L’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito da più atti (delittuosi o meno) vessatori causanti sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, anche se in un limitato contesto temporale: per poter fondare una condanna per maltrattamenti le vessazioni devono essere abituali, il che significa che le condotte non devono essere sporadiche.
L’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non richiede la programmazione di una pluralità di atti: basta la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già attuata in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima; in altri termini, la sussistenza del dolo unitario non richiede l’intenzione di sottoporre la persona offesa, in modo continuo e abituale, a una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria.
I singoli comportamenti vessatori possono costituire il reato di maltrattamenti in famiglia quando venga individuato un atteggiamento volitivo che non si risolva in manifestazioni, seppur ripetute, di contingente aggressività, ma comprovi il consapevole perseverare in condotte lesive della dignità della persona offesa.
Corte di Cassazione
sez. VI Penale, sentenza 4 luglio 2018 – 19 marzo 2019, n. 12196
Presidente Fidelbo – Relatore Costanzo
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza n. 456/2018 del 26/01/2018, la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Trapani a D.B.G. per reati ex artt. 572 e 582 c.p., art. 577 c.p., comma 2, per avere maltrattato con ingiurie e percosse e cacciandola da casa la moglie P.G. che successivamente perseguitava nei modi descritti nelle imputazioni (capo A, "in epoca anteriore al 26/05/2009 e fino a tale data" e "dal 26/05/2009 e nel corso dell’anno 2010" per la porzione di condotte originariamente qualificate come atti persecutori e poi assorbite nel reato di maltrattamenti; ex art. 612 c.p., comma 2, per averla minacciata e averle procurato lesioni (capo B, "dal 26/05/2009 e nel corso dell’anno 2010); ex art. 635 c.p., comma 2, n. 3, per avere danneggiato l’appartamento di proprietà dello IACP di Trapani (capo C, "il 29/12/2009"), riuniti ex art. 81 c.p., comma 2. Ha confermato, inoltre, la condanna al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite e le correlate statuizioni sulle spese processuali.
2. Nel ricorso di D.B. si chiede annullarsi la sentenza per: a) mancata assunzione di prova decisiva e, comunque, vizio della motivazione nel rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (primo e secondo motivo di appello) dopo la revoca dell’ordinanza che aveva disposto l’esame di alcuni testi della difesa (vicini di casa e amici della coppia D.B. -P. ) e del proprietario dell’auto che l’imputato avrebbe usato per tamponare quella sulla quale viaggiava la P. ; b) violazione dell’art. 192 c.p., comma 1, e art. 533 c.p., comma 1 nel valutare le dichiarazioni accusatorie della moglie, mossa da astio, e i generici riscontri offerti dalle dichiarazioni dei figli, trascurando quelle dei vicini di casa e dei parenti dell’imputato (che non ricordano litigi o aggressioni) e "la mancata corresponsione del mantenimento quale causa delle dichiarazioni accusatorie" e mancando prova della responsabilità per il danneggiamento; c) violazione dell’art. 572 c.p. non emergendo una condotta abituale (ma solo episodi sporadici e occasionali nell’arco di 25 anni, inidonei a rendere intollerabile il regime di vita della persona offesa), nè risultando provato il dolo unitario; d) violazione degli artt. 157 e 161 c.p. per essersi il reato di maltrattamenti prescritto durante il giudizio di appello anche computandosi la sospensione della prescrizione dal 4/03/2016 al 6/05/2016; e) mancanza di motivazione della determinazione della pena in misura non nel minimo edittale o, comunque, più mite rispetto a quella inflitta in primo grado.
Considerato in diritto
1. I primi tre motivi di ricorso sono infondati.
1.1. Quanto al primo motivo di ricorso, deve osservarsi che il diritto della parte di "difendersi provando", sancito dall’art. 495 c.p.p., comma 2, art. 6, comma 3, lett. d), CEDU e art. 111 Cost., comma 2, va coordinato con il potere del giudice di revocare ex art. 495 c.p.p., comma 4, l’ammissione di prove risultanti superflue, potere che è, nel corso del processo più ampio che all’inizio del dibattimento quando il giudice può non ammettere solo le prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti (Sez. 3, n. 13095 del 17/01/2017, Rv. 269331; Sez. 5, n. 9687 del 02/12/2014, dep. 2015, Rv. 263184 Sez. 6, n. 13792 del 06/10/1999, Rv. 215281).
Pertanto, la deduzione circa la mancata ammissione di una prova decisiva conduce a una verifica della logicità e congruenza della argomentazione sviluppata nella sentenza circa gli elementi di prova (Sez. 2, n. 31883 del 30/06/2016, Rv. 2674830; Sez. 6, n. 5562 del 13/04/2000, Rv. 220547; Sez. 6, n. 13792 del 06/10/1999, Rv. 215281), fermo restando che l’eventuale mancanza di motivazione dell’ordinanza che valuta superflua una prova, produce una nullità di ordine generale che, se non immediatamente dedotta ex art. 182 c.p.p., comma 2, risulta sanata (Sez. 6, n. 53823 del 05/10/2017, Rv. 271732; Sez. 6, n. 11400 del 12/02/2015, Rv. 262783).
Il giudice di appello può disporre ex art. 603 c.p.p., comma 3, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, anche indipendentemente dalle richieste delle parti (Sez. 3, n. 5854 del 29/11/2012, dep. 2013, Rv. 254850), se necessaria per decidere, (Sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, Rv. 258320) e la mancata rinnovazione dell’istruttoria in appello può censurarsi in cassazione se la motivazione della decisione impugnata contiene lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate con l’assunzione o la riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 6, n. 18506 del 6/054/2016; Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014, dep. 2015, Rv. 261799).
Nel caso in esame, la Corte di appello ha congruamente osservato che erano indicati nella lista dei testi della difesa "ben sette soggetti che avrebbero dovuto riferire quali vicini di casa ed amici dei coniugi D.B. -P. (...) di guisa che, dopo avere escusso i primi tre testi sulle medesime circostanze, appare pienamente legittima l’ordinanza emessa dal primo giudice (...) avendo ritenuto superflua l’audizione degli ulteriori testi indicati" ex art. 495 c.p.p., comma 4. Ha anche confermato la non necessità, ex art. 507 c.p.p., dell’assunzione del teste D.B.G. richiesta dalla difesa ritenendo poco rilevante l’accertamento della proprietà dell’autovettura usata da D.B. ritenendo comunque "ampiamente comprovato, alla stregua delle altre acquisizioni probatorie" l’episodio delle lesioni arrecate alla persona offesa. Circa la prova del danneggiamento, la Corte - richiamando le argomentazioni del Tribunale - ha considerato che dopo l’assegnazione della casa coniugale le chiavi furono consegnate alla P. nel dicembre del 2009 dall’avvocato del marito del quale la donna fece constatare ai Carabinieri gli atti di vandalismo attuati quali ritorsioni nei suoi confronti, mentre l’assunto difensivo secondo cui autori del danneggiamento avrebbero potuto essere dei ladri non è supportato da allegazioni relative a forzature della serratura o a altri dati indicativi.
1.2. Quanto al secondo motivo di ricorso, la sentenza dà conto: dell’attendibilità della persona offesa valutata anche con riferimento alla narrazione di specifici episodi significativi e ai riscontri offerti dalle dichiarazioni dei tre figli (due dei quali anch’essi minacciati da D.B. ) della coppia, dei parenti della persona offesa e degli appartenenti alla Polizia giudiziaria che hanno appurato il contenuto dei messaggi inviati dall’imputato alla moglie; della implausibilità delle dichiarazioni dei parenti dell’imputato e di alcuni vicini di casa oltre che della ritrattazione delle iniziali dichiarazioni accusatorie da parte della teste N.M. (pp. 2-3).
1.3. Il terzo motivo di ricorso è fondato.
L’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito da più atti (delittuosi o meno) vessatori causanti sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, anche se in un limitato contesto temporale (Sez. 3, n. 6724 del 22/11/2017, dep. 2018, D.L., Rv. 272452; Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012, Rv. 253041; Sez. 5, n. 2130 del 09/01/1992, Rv. 189558), Vale rimarcare che, per essere abituali, le condotte non devono essere sporadiche (Sez. 6, n. 8953 del 21/06/1984, Rv. 166250; Sez. 6, n. 1084 del 08/10/1970, Rv. 115947).
L’elemento soggettivo non richiede la programmazione di una pluralità di atti: basta la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già attuata in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima; in altri termini, la sussistenza del dolo unitario non richiede l’intenzione di sottoporre la persona offesa, in modo continuo e abituale, a una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria (ex multis: Sez. 6, n. 15146 del 19/03/2014, Rv. 259677; Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012, Rv. 253042; Sez. 6, n. 16836 del 18/02/2010, Rv. 246915).
Posto questo, deve rilevarsi che la sentenza di primo grado manca di motivazione circa la sussistenza degli elementi costitutivi propri del reato ex art. 572 c.p. e che la sentenza impugnata risulta carente in relazione alla valutazione della abitualità delle condotte perché al riguardo la Corte di appello si è limitata a evidenziare quella che ha definito la "pluralità delle condotte violente e vessatorie che consentono di ritener sussistente il requisito della abitualità" (p. 4), senza una argomentazione che raccordi puntualmente fra loro, alla stregua dei principi di diritto sopra richiamati, i singoli comportamenti, individuando esplicitamente un atteggiamento volitivo che non si risolva in manifestazioni, seppur ripetute, di contingente aggressività, ma comprovi il consapevole perseverare in condotte lesive della dignità della persona offesa (Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012, Rv. 253042; Sez. 6, n. 16836 del 18/02/2010, Rv. 246915).
4. Su queste basi la sentenza impugnata andrebbe annullata con rinvio per un nuovo giudizio sul punto.
Deve, però, registrarsi che è fondato anche il quarto motivo di ricorso perché i reati ascritti a D.B. - il più recente (capo B) dei quali è contestato come commesso "nel corso dell’anno 2010" - risultano, anche considerando i 2 mesi e 2 giorni di sospensione del corso della prescrizione, tutti prescritti prima della decisione della Corte di appello.
Nè, sulla base di quanto sopra osservato sub 1.1., 1.2. e 1.3., alla Corte di appello si presentavano i presupposti (l’assenza, rilevabile con una mera attività ricognitiva, di prova della colpevolezza o la prova positiva dell’innocenza) per fare prevalere una decisione di proscioglimento sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione (Sez. 6, n. 27725 del 22/03/2018, Rv. 273679; Sez. 6, n. 10284 del 22/01/2014, Rv. 259445).
Da quanto precede (che comporta l’irrilevanza del quinto motivo di ricorso) deriva che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, quanto alle statuizioni penali, perché i reati sono estinti per intervenuta prescrizione.
Secondo giurisprudenza di questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 21251 del 26/03/2013; Sez. 5, n. 5764 del 07/12/2012, dep. 2013, Rv. 254965; Sez. 3, n. 26863 del 06/06/2012, Rv. 254054) il rinvio andrebbe disposto, ex art. 578 c.p.p., allo stesso giudice penale che ha emesso il provvedimento impugnato e non al giudice civile competente per valore in grado di appello, ex art. 622 c.p.p., presupponendo tale norma o il già definitivo accertamento della responsabilità penale o l’accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile. Deve però osservarsi, nella linea di altra giurisprudenza di questa Corte, che se sussiste un vizio di motivazione attinente alla responsabilità dell’imputato (affermata, dal giudice del merito, in sede penale), ma non vi è più spazio per una rivisitazione del giudizio penale, stante la rilevata e dichiarata estinzione del reato per prescrizione, la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile non ha, a questo punto, ragion d’essere, mentre rinviare per le statuizioni civili al giudice civile competente per valore in grado di appello - per decidere sia sull’an che sul quantum, nonché sul regolamento tra le parti delle spese del presente giudizio - è consono alla natura, ormai solo civilistica, delle questioni, da decidere. In altri termini, il rilevamento in sede di legittimità della sopravvenuta prescrizione del reato unitamente a un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata in ordine alla responsabilità dell’imputato comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza stessa e, se questa contiene anche la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, l’annullamento delle statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello (Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Rv. 2678440; Sez. 5, n. 15015 del 23/02/2012, Rv. 252487; Sez. 6, n. 26299 del 03/06/2009, Rv. 244533).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i reati sono estinti per intervenuta prescrizione. Annulla altresì la sentenza ai fini civili e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.