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MAE: Senza accordo dello stato emittente niente indulto (Cass. 27359/19)

19 giugno 2019, Cassazione penale

In sede di esecuzione di una MAE con riconoscimento della sentenza straniera ai fini della esecuzione in Italia, spetta in ogni caso all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, la sola competente ad interpretare il diritto nazionale, di accertare - in presenza di un ostacolo normativo alla presa in carico della esecuzione della pena - se sia possibile nondimeno di eseguire effettivamente la pena privativa della libertà inflitta dallo Stato membro emittente nei confronti della persona oggetto del mandato d’arresto Europeo.

Peraltro in sede di riconoscimento, oltre al limitato adattamento per ricondurre la durata della pena al massimo della penale edittale prevista dall’ordinamento nazionale per il reato oggetto della condanna da eseguire, non è consentito un unilaterale potere dello Stato di esecuzione di intervento sulla durata della pena, in quanto lo Stato di emissione mantiene la sua competenza per l’esecuzione di una pena fintantoché l’esecuzione della pena nello Stato di esecuzione non sia iniziata.

Se quindi  la Corte di Appello ritiene di poter procedere al riconoscimento parziale, ne informa immediatamente, anche tramite il Ministero della Giustizia, l'autorità competente dello Stato di emissione e concorda con questa le condizioni del riconoscimento e dell'esecuzione parziale, purché tali condizioni non comportino un aumento della durata della pena. In mancanza di accordo, il certificato si intende ritirato e il MAE va eseguito, salvo pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.

Corte di Cassazione

sez. VI Penale, sentenza 14 – 19 giugno 2019, n. 27359
Presidente Tronci – Relatore Calvanese

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Brescia, ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r), rifiutava la consegna del cittadino italiano C.A. , richiesta con m.a.e. dall’autorità giudiziaria della Romania ai fini dell’esecuzione della pena di anni cinque e mesi sei di reclusione per reati di evasione, appropriazione indebita e riciclaggio commessi tra il maggio 2003 e il dicembre 2005, in quanto riconosceva la sentenza rumena di condanna e disponeva, previa concessione dell’indulto di cui alla L. n. 241 del 2006, per anni uno, l’esecuzione in Italia della pena residua di anni quattro e mesi sei di reclusione.

In particolare, nell’applicare l’indulto, la Corte di appello, nel rilevare che l’autorità giudiziaria rumena aveva determinato la pena, partendo dalla pena base di anni quattro e mesi sei di reclusione per il reato di appropriazione indebita, alla quale aveva applicato un aumento di anni uno di reclusione per i restanti reati, riteneva di diversamente imputare le suddetti componenti della pena, alla luce dell’ordinamento italiano, secondo il quale il reato più grave era quello di riciclaggio, al quale tuttavia era inapplicabile l’indulto.
Pertanto, la Corte bresciana applicava il beneficio soltanto ai restanti reati, nella misura di un anno di anno di reclusione.

2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso la persona richiesta in consegna, a mezzo del suo difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Violazione di legge in relazione alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r).
La Corte di appello ha effettuato un’operazione non consentita rivisitando la pena inflitta dall’autorità giudiziaria rumena.
2.2. Violazione di legge in relazione alla L. n. 241 del 2006, art. 1, e art. 648 bis c.p..
La Corte di appello erroneamente ha ritenuto non coperta dall’indulto del 2006 la fattispecie del riciclaggio, mentre ciò si verifica solo per alcune limitate ipotesi - non ricorrenti nel caso in esame - in ragione di specifici reati-presupposto (ovvero quando "la sostituzione riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti dal delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione o dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope").
2.3. Mancanza di motivazione.
Nell’escludere il reato di riciclaggio, la Corte di appello non avrebbe neppure chiarito i motivi di tale conclusione.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato nei termini che seguono.

2. La L. 31 luglio 2006, n. 241, ha previsto che è "concesso indulto, per tutti i reati commessi fino a tutto il 2 maggio 2006, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 Euro per quelle pecuniarie sole o congiunte a pene detentive" e che lo stesso non si applica in particolare al delitto di cui all’art. 648 bis c.p. (riciclaggio) "limitatamente all’ipotesi che la sostituzione riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti dal delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione o dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope".

