Vezzeggiativi, lusinghe e richiesta di scaricare degli applicativi per la trasmissione delle foto nuda bastano per configurare il reato (consumato) di adescamento di minorenne, anche se propositi no nei avveranO.
Cassazione penale
sez. III, ud. 9 febbraio 2022 (dep. 29 marzo 2022), n. 11305
Presidente Lapalorcia – Relatore Macrì
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 14 aprile 2021 la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza in data 25 marzo 2019 del Tribunale di Torino che aveva condannato l'imputato alle pene di legge con il beneficio della sospensione condizionale per il reato di adescamento di minorenni.
2. L'imputato presenta cinque motivi di ricorso.
Con il primo lamenta la reformatio in pejus perché la Corte territoriale aveva applicato le pene accessorie non comminate in primo grado.
Con il secondo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione perché mancava il dolo specifico e ricorreva invece la scriminante dell'ignoranza della minore età.
Con il terzo denuncia la violazione di legge, il vizio di motivazione e l'inesistenza della prova delle condotte tipiche perché non aveva usato espressioni carezzevoli o adulatorie.
Con il quarto eccepisce la violazione di legge e l'inesistenza della motivazione in merito ai reati fine. Non vi era stata trasmissione di foto nè vi erano stati appuntamenti nè egli conosceva il domicilio della persona offesa.
Con il quinto denuncia la violazione di legge con riferimento all'inutilizzabilità delle dichiarazioni della minore che aveva subito pressioni e suggestioni allorché era stata sentita.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Il primo motivo non ha alcun pregio dal momento che le pene accessorie applicate sono previste dalla legge e obbligatorie (Cass., Sez. 2, n. 15806 del 03/03/2017, Santese, Rv. 269864-01).
Il secondo, il terzo e il quarto motivo attengono all'accertamento di responsabilità che è stato condotto dai Giudici con massimo scrupolo. È emerso dall'istruttoria dibattimentale che la minore di anni 10, nel giocare sul web a "(…)", si era imbattuta nell'imputato con cui aveva intrattenuto delle conversazioni a sfondo sessuale. L'uomo, che la chiamava con vezzeggiativi e la blandiva con lusinghe, le aveva chiesto di scaricare degli applicativi per la trasmissione delle foto, perché la voleva vedere nuda, cosa che la persona offesa non aveva fatto. Il padre della minore aveva scoperto la chat grazie al controllo periodico del suo cellulare e aveva subito denunciato i fatti consentendo agli inquirenti di risalire all'imputato.
A differenza di quanto dedotto dalla difesa, i Giudici hanno puntualmente individuato i reati fine che l'uomo intendeva commettere, dagli atti sessuali all'acquisizione di materiale pedopornografico, e hanno ben delineato il dolo specifico della condotta (Cass., Sez. 3, n. 17373 del 31/01/2019, P., Rv. 27594601).
Inoltre, hanno ritenuto pienamente credibile la minore) anche con riferimento alla circostanza di aver comunicato all'imputato la sua età. Gli argomenti spesi dalla difesa sono generici e fattuali e non valgono a disarticolare il ragionamento dei Giudici.
In particolare, il quarto motivo solleva una questione non congruente con il reato contestato, considerato che l'adescamento si consuma proprio perché non sono configurabili i reati sessuali più gravi indicati nell'art. 609-undecies c.p..
Inconsistente è anche il quinto motivo che non si confronta con l'analisi contenuta in sentenza secondo cui l'operante di polizia giudiziaria aveva interrogato la bambina alla presenza dello psicologo con modalità corrette che non avevano compromesso la genuinità della testimonianza.
Dal racconto erano emerse difficoltà e vergogna, comprensibili per l'età della dichiarante e per l'oggetto imbarazzante della deposizione. Tale contegno non aveva inciso nè sull'utilizzabilità della prova - il verbale delle dichiarazioni era stato acquisito su accordo della difesa - nè sull'attendibilità poiché il narrato aveva trovato riscontri esterni nel racconto del padre della bambina e nelle conversazioni che era stato possibile recuperare.
Pertanto, non vi è alcun elemento per ritenere che la persona offesa sia stata suggestionata o indotta a rendere dichiarazioni compiacenti.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
L'imputato è condannato altresì al pagamento delle spese sostenute nel grado dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell'art. 541 c.p.p. e D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 110. Tali spese vanno liquidate dal Giudice che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a mezzo del decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 82 e 83, come stabilito dalle Sez. U. n. 5464 del 26/09/2019, dep. 2020, De Falco, Rv. 277760-01.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Torino con separato decreto di pagamento ai sensi D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Motivazione semplificata.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.