Quando sussista un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all’autorità giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione occorre verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa: si rimane indubbiamente nell’ambito dell’estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima, mentre sarebbe configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano un epilogo costrittivo, ma più blandamente persuasivo.
Il solo esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza o minaccia alle persone) rientra tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano in quanto la loro esecuzione implica l’intervento personale diretto del soggetto designato dalla legge; la condotta tipica oggetto di incriminazione può, quindi, assumere rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce, soltanto se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo.
Integra gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. "metodo mafioso", e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di matrice ‘ndranghetistica, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto.
Corte di Cassazione
sez. II Penale, sentenza 13 dicembre 2019 – 25 marzo 2020, n. 10647
Presidente Cervadoro – Relatore Alma
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza in data 2 agosto 2019, a seguito di giudizio di riesame, il Tribunale di Palermo ha rigettato il gravame proposto nell’interesse di S.R. avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo in data 11 luglio 2019 con la quale era stata disposta nei confronti dello stesso la misura cautelare personale della custodia in carcere in relazione al reato di concorso in estorsione pluriaggravata di cui agli artt. 110 e 629 in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1 e art. 416-bis.1 c.p. commesso in data (omissis) .
In sintesi, si contesta al S. , in concorso con O.A. , mediante minacce consistite del prospettare alla persona offesa ritorsioni o pericoli per la propria incolumità derivanti dall’appartenenza dell’O. alla famiglia mafiosa di Licata, notoria in relazione alle plurime condanne ricevute, di avere costretto R.A. a consegnare allo stesso S. la somma di 5.000,00 Euro così procurandosi l’ingiusto profitto della predetta somma con pari danno della persona offesa.
2. Ricorrono per cassazione avverso la predetta ordinanza i difensori dell’indagato, deducendo:
2.1. Violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all’art. 292 c.p.p., comma 2 e artt. 125 e 309 c.p.p..
Si duole la difesa del ricorrente del fatto che il Tribunale del riesame avrebbe rigettato le critiche difensive vertenti sul fatto che il Giudice emittente il provvedimento cautelare genetico avrebbe omesso di compiere un’autonoma valutazione delle emergenze investigative e, poi, avrebbe fatto sostanzialmente proprie le argomentazioni del primo Giudice richiamando pedissequamente e per relationem le stesse. La difesa, fino a pag. 8 del ricorso elenca, poi, una serie di massime giurisprudenziali e rilievi dottrinali in materia.
2.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in riferimento all’art. 273 c.p.p. con riguardo al reato contestato.
Rileva la difesa del ricorrente che erroneamente sarebbe stato configurato il reato di estorsione in assenza di qualunque condotta verbale o fisica del S. nei confronti della persona offesa.
I Giudici del merito avrebbero omesso di considerare che esisteva un credito lecito di natura lavorativa del S. nei confronti del R. e la mera presenza dell’O. (convivente della madre del ricorrente da molti anni) nella mediazione tra i due non può essere considerato elemento idoneo ad integrare una condotta di tipo estorsivo.
Gli stessi Giudici della cautela hanno, poi, chiarito che nessun elemento indiziario può desumersi da un incontro ripreso dai sistemi di video-sorveglianza intervenuto tra S. , O. e R. il quale ultimo oltretutto non manifestò alcun segno di timore verso i propri interlocutori durante tutta la durata dell’incontro.
A ciò si aggiunge il fatto che il S. nell’occasione non ha ricevuto neppure l’intera somma della quale era creditore e che, quindi, l’intermediazione dell’O. sarebbe stata addirittura sfavorevole per i suoi interessi.
Di nessun rilievo sarebbero, poi, le parole esternate successivamente dal S. a soggetti terzi in quanto pronunciate in un momento di rabbia e che non sono certo riconducibili ad una manifestazione di violenza.
Secondo la difesa del ricorrente, l’ordinanza impugnata avrebbe, poi, errato anche nel configurare la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1, non risultando la persona offesa in alcun modo intimidita ed essendo, come detto, la presenza dell’O. sul luogo ed al momento dei fatti giustificata dal legame "parentale" che lo lega al S. .
Illegittimamente, poi, nella motivazione dell’ordinanza impugnata sarebbero state inserite valutazioni circa l’emissione di ordinanza cautelare per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. non avendo ancora assunto tale ultima ordinanza valore di giudicato cautelare e, comunque, non essendo le condotte descritte evocative della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo.
2.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in riferimento all’art. 125 c.p.p., art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c), art. 274 c.p.p., lett. a), b) e c) e art. 275 c.p.p., comma 3.
Si duole la difesa del ricorrente della ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari asseritamente supportata da una motivazione che richiama elementi generici e privi di certezza giuridica.
Illegittimamente sarebbe stata ritenuta irrilevante l’assenza di precedenti penali in capo al ricorrente. Risultano poi genericamente evocati i legami che l’odierno indagato avrebbe all’estero peraltro riconducibili a pregresse esperienze lavorative lecite e non emergono, infine, ulteriori condotte poste in essere dal S. che delineino contatti dello stesso con un sodalizio di tipo mafioso.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è al contempo generico e manifestamente infondato.
Quanto al profilo della genericità, rileva l’odierno Collegio che la difesa del ricorrente si limita a dolersi dell’assenza di autonoma valutazione da parte del Giudice emittente il provvedimento cautelare genetico ma non indica neppure i passaggi motivazionali od i punti di detta ordinanza che presenterebbero tale vizio astrattamente idonei a condurre alla nullità del predetto provvedimento.
È appena il caso di ricordare che in tema di impugnazioni avverso i provvedimenti "de libertate", il ricorrente per cassazione che denunci la nullità dell’ordinanza cautelare per omessa autonoma valutazione dei gravi indizi o delle esigenze cautelari ha l’onere di indicare gli aspetti della motivazione in relazione ai quali detta omissione abbia impedito apprezzamenti di segno contrario di tale rilevanza da condurre a conclusioni diverse da quelle adottate (Sez. 1, n. 333 del 28/11/2018, deo. 2019, Esposito, Rv. 274760).
In punto più strettamente di diritto, sul presupposto che l’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c), come novellato dalla L. n. 47 del 2015, prevede che il Giudice debba non solo esporre le specifiche esigenze cautelari e gli indizi, ma anche compiere su tali punti una "autonoma valutazione", la cui mancanza impone l’annullamento del provvedimento cautelare, va ricordato che questa Corte Suprema ha già avuto modo di chiarire (cfr. Sez, 6, n. 1897 del 29/10/2015) che ciò significa che il Giudice non può richiamare per intero la richiesta del P.M. o altri atti delle indagini preliminari, quand’anche contenga l’esposizione di tutti gli elementi idonei a sorreggere un quadro indiziario grave e la configurabilità delle esigenze cautelari, ma deve comunque dar conto della propria valutazione di quegli elementi, sottoponendoli ad esame critico e indicando le ragioni per cui gli stessi risultano tali da corroborare la richiesta e fondare l’applicazione di una misura cautelare.
È però evidente che con la novella legislativa di cui alla L. n. 47 del 2005 non si è inteso imporre in tal modo un unico modus procedendi, essendo molteplici le modalità con cui il Giudice può dar conto dell’autonomo percorso valutativo seguito: in particolare non è esclusa la possibilità di richiamare passi della richiesta di avviamento del trattamento cautelare od anche di atti di polizia giudiziaria dalla stessa a loro volta richiamati, dovendosi comunque ritenere che il mero richiamo sia insufficiente, in assenza della necessaria valutazione critica da parte del Giudice. Ciò perché il contenuto essenziale della motivazione non è costituito dalla mera elencazione di elementi, bensì dalla spiegazione del loro significato in rapporto ai vari punti della decisione: in tale prospettiva la valutazione autonoma cui è chiamato il Giudice postula da un lato l’individuazione degli elementi rilevanti e dall’altro l’attribuzione agli stessi di un significato preciso, che non può essere semplicemente rappresentato attraverso l’illustrazione operata dal Pubblico Ministero.
Ciò doverosamente premesso in linee generali, deve però anche essere evidenziato che le censure difensive nel caso in esame risultano - come detto anche manifestamente infondate.
Il Tribunale del riesame nel respingere la doglianza difensiva de qua ha, infatti, da un lato correttamente osservato che l’"autonomia" del Giudice richiesta dall’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c), riguarda la valutazione degli elementi e non certo l’esposizione dei presupposti di fatto del provvedimento e, dall’altro, ha altrettanto correttamente evidenziato che il Giudice per le indagini preliminari nell’esaminare la specifica posizione dell’odierno ricorrente oltre ad avere riportato la richiesta del Pubblico Ministero con riguardo alle emergenze investigative, ha evidenziato di aver vagliato criticamente i dati salienti della vicenda, spiegando la rilevanza degli elementi emersi, la capacità degli stessi a costituire un grave indizio del reato in contestazione al S. e, altrettanto adeguatamente, ha illustrato le esigenze cautelari ritenute sussistenti a carico del predetto.
Tornando ai concreti profili contenutistico-motivazionali del provvedimento impugnato, è, poi, di tutta evidenza che il Giudice nel provvedimento cautelare ben può ripercorrere gli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini e segnalati nella richiesta del Pubblico Ministero non potendosi certo pretendere che egli ne debba individuare di diversi (che potrebbero anche non esistere), così come ben può anche condividere in toto le argomentazioni espresse dall’Autorità Inquirente: il concetto di "autonoma" valutazione espresso dal Legislatore, infatti, non può che essere inteso come valutazione "non condizionata" che è cosa ben diversa da una valutazione "non conforme" in quanto, se così non fosse, si dovrebbe giungere al paradosso di sostenere che il Giudice potrebbe dimostrare la propria "autonomia" (così da evitare vizi dell’emittendo provvedimento cautelare) solo non accogliendo (in tutto od in parte) la richiesta del Pubblico Ministero o ricorrendo, pur in presenza di fatti di palese evidenza e di univoca interpretazione, a motivazioni distoniche rispetto a quelle del Pubblico Ministero che però portino comunque al medesimo condiviso risultato.
2. Ritiene, invece, la Corte che il secondo motivo di ricorso sia fondato.
È necessario, al riguardo, riassumere brevemente i fatti così come
ricostruiti dai Giudici del procedimento cautelare e sostanzialmente non contestati nella loro evoluzione.
È infatti emerso che:
a) il S. (unitamente a C.G. ) si era nel passato recato temporaneamente in Germania dove aveva trovato lavoro presso un imprenditore di Licata (R.A. );
b) a seguito di dissapori intervenuti con il R. , il S. aveva fatto rientro in Sicilia mentre il C. era rimasto in Germania;
c) per effetto delle prestazioni lavorative svolte il S. vantava un credito nei confronti del C. ;
d) detto credito è di importo allo stato non certo ma sembrerebbe ragionevolmente ammontante attorno ai 10 mila Euro atteso che dalle conversazioni intercettate emergerebbe che, a seguito delle vicende di cui si dirà, il S. sarebbe riuscito a riscuoterne la metà;
e) il S. non riuscendo a riscuotere il credito aveva quindi parlato della cosa con l’O. , convivente della lui madre e personaggio di elevata caratura mafiosa, nota nell’ambiente, al punto che in epoca successiva è stato attinto da ordinanza cautelare per la violazione dell’art. 416-bis c.p.;
f) O. , da un lato, rimproverava l’odierno ricorrente di non avere agito duramente nei confronti del R. e, dall’altro, offriva il proprio intervento per sistemare la faccenda;
g) in data (omissis) avveniva un incontro tra S. , O. e R. (videoripreso senza audio) all’esito del quale il R. si determinava a versare al S. , mediante bonifico, la somma di 5 mila Euro a chiusura della vicenda;
h) sulla base di una conversazione intercettata il 4 aprile 2018, intercorsa tra il S. ed il C. , il primo rappresentava al secondo i termini di definizione della vicenda avvenuta grazie all’intervento dell’O. , confermava di aver ricevuto solo la metà della somma che aveva chiesto ma di avere provato "il piacere" di aver visto il R. cedere alle richieste.
Fin qui le (incontestate) emergenze di fatto.
Ora, data per accertata l’evoluzione dei fatti come sopra descritti, che indubbiamente integrano la gravità indiziaria circa il ruolo materiale ricoperto dal S. e dall’O. nella vicenda, ritiene la Corte che ci si trovi in presenza di una carenza motivazionale del provvedimento impugnato che non consente di risolvere i punti nodali della stessa incidenti sulla qualificazione giuridica delle condotte descritte, anche con eventuale riguardo al perseguimento di un "ingiusto profitto" da parte del S. , elemento comunque necessario per la configurabilità del reato di estorsione.
Nel caso in esame, la sussistenza di un credito da parte dell’odierno ricorrente nei confronti della persona offesa è emersa esclusivamente dalle conversazioni intercettate che riportano le affermazioni "unilaterali" del S. , e non è data conoscere la fondamentale quanto necessaria versione della indicata persona offesa R. (del quale si ignora altresì se abbia reso dichiarazioni sul punto).
Non è possibile pertanto stabilire con certezza se ci si trovava in presenza di un credito esistente, se lo stesso era liquido ed esigibile, e, in caso affermativo, se il S. abbia ottenuto il pagamento di una somma maggiore di quella di cui era effettivamente creditore, il che consentirebbe di risolvere in nuce, ed almeno sotto questo profilo, la questione giuridica della positiva ricorrenza di una vicenda estorsiva.
Una volta accertata e risolta la questione preliminare riguardo l’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile mediante azione innanzi all’Autorità Giudiziaria, sarà, poi, doveroso verificare ed esplicare con motivazione adeguata se ricorra qualcun altro degli elementi distintivi delineati dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità in relazione al reato di estorsione.