Pertanto, erroneamente la Corte di appello ha ritenuto escluso dal suddetto provvedimento clemenziale il reato di riciclaggio, per il quale è stato condannato il ricorrente, riguardante somme provenienti da reati di evasione e di appropriazione indebita.

L’accoglimento di tale censura viene ad assorbire l’altro rilievo, anch’esso fondato, sollevato dal ricorrente in ordine alle modalità con cui è stato imputato l’indulto ai reati avvinti dal vincolo della continuazione.

A tal riguardo è appena il caso di ribadire, da un lato, che, laddove sia necessario in presenza di una sentenza definitiva operare la scissione del reato continuato, al fine di procedere all’applicazione dell’indulto soltanto ad alcuni dei reati, il giudice deve attenersi alle pene concretamente inflitte per ognuno di essi (Sez. U, n. 21501 del 23/04/2009, Astone, Rv. 243380); e dall’altro, come si avrà modo di precisare nei paragrafi che seguono, che il riconoscimento a fini esecutivi della sentenza oggetto del mandato di arresto Europeo deve rispettare, fatto salvo un limitato potere di adattamento, la natura giuridica e la durata della sanzione penale così come stabilita dallo Stato di emissione.

3. L’annullamento della sentenza impugnata per il motivo sopra indicato deve essere peraltro accompagnato da alcune precisazioni.

Va invero chiarito come l’applicazione dell’istituto dell’indulto si innesti nella procedura di riconoscimento della sentenza rumena, ai fini della L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r).

Va ricordato che attraverso la norma ora richiamata, così come risultante all’esito della pronuncia di incostituzionalità (Corte Cost. n. 227 del 2010), l’ordinamento italiano si è conformato a quanto previsto dall’art. 4, punto 6 della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto Europeo, secondo cui lo Stato di esecuzione può rifiutare di eseguire la consegna "se il mandato d’arresto Europeo è stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno".

Come è stato più volte evidenziato da questa Corte, la peculiarità della trasposizione di tale disposizione nell’ordinamento nazionale è di aver reso, al pari delle altre ipotesi di rifiuto stabilite dalla L. n. 69 del 2005, cogente e non discrezionale il rifiuto stesso della consegna. Tuttavia, come chiaramente si evince dal testo della norma, il rifiuto è pur sempre condizionato alla presa in carico da parte dello Stato italiano della esecuzione della pena ("sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno").

Questa condizione riflette invero la esatta portata del motivo di rifiuto della consegna.

La Corte di giustizia (sent. del 13 dicembre 2018, Sut, C-514/17; sent. del 29 giugno 2017, Poplawski, C-579/15) ha avuto modo di pronunciarsi di recente sul meccanismo previsto dall’art. 4, punto 6 della decisione quadro sul mandato di arresto Europeo, fissando alcuni importanti principi interpretativi.

In particolare, i Giudici di Lussemburgo hanno stabilito che il rifiuto di eseguire il mandato d’arresto Europeo nei confronti di una persona ricercata, che dimori nello Stato membro di esecuzione, che ne sia cittadina oppure che vi risieda, presuppone un "vero e proprio impegno" da parte dello Stato di esecuzione ad eseguire la pena privativa della libertà irrogata nei confronti della persona ricercata.

Pertanto, qualunque rifiuto di eseguire un mandato d’arresto Europeo deve essere preceduto dalla verifica, da parte dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione, della possibilità di eseguire "realmente" tale pena privativa della libertà conformemente al suo diritto interno, con la conseguenza che nel caso in cui lo Stato membro di esecuzione si trovi nell’impossibilità di impegnarsi ad eseguire effettivamente la suddetta pena, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione è tenuta ad eseguire il mandato d’arresto Europeo e, pertanto, a consegnare la persona ricercata allo Stato membro emittente.

Onde evitare che si vanifichi l’obiettivo di risocializzazione della persona condannata, che sta alla base del motivo di rifiuto in esame, secondo la Corte di Giustizia, spetta in ogni caso all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, la sola competente ad interpretare il diritto nazionale, di accertare - in presenza di un ostacolo normativo alla presa in carico della esecuzione della pena - se sia possibile nondimeno di eseguire effettivamente la pena privativa della libertà inflitta dallo Stato membro emittente nei confronti della persona oggetto del mandato d’arresto Europeo.

