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Imputato detenuto ha sempre diritto di partecipare al suo processo (Cass. 37483/06)

14 novembre 2006, Cassazione penale

Nell'ottica di un processo a carattere accusatorio, la partecipazione dell'imputato al "suo" processo è condizione indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione; essa afferisce al fondamentale diritto di difesa (autodifesa) e non è perciò confiscabile, nulla, peraltro, ostando a che, come altri diritti, anche questo possa essere semmai oggetto di rinuncia da parte del titolare dello stesso, in presenza di non equivoca manifestazione di volontà abdicativa in tal senso.

Ove il giudice accerti la sussistenza di un legittimo impedimento dell'imputato a comparire, e la mancanza di una sua dichiarazione di volontà che il processo si svolga in sua assenza, tanto dà di per sé contezza della mancanza di un atto di rinuncia dell'imputato medesimo al suo diritto di autodifesa, che preclude la dichiarazione di contumacia, in tale contesto non è ravvisabile, né proponibile, alcun onere (normativamente non previsto affatto) di previa comunicazione da parte dell'imputato del suo legittimo impedimento: ciò che decisivamente rileva, infatti, è solo che questo sussista - come tale conosciuto dal giudice - e che manchi una manifestazione di volontà abdicativa di quel diritto da parte del suo titolare, dovendo a quel punto il giudice prendere atto della insussistenza delle condizioni legittimanti una dichiarazione di contumacia

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 26 settembre 2006 - 14 novembre 2006, n. 37483

(Presidente G. Lattanzi, Relatore F. Marzano)

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Giovanni Palombarini, che ha concluso per l'annullamento del provvedimento impugnato, nonchè del provvedimento del 19.1.1996 del Tribunale di Vicenza, con rinvio al giudice di primo grado per nuovo giudizio;

Non comparso il difensore del ricorrente;

osserva:

Motivi della decisione

1.0 Il 10 dicembre 2004 la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza in data 19 gennaio 1996 del Tribunale di Vicenza - che aveva condannato F. A. a pena ritenuta di giustizia per imputazione di cui agli artt. 110, 453, n. 4, 458 c.p. - riqualificava il reato ai sensi degli artt. 455 e 458 c.p., ritenendo non comprovato il previo concerto con gli autori della falsificazione; riduceva, conseguentemente, la pena inflitta dal primo giudice e confermava nel resto.

Nel pervenire alla resa statuizione, i giudici dell'appello rigettavano, tra l'altro, una eccezione difensiva con la quale si era dedotta la nullità dell'ordinanza resa in primo grado all'udienza del 19 gennaio 1996, reiettiva della istanza di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento dell'imputato, detenuto per altra causa e per il quale non era stata disposta la traduzione in udienza. Rilevavano che l'imputato era stato presente in precedenti udienze; che il 6 ottobre 1995 la sua posizione era stata stralciata ed il processo rinviato all'udienza del 19 gennaio 1996; che nel frattempo era stata disposta la sua carcerazione per altro titolo di reato ed il 23 dicembre 1995 era stata disposta la detenzione in semiliberta, con fine pena al 15 febbraio 1996; che "quanto meno a partire dal 23.12.1995 l'A. sapeva che in occasione dell'udienza fissata per il 19.1.96 egli si sarebbe trovato in stato detentivo"; che "solo il giorno 10.1.1996, ben 18 giorni dopo e solo 8 giorni prima dell'udienza", egli aveva richiesto al magistrato di sorveglianza la "concessione del permesso-premio al fine di presenziare alla suddetta udienza", omettendo di "far pervenire con qualche anticipo comunicazione della sua attuale detenzione al Tribunale di Vicenza" e limitandosi "a comunicare tale circostanza - tramite il suo difensore - il giorno stesso dell'udienza 19.1.1996".

Riteneva la Corte territoriale - richiamando arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte - che "esiste una sorta di onere a carico dell'imputato-detenuto di attivarsi al fine di essere presente all'udienza che lo riguarda: la mancata concessione del permesso premio da parte del magistrato di sorveglianza competente, investito della questione solo otto giorni prima dell'udienza, e, oltretutto, la mancata comunicazione della detenzione dell'imputato al Tribunale di Vicenza con un qualche anticipo rispetto all'udienza in questione, dimostrano l'insufficienza dell'attività posta in essere dallo stesso imputato...".

2.0 Avverso tale sentenza ha proposto personalmente ricorso l'imputato, con un unico motivo di doglianza deducendo che illegittimamente il primo giudice ne aveva dichiarato la contumacia, "nonostante la tempestiva eccezione difensiva finalizzata alla traduzione dell'imputato detenuto per altra causa ovvero al rinvio del giudizio". Rileva che egli certamente versava in una situazione di legittimo impedimento e che "solo la mancata conoscenza dello stato di detenzione può giustificare il giudizio contumaciale", essendo stato assolto da parte sua "l'obbligo ... di allegazione e di eccezione".

3.0 Il ricorso veniva assegnato alla quinta Sezione penale, la quale, con ordinanza resa all'udienza del 6 aprile 2006, ne disponeva la rimessione a queste Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p..

Rilevava la Sezione remittente che sul punto era insorto un contrasto nella giurisprudenza di questa Suprema Corte: un primo orientamento ha, infatti, ritenuto che, salva l'ipotesi di carcerazione (ovviamente in diverso procedimento) avvenuta a ridosso immediato dell'udienza, l'imputato ha l'onere di segnalare tempestivamente il suo stato di detenzione e la sua volontà di partecipare al processo, sicché in difetto di tempestiva segnalazione non sussiste per il giudice, venuto poi a conoscenza dell'impedimento, l'obbligo di rinviare la trattazione del processo al fine di disporre la traduzione dell'imputato medesimo. L'opposto indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto, invece, la insussistenza di un siffatto onere a carico dell'imputato, rilevando solo l'accertato assoluto impedimento dello stesso a comparire.

4.0 Il Primo Presidente ha fissata l'odierna udienza per la trattazione del ricorso.

5.0 La questione sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite può così sintetizzarsi: "se la detenzione per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integri un legittimo impedimento a comