Interno, nella persona del ministro p.t, ha inciso direttamente e immediatamente sulla sfera giuridica dei ricorrenti comportando la lesione di diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati» e che «il potere in concreto esercitato, ancorché ampiamente discrezionale, è sottoposto a vincoli normativi (anche sotto il profilo procedimentale) a fronte dei quali vengono in rilievo situazioni giuridiche individuali in astratto meritevoli di tutela giurisdizionale». Afferma inoltre che «la procedura per la designazione del POS - di competenza del Dipartimento delle Libertà Civili e per l’Immigrazione, che costituisce articolazione del Ministero dell’Interno
- è un atto amministrativo endoprocedimentale vincolato nell’an e discrezionale nel quomodo, inerente all’individuazione del punto di sbarco più opportuno sul territorio nazionale. In tale scelta intervengono valutazioni tecniche in ordine al luogo in ragione al numero di migranti da assistere, al sesso, alle condizioni psicofisiche, alla necessità di garantire una struttura di accoglienza e alle cure mediche appropriate dopo lo sbarco. Le valutazioni politiche connesse al controllo dei flussi migratori – che, nel caso di specie, si sono sostanziate nel differimento dello sbarco al fine di attendere la definizione in sede europea sul “caso Diciotti” - sono da ritenersi estranee alla menzionata procedura amministrativa».
Ebbene, tali corrette considerazioni risultano contraddittoriamente neglette al momento di passare al vaglio dei presupposti della dedotta responsabilità da illecito aquiliano.
È frutto di una erronea impostazione qualificatoria l’affermazione che le norme internazionali non fondano un diritto allo sbarco, atteso che non si trattava di valutare se tali norme fondassero oppure no un tale diritto, quanto al contrario di valutare se, con quali presupposti e in che limiti tali norme autorizzassero il trattenimento dei migranti a bordo della unità dell’amministrazione statale che li aveva soccorsi.
Come evidenziato in sentenza ciò che si deduce a fondamento della domanda è la lesione del diritto («inviolabile») alla libertà personale ex art. 13 Cost., cagionata a causa dell’illegittimo trattenimento a bordo della nave “U. Diciotti”; gli appellanti lamentano di essere stati trattenuti dapprima sulla nave militare italiana (dal 16 al 20 agosto 2018) nonché successivamente nel porto di Catania (dal 20 al 25 agosto) senza autorizzazione allo sbarco, chiedendo conseguentemente il risarcimento dei danni patiti.
In questa diversa prospettiva appare evidente che non può risultare sufficiente ragione di scriminazione della condotta, sotto il profilo della colpa, l’incertezza normativa in ordine alla individuazione dello Stato competente, né la pure consentita flessibilità sulle determinazioni da adottare al momento di individuare il POS e autorizzare allo sbarco, non potendo tale flessibilità comunque risultare esente da ragionevoli limiti temporali senza altrimenti tradursi di fatto in una misura restrittiva della libertà personale, intollerabile per l’ordinamento costituzionale e sovranazionale.
È la stessa Corte di merito a evidenziare che se da un lato le linee guida IMO (International Maritime Organization) del 2004 (che regolano la questione dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo), al par. 2.6 «attribuiscono al Governo responsabile la flessibilità necessaria per affrontare ogni situazione caso per caso», dall’altro, al par. 2.5, stabiliscono che «in every case a place of safety is provided within a reasonable time», facendo espresso riferimento al fatto che la procedura deve necessariamente essere conclusa entro un termine ragionevole.
È proprio sotto tale profilo che la valutazione di merito appare monca, non avendo la Corte territoriale in alcun modo valutato se, al netto della discrezionalità attribuita alla P.A. e della flessibilità delle procedure di sbarco, potesse considerarsi comunque ragionevole il forzato trattenimento a bordo della nave (dapprima per effetto del mancato consenso all’attracco in un porto italiano e quindi per il mancato consenso allo sbarco, una volta attraccata la nave al porto di Catania) protratto per dieci giorni, anche in considerazione delle condizioni logistiche legate alle caratteristiche della nave stessa, al numero degli occupanti, alle condizioni di salute degli stessi, alle fasi pregresse della loro drammatica esperienza, alle condizioni climatiche. Non possono non considerarsi pienamente valide e pertinenti anche nello scrutinio del caso in esame le considerazioni di Corte Cost. n. 105 del 2021, là dove si stigmatizza — sebbene nella diversa ma contigua ipotesi del trattenimento illegittimo — «quella mortificazione della dignità dell'uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che è indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell'articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani».
Correlativamente, sotto il profilo della colpa attribuibile all’amministrazione come apparato, si trattava di valutare -e non è stato fatto- se potesse considerarsi oppure no ascrivibile a criteri di normale prudenza e diligenza, specie in considerazione della natura dei diritti in gioco, il convincimento della tollerabilità di un tale prolungamento del trattenimento dei migranti soccorsi a bordo della nave.
13. Non può condurre a diversa conclusione il fatto che, nel caso della nave Diciotti, con un voto del 20 marzo 1989, il Senato della Repubblica abbia negato l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno (Sen. Matteo Salvini) richiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania per il reato di sequestro di persona pluriaggravato (art. 605, commi primo, secondo, n. 2, e terzo, c.p.), segnatament «per avere, nella sua qualità di Ministro dell’Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti al porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso U. Diciotti della Guardia Costiera Italiana alle 23:49 del 20 agosto 2018 […]. Fatto aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abusato dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età».
La Corte d’appello ha già escluso la rilevanza di tale delibera ai fini della decisione sulla pretesa risarcitoria, poi comunque respinta, come detto, per altri motivi.
Tale affermazione non è investita da specifica censura da parte dei ricorrenti incidentali, ma nondimeno la questione va affrontata anche in questa sede dovendosi escludere che sul punto, data la pronuncia di rigetto, possa dirsi formato giudicato interno.
Non appare condivisibile sul punto la motivazione addotta dalla Corte territoriale, basata sul rilievo che, nella specie, «non è tanto in contestazione il personale operato del Ministro … quanto la condotta complessivamente imputabile alle Autorità italiane della quale, in virtù del rapporto di immedesimazione organica, è chiamato a rispondere anche il Ministero dell’Interno».
La corretta impostazione della questione esige invero che ci si interroghi sulla natura giuridica del diniego di autorizzaizone a procedere e in particolare se la insindacabilità della condotta che esso determina sul piano penale si riverberi anche sulla configurabilità dell’illecito civile, nel senso di escluderla. In tale secondo caso, infatti, non residuerebbe spazio per separare la responsabilità civile del Ministro da quella dell’amministrazione come apparato, posto che è dalla decisione del primo di negare il POS e l’autorizzazione allo sbarco che è derivato il trattenimento a bordo della nave costiera indicato come lesivo della libertà personale.
Ebbene, l’indagine al riguardo deve muovere dalla considerazione che la legge cost. n. 1 del 1989 è evidentemente diretta a garantire la funzione governativa attribuendo al Parlamento il potere di sottrarre alla giurisdizione penale ordinaria determinate condotte nei casi previsti dall’art. 9, comma 3 («interesse dello Stato costituzionalmente rilevante» o «perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo»).
L’autorizzazione della camera di appartenenza, secondo le norme stabilite con legge costituzionale, è prevista dall’art. 96 Cost., come modificato dall’art. 1 l. cost. cit., solo per i «reati» commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni, anche se cessati dalla carica.
Le norme di dettaglio regolano la procedura in una prospettiva esclusivamente penalistica.
È vero che, come è stato obiettato in dottrina, una interpretazione della norma costituzionale che riconosca all’«insindacabile» voto parlamentare ricognitivo di un «interesse costituzionalmente rilevante» o del «preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo» rilevanza impeditiva rispetto alla sola giurisdizione penale escludendo invece ogni rilievo sul piano civilistico potrebbe apparire non conforme a razionalità del sistema.
Nondimeno, il rilievo riflesso che il diniego dell’autorizzazione può spiegare sul piano civilistico non può che declinarsi sul piano della valutazione della ingiustizia del danno (fondamento della responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ.) secondo un criterio di bilanciamento tra gli opposti interessi (quello dell’interesse pubblico sottostante alla condotta e quello individuale che ne risulta leso) ed è dunque comunque destinata ad annullarsi ove la lesione attinga, come nella specie, diritti della persona inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso.
Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale.
14. Il ricorso principale merita accoglimento anche in relazione alla rilevata insussistenza di prova di un danno-conseguenza.
È certamente vero che, secondo pluridecennale ed ormai pacifica acquisizione (v. Cass. Sez. U. 11/01/2008, nn. 576, 582, 581, 582, 584; Id. 11/11/2008, nn. 26972 - 26975; ma v. già Cass. 15/10/1999,
n. 11629 e, in seguito, Cass. 21/07/2011, n. 15991; v. anche Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372), ad essere risarcibile non è la lesione dell’interesse giuridicamente protetto (danno-evento o evento di danno) ma il danno-conseguenza, vale a dire i pregiudizi derivanti secondo nesso di causalità giuridica (artt. 1223 e 2056 cod. civ.) dalla lesione stessa, da allegare e provare da parte del danneggiato.
Nel caso del danno non patrimoniale da lesione dei diritti inviolabili della persona quel che rileva ai fini risarcitori non è la lesione in sé del diritto ma le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, nella «doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza» (Cass. 17/01/2018, n. 901).
È anche vero però che tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti.
In particolare, in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta.
Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato.
In tali casi ad un puntuale onere di allegazione - la cui latitudine riflette la complessità e multiformità delle concrete alterazioni in cui può esteriorizzarsi il danno non patrimoniale che, a sua volta, deriva dall'ampiezza contenutistica dei diritti della persona investiti dalla lesione ingiusta - non corrisponde, pertanto, un onere probatorio parimenti ampio.
Come è stato condivisibilmente rimarcato (v. in motivazione Cass. 10/11/2020, n. 25164), «esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione - sovente ricorrendosi, a tal fine, alla categoria del fatto notorio per indicare il presupposto di tale ragionamento inferenziale, mentre il riferimento più corretto ha riferimento alle massime di esperienza (i fatti notori essendo circostanze storiche concrete ed inoppugnabili, non soggette a prova e pertanto sottratte all'onere di allegazione) ….
La massima di esperienza, difatti, non opera sul terreno dell'accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell'organo giudicante.
Tanto premesso, non solo non si ravvisano ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza specie nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale, ma tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell'impossibilità di provare il pregiudizio dell'essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d'animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito».
L’affermazione della Corte circa la mancanza di allegazione e prova del danno, non dando conto di tali margini di valutazione, appare pertanto applicare un paradigma in contrasto da quello dettato dal ricordato principio.
15. Il secondo motivo del ricorso incidentale condizionato è inammissibile.
Con esso si denuncia, nella sostanza, un vizio di omessa pronuncia (error in procedendo ex art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ.) sulla preliminare eccezione di difetto di legittimazione attiva degli appellanti e, dunque, dell’odierno ricorrente.
Avuto riguardo ai rilievi nei quali tale eccezione si concretava, quali trascritti in ricorso («non [è] dato sapere se gli odierni ricorrenti siano o meno realmente i naufraghi coinvolti nella vicenda della “U. Diciotti”» non essendo stata «allegata e prodotta alcuna documentazione da cui
poter evincere tale circostanza») l’eccezione poneva a ben vedere una questione non di legittimazione attiva, ma di titolarità, dal lato attivo, del dedotto credito risarcitorio.
Al riguardo va ribadito (in conformità ai principi affermati da Cass. Sez. U. n. 2951 del 16/02/2016) che:
─ la legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne titolare; cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio;
─ quest’ultima è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all'attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto;
─ la sua contestazione da parte del convenuto ha natura di mera difesa, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti.
La Corte d’appello ha rigettato la domanda risarcitoria per ragioni di merito, ancorché diverse da quelle relative alla sussistenza o meno della titolarità del vantato diritto, ma ritenute esplicitamente di più agevole valutazione e dunque esaminate per prime per il principio della ragione più liquida (v. sentenza, pag. 9). Ha infatti escluso la sussistenza di tale diritto, come detto, per la mancata allegazione e comunque per l’assenza del requisito della colpa, oltre che per la mancata prova del danno.
Non essendovi un ordine logico necessitato nell’esame dei fatti costitutivi della domanda, il suo rigetto per altri motivi di merito non implica sul piano logico il riconoscimento dell’altro fatto costitutivo (la titolarità del preteso diritto), né il suo contrario, dovendosi piuttosto ritenere che la questione sia rimasta assorbita (per assorbimento improprio).
Ciò esclude che possa configurarsi un vizio di omessa pronuncia.
Deve in tal senso darsi continuità all'indirizzo già affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nel giudizio di cassazione, è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che siano rimaste assorbite, ancorché in virtù del principio cd. della ragione più liquida, non essendo ravvisabile alcun rigetto implicito, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (Cass. 23/07/2018, n. 19503, Rv. 650157 – 01; 06/06/2023, n. 15893, Rv. 668115 – 01; in termini convergenti v. anche Cass. 02/07/2021, n. 18832; 03/02/2020, n. 2334; 12/11/2018, n. 28995, secondo cui, in tema di provvedimenti del giudice, l'assorbimento in senso improprio ─ configurabile quando la decisione di una questione esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre ─ impedisce di ritenere sussistente il vizio di omessa pronuncia, il quale è ravvisabile solo quando una questione non sia stata, espressamente o implicitamente, ritenuta assorbita da altre statuizioni della sentenza).
16. Tanto meno può ravvisarsi un vizio di omessa pronuncia sulla correlata eccezione di nullità della procura e dell’atto introduttivo, in difetto di certezza sulla identità della parte.
È al riguardo dirimente il rilievo che non è comunque configurabile un vizio di omessa pronuncia su una questione processuale, quale quella in discorso.
Secondo pacifico indirizzo, infatti, che va qui ribadito, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata decisione, per la violazione di norme diverse dall'art. 112 cod. proc. civ., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (v. ex plurimis Cass. n. 7406 del 2014; n. 21424 del 2014; n. 2343 del 2019).
17. Il ricorso principale è pertanto accolto, mentre deve essere rigettato il ricorso incidentale condizionato.
La causa va rinviata al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio.
18. Non può trovare applicazione l'obbligo di versare, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, essendo i ricorrenti incidentali Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (v. Cass. 29/12/2016, n. 27301; Cass. 29/01/2016, n. 1778; v. anche Cass., Sez. U, 08/05/2014, n. 9938; Cass. 14/03/2014, n. 5955).
P.Q.M.
accoglie il ricorso principale; rigetta quello incidentale condizionato; cassa la sentenza e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 18 febbraio 2025.
Il Presidente (Ettore Cirillo)