Da tale quadro emerge che lo Stato di esecuzione, là dove non sia in grado di assicurare, sulla base del proprio diritto interno, l’esecuzione della (stessa) pena oggetto del mandato di arresto Europeo, non può più avvalersi del motivo di rifiuto di cui all’art. 4, punto 6 citato. Invero, mentre l’esecuzione del mandato di arresto Europeo costituisce il principio, il rifiuto di esecuzione è concepito dalla Corte di Giustizia come un’eccezione che deve essere oggetto di interpretazione restrittiva (sent. del 19 settembre 2018, R O, C-327/18).
Viene ad avvalorare la conclusione che l’impegno deve avere ad oggetto la "stessa" pena inflitta dallo Stato di emissione l’uso dell’aggettivo ("tale") nell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, come anche nella L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r).

4. Quanto alla disciplina da applicare alla procedura volta alla esecuzione della pena, va rammentato che il vuoto normativo esistente nella decisione quadro 2002/584/GAI è stato colmato dalla successiva decisione quadro 2008/909/GAI del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione Europea.

Secondo l’art. 25 di tale decisione quadro, le sue disposizioni si applicano, mutatis mutandis, ovvero nella misura in cui sono compatibili con le disposizioni della decisione quadro sul mandato di arresto Europeo, all’esecuzione delle pene nel caso in cui uno Stato membro s’impegni ad eseguire la pena nei casi rientranti nell’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI.

Come chiarisce il considerando 12 della decisione quadro 2008/909/GAI, l’applicazione, mutatis mutandis, di tale decisione quadro all’esecuzione delle pene nei casi di cui all’art. 4, punto 6, cit. "significa tra l’altro che, fatta salva detta decisione quadro, lo Stato di esecuzione potrebbe verificare se esistano motivi di rifiuto di riconoscimento e di esecuzione ai sensi dell’art. 9 della presente decisione quadro".

A sua volta la Corte di giustizia ha stabilito che nessuna disposizione della decisione quadro 2008/909/GAI può pregiudicare la portata o le modalità di applicazione del motivo di non esecuzione facoltativa di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, in quanto le suddette disposizioni sono applicabili "soltanto nella misura in cui siano compatibili con le disposizioni di quest’ultima" (sent. del 13 dicembre 2018, Sut, C-514/17).

Sul piano interno, il D.Lgs. n. 161 del 2010, che ha dato attuazione alla decisione quadro 2008/909/GAI, ha previsto all’art. 24 che siano applicate "in quanto compatibili" le disposizioni contenute nel decreto legislativo anche per l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza nei casi di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r).

5. Esaminando le disposizioni contenute nella decisione quadro 2008/909/GAI e nel decreto legislativo citato, si rinvengono peraltro stringenti disposizioni quanto ai poteri dello Stato di esecuzione di adattamento della durata della pena da eseguire, nella fase che precede l’inizio della esecuzione della stessa.

Allo Stato di esecuzione è consentito infatti soltanto di ridurre la pena inflitta se questa sia superiore a quella massima edittale prevista dal suo ordinamento (art. 8, par. 2 decisione quadro; art. 10, comma 5 D.Lgs. cit.).
Lettura questa ribadita dalla Corte di Giustizia nella sentenza dell’8 novembre 2016, Ognyanov, C-554/14: "l’art. 8 della (..) decisione quadro stabilisce requisiti rigorosi per l’adeguamento, da parte dell’autorità competente dello Stato di esecuzione, della pena irrogata nello Stato di emissione, i quali costituiscono così le uniche eccezioni all’obbligo di principio, che grava su detta autorità, di riconoscere la sentenza che le è stata trasmessa e di eseguire la pena la cui durata e la cui natura corrispondono a quelle previste nella sentenza emessa in tale Stato di emissione".

La decisione quadro in ogni caso prevede che, laddove lo Stato di esecuzione sia in grado di effettuare soltanto un riconoscimento "parziale" della pena, prima di rifiutare il riconoscimento, lo stesso sia tenuto a consultarsi con lo Stato di emissione in modo da trovare un accordo, che se non raggiunto determina l’effetto del ritiro del certificato (art. 10 decisione quadro; art. 10, comma 5 D.Lgs. cit.).

Quindi, in sede di riconoscimento, oltre al limitato adattamento per ricondurre la durata della pena al massimo della penale edittale prevista dall’ordinamento nazionale per il reato oggetto della condanna da eseguire, non è consentito un unilaterale potere dello Stato di esecuzione di intervento sulla durata della pena, in quanto lo Stato di emissione mantiene la sua competenza per l’esecuzione di una pena fintantoché "l’esecuzione della pena nello Stato di esecuzione non sia iniziata" (art. 13 della decisione quadro).

Se queste sono le regole per il mutuo riconoscimento della sentenza da eseguire, la stessa decisione quadro 2008/909/GAI prevede che, una volta presa in carico l’esecuzione della pena, questa sia disciplinata dalla legislazione dello Stato di esecuzione (art. 17), le cui autorità sono le sole competenti a prendere le decisioni concernenti le modalità di esecuzione e a stabilire tutte le misure che ne conseguono, compresi i motivi per la liberazione anticipata o condizionale, nonché l’amnistia o la grazia (art. 19). A tal fine, peraltro, è previsto che lo Stato di emissione, su richiesta, sia informato dallo Stato di esecuzione sulle disposizioni applicabili in materia di liberazione anticipata o condizionale, in vista di una sua eventuale decisione di ritiro del certificato (art. 17, par. 3).

Una autorevole spiegazione della ratio della disciplina ora richiamata si rinviene nelle conclusioni del 3 maggio 2016 dell’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia nel caso Ognyanov, C-554/14: (§ 151) il sistema informativo previsto dalla decisione quadro 2008/909/GAI ha la funzione di rendere edotto lo Stato di emissione del fatto che l’esecuzione della pena nel territorio dello Stato di esecuzione apporterà una soluzione adeguata alla turbativa dell’ordine pubblico causata nel proprio territorio, consentendogli di valutare se la pena manterrà globalmente la coerenza che le era propria nel giorno della pronuncia e di decidere quindi - qualora ritenga che la pena non sia più proporzionata alla violazione - di non trasferire la persona condannata e di ritirare il certificato. (§ 152) La richiesta di informazione deve quindi avvenire "prima del trasferimento" della persona condannata, poiché, una volta effettuato il trasferimento, lo Stato di emissione non può più imporre la propria concezione delle misure di esecuzione delle pene e non può revocare la decisione di trasferimento.

6. Il D.Lgs. n. 161 del 2010, ha ripreso fedelmente le suddette previsioni, stabilendo (art. 16) che, una volta pronunciata la sentenza di riconoscimento, la pena sia eseguita secondo la legge italiana, venendo in applicazione anche le disposizioni in materia di amnistia, indulto e grazia; e che, "prima del trasferimento", il Ministero della giustizia deve informare lo Stato di emissione che "ne abbia fatto richiesta" delle disposizioni applicabili alla persona condannata in materia di liberazione anticipata, liberazione condizionale ed indulto.

7. Da quanto precede emerge che lo Stato di esecuzione, prima che sia iniziata l’esecuzione, non può unilateralmente - cioè senza l’accordo dello Stato di emissione - intervenire - anche solo parzialmente - sulla entità della pena inflitta nella sentenza da riconoscere, salvo il limitato adattamento di cui si è detto. Ciò vale anche per l’indulto la cui applicazione, prima che sia iniziata l’esecuzione, determinando un riconoscimento parziale della sentenza da eseguire, è comunque condizionata all’eventuale accordo dello Stato di condanna.

9. Va quindi chiarito come tale normativa venga in applicazione ai fini della decisione dello Stato di esecuzione di rifiutare la consegna ai sensi dell’art. 4, punto 6 della decisione 2002/584/GAI, posto che, come ha stabilito la Corte di Giustizia, tale prerogativa può essere esercitata solo se il predetto Stato sia in grado di impegnarsi ad eseguire "realmente" la pena oggetto del mandato di arresto Europeo e che le disposizioni contenute nella decisione 2008/909/GAI non possono condizionare la portata della medesima prerogativa.

Ebbene, esaminato in questa prospettiva il caso in esame, va constatato che la Corte di appello ha ritenuto sussistere tutte le condizioni per farsi luogo al riconoscimento ai fini esecutivi della sentenza di condanna oggetto del mandato di arresto Europeo, salvo per quanto riguarda la durata della pena, ridotta per l’effetto dell’applicazione dell’indulto.

Riduzione che, laddove sia condonato l’intero periodo di pena previsto dalla L. n. 241 del 2006, verrebbe ad incidere in modo consistente sulla pena da eseguire in Italia, con l’effetto di determinare l’impossibilità dell’autorità dello Stato italiano di impegnarsi ad una esecuzione effettiva della pena inflitta dalle autorità giudiziarie rumene nei confronti del ricorrente e quindi di esercitare il motivo di rifiuto della consegna.

Peraltro, in tale evenienza va verificato - in quanto compatibile con le finalità dell’art. 4, punto 6 della decisione quadro 2002/584/GAI (facilitare il reinserimento sociale della persona condannata) - se sia possibile trovare l’accordo dello Stato di emissione attraverso il meccanismo, previsto della decisione quadro 2008/909/GAI e dal decreto legislativo che vi ha dato attuazione, di preventiva interlocuzione.

La Corte di appello, in sede di rinvio, quindi una volta stabilita la concessione al consegnando del beneficio dell’indulto, è tenuta ad informare le autorità dello Stato di emissione, in funzione della consultazione di cui al D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 10, comma 3, ("Se la corte di appello ritiene di poter procedere al riconoscimento parziale, ne informa immediatamente, anche tramite il Ministero della giustizia, l’autorità competente dello Stato di emissione e concorda con questa le condizioni del riconoscimento e dell’esecuzione parziale, purché tali condizioni non comportino un aumento della durata della pena").

10. Va a questo punto anche chiarito quali siano le condizioni "concordabili" dalla Corte di appello e cosa accada nel caso che non si pervenga ad un accordo con lo Stato di emissione sulla durata della pena da eseguire.

La legge di conformazione n. 161 del 2010 si limita a prevedere quale unico limite al potere "negoziale" della Corte di appello quello di non aumentare la durata della pena inflitta dallo Stato di emissione.
In ogni caso, l’art. 1 del citato decreto legislativo stabilisce in via generale che l’adeguamento alla decisione quadro va attuato "nei limiti in cui tali disposizioni non sono incompatibili con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo".

Già questa Corte nel suo più alto Consesso (Sez. U, n. 36527 del 10/07/2008, Napoletano, Rv. 240399), pronunciandosi sull’applicabilità dell’indulto alle persone condannate all’estero e trasferite in Italia per l’espiazione della pena ai sensi della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, ha ritenuto che l’eventuale opzione interpretativa in senso negativo poteva indurre ad un rilievo d’incostituzionalità della legge di ratifica della citata Convenzione, in quanto veniva ad esporre il cittadino italiano condannato all’estero, che sia stato trasferito in Italia per l’esecuzione della condanna, ad un trattamento (irragionevolmente) deteriore rispetto agli altri detenuti, italiani e stranieri, i quali potrebbero beneficiare nella fase esecutiva della generalità degli istituti clemenziali e dei benefici previsti dalle rispettive legislazioni. E ciò nonostante lo scopo dichiarato del trasferimento del condannato che è quello di favorirne il reinserimento sociale nel Paese d’origine.

Le Sezioni Unite hanno a tal fine richiamato quanto affermato dal Giudice delle leggi (Corte Cost., sent. n. 73 del 2001) in ordine ad eventuali accordi tra Stati per il trasferimento di persone condannate all’estero, derogatori all’applicazione di istituti a tutela di diritti fondamentali della persona:

"a) lo Stato di condanna può potestativamente prestare o negare il consenso al trasferimento del condannato, quando ritenga che il regime legale dell’esecuzione penale nel potenziale Paese di esecuzione, rispettivamente, sia o non sostanzialmente equivalente a quello previsto dal proprio ordinamento e, perché possa prendere le proprie determinazioni con cognizione di causa, dev’essere informato circa i caratteri di tale regime nello Stato di esecuzione;

b) lo Stato di esecuzione, a sua volta, è vincolato alla natura giuridica e alla durata della sanzione, qual’é prevista nell’ordinamento dello Stato di condanna, "ma non al di là del limite superato il quale si determinerebbe una rottura del proprio ordinamento", essendo possibile per evitare tale conseguenza, in caso di disomogeneità degli ordinamenti, operare l’adattamento che la salvaguardia dei principi fondamentali di quello interno, in particolare le sue regole costituzionali, rende strettamente necessario;

c) è chiaramente esclusa, tuttavia, l’eventualità che il soggetto trasferito sia sottoposto a un vero e proprio regime di esecuzione speciale e personale, concernente i diritti, oltre che i doveri, che lo riguardano come detenuto".