In ordine al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rileva il Collegio che alcune pronunce di questa Corte hanno ritenuto che il reato di cui all’art. 393 c.p. è un cosiddetto reato di "mano propria", in quanto può avere come soggetto agente, unicamente "chiunque... si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo": detta espressa previsione impone di ritenere che il solo esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza o minaccia alle persone) rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano in quanto la loro esecuzione implica l’intervento personale diretto del soggetto designato dalla legge; la condotta tipica oggetto di incriminazione può, quindi, assumere rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce, soltanto se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo.
Tale rilievo risulta decisivo nei casi di reati commessi in concorso, poiché, se la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dall’art. 393 c.p. è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della persona offesa, che agisca su mandato del creditore, essa potrà assumere rilievo soltanto ex art. 629 c.p., giammai a titolo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
In tutti gli altri casi, nei quali la condotta tipica è posta in essere da chi agisce per "farsi ragione da sé medesimo", sarà, al contrario, configurabile - in ipotesi (e salva la considerazione delle eventuali peculiarità dei singoli casi concreti) il concorso (per agevolazione, od anche morale) di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della persona offesa nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Quanto appena osservato costituisce conseguenza diretta ed immediata della particolare oggettività giuridica del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che è posto a tutela dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può - in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) - essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione "da sé medesimo", non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia.
Anche in questa prospettiva, occorrerà comunque procedere all’esame nel caso concreto, al fine della corretta qualificazione giuridica del fatto.
Rilevasi altresì, che secondo un indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, condiviso anche dall’odierno Collegio, a fronte di un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all’autorità giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione occorre verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa, con la conseguenza che si rimarrebbe indubbiamente nell’ambito dell’estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima (così Sez. 6, n. 32721 del 07/09/ 2010, Hamidovic, Rv. 248169), mentre sarebbe configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano un epilogo costrittivo, ma più blandamente persuasivo (Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837).
Si è poi ritenuto che integra gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. "metodo mafioso", e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di matrice ‘ndranghetistica, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264628).
Anche, sotto tali diversi profili, si rende necessario un approfondimento motivazionale da parte dei Giudici del procedimento cautelare, che nulla hanno detto in ordine alla condotta minacciosa o violenta da parte del presunto creditore e da parte del terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa.
L’incontro del (omissis) tra S. , O. e R. , per come descritto, risulta essersi svolto nella massima tranquillità; nè è emerso dalle videoriprese che sia stata usata minaccia o violenza nei confronti della persona offesa. Il fatto poi che le parti si siano salutate cordialmente e che addirittura il R. e l’O. si siano baciati è circostanza da sola certamente non univoca della forza intimidatoria esercitata. La circostanze può essere infatti letta in duplice senso, sia come un’effettiva manifestazione di soddisfazione per l’accordo raggiunto e comunque di "tranquillità" nella risoluzione della controversia sia come hanno meramente ipotizzato i Giudici della cautela - come una sorta di segno di rispetto e di sottoposizione del R. nei confronti della riconosciuta caratura mafiosa dell’O. ; di certo tale atteggiamento proprio per l’alternativa lettura che si può dare alle condotte non rappresenta un elemento risolutivo e gravemente indicativo di una condotta di natura estorsiva. Non risulta, infatti, adeguatamente approfondita e motivata la circostanza relativa a eventuali violenze o minacce nei confronti della persona offesa; sulla base delle intercettazioni sembrerebbe poi che l’unico atteggiamento tenuto dall’O. sia stato quello di invitare le parti a "tagliare la testa al toro" e quindi di raggiungere un accordo che, del resto, avrebbe sì visto il Ruvìo costretto a pagare ma anche il S. a rinunciare alla metà del preteso credito.
Neppure risulta, infine, adeguata motivazione in relazione alla circostanza emergente dalle intercettazioni, secondo la quale anche il S. all’esito dell’incontro con il R. al quale prese parte l’O. ebbe a rinunciare ad ottenere il pagamento della metà del (preteso) credito con la conseguenza che la "coazione" esercitata da quest’ultimo avrebbe portato ad un risultato tale da porre l’odierno indagato al contempo nelle posizioni di beneficiario e vittima del potere mafioso del terzo interveniente.
Per tutte le ragioni sopra descritte e necessitanti ulteriori approfondimenti non adeguatamente risolti nel provvedimento de quo, si impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Palermo, Sezione per il riesame delle misure coercitive.
3. Il terzo motivo di ricorso è assorbito dalla presente decisione.
4. Poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi - ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter, - che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perché provveda a quanto stabilito dal citato art. 94, comma 1 bis.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Palermo - Sezione per il riesame delle misure coercitive - per nuovo esame.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.