Pertanto, è da escludere che l’eventuale accordo con lo Stato di emissione ai sensi dell’art. 10 D.Lgs. cit. possa comportare l’applicazione al condannato di un regime speciale di esecuzione (nella specie, negandogli in tutto o in parte l’applicazione dell’indulto). Va anche rammentato che l’applicazione dell’indulto è sottratta alla disponibilità delle parti, con la conseguenza che risulterebbe priva di valore una eventuale pattuizione da parte dello stesso condannato avente ad oggetto l’applicazione di tale beneficio (in tal senso, Sez. 3, n. 41875 del 09/10/2008, Poneti, Rv. 241411).

In tale prospettiva, non appare praticabile la soluzione prospettata dalla Corte di giustizia, secondo cui lo Stato di esecuzione, anche prescindendo dalle prerogative di rifiuto previste dalla decisione quadro 2008/909/GAI, sia tenuto a verificare se sia possibile comunque eseguire effettivamente la pena (sent. 3 dicembre 2018, Sut, cit.).

Se infatti l’interesse al reinserimento sociale della persona condannata si aggiunge a quello consistente nell’evitare che una pena detentiva non sia eseguita, così da rendere ancor più imperativa la ricerca da parte del giudice nazionale di un’interpretazione del suo diritto nazionale che consenta di dare piena attuazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, l’obbligo di interpretazione conforme "non può porsi a fondamento di un’interpretazione contra legem del diritto nazionale" (Corte di giustizia, sent. del 29 giugno 2017, Poplawski, cit.).

11. Non resta quindi che stabilire quale sia l’epilogo della procedura di consegna nel caso in cui lo Stato di emissione non sia d’accordo sulla esecuzione parziale della pena.

Mentre nella procedura disegnata dalla decisione quadro 2008/909/GAI, l’effetto previsto è quello del ritiro del certificato, nella procedura del mandato di arresto Europeo è quello in definitiva di non poter eseguire realmente la pena oggetto del mandato e quindi di non poter esercitare il motivo di rifiuto di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI.

Pertanto, una volta che la Corte di appello non ottenga il consenso da parte dell’autorità rumena, è tenuta ad eseguire la consegna, ricorrendone naturalmente gli altri presupposti previsti dalla L. n. 69 del 2005.
Si tratta evidentemente di una soluzione che viene a sacrificare l’obiettivo del motivo di rifiuto ora citato di facilitare il reinserimento sociale della persona condannata, in funzione peraltro dell’applicazione inderogabile di un beneficio clemenziale in sede di riconoscimento della sentenza oggetto del mandato di arresto Europeo.

In tale prospettiva, stante gli effetti derivanti dall’applicazione dei principi fissati dalla Corte di giustizia, appare opportuno che gli stessi Giudici di Lussemburgo si pronuncino espressamente sulla peculiare fattispecie in esame, nella quale si è in presenza di un parziale riconoscimento della pena detentiva da eseguire da parte dello Stato di esecuzione e nella quale la maggiore o minore tutela dell’interesse legittimo del cittadino italiano o del residente in Italia a poter scontare la pena in questo Stato viene di fatto a dipendere dalla scelta dello Stato di emissione di quale strumento attivare (mandato di arresto Europeo o certificato) per ottenerne l’esecuzione.

La questione non è tuttavia allo stato rilevante, prima della interlocuzione con lo Stato di emissione, e non legittima quindi la Corte di cassazione a far ricorso in questa sede allo strumento del rinvio pregiudiziale.

12. Tirando le fila del discorso, alla luce delle considerazioni che precedono, dall’errore di diritto rilevato al paragrafo 2 del considerando in diritto consegue l’annullamento della sentenza impugnato con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia che, nel valutare l’applicabilità dell’indulto nella misura prevista dalla L. n. 241 del 2006, si atterrà ai principi sopra indicati in tema di esercizio del motivo di rifiuto previsto dalla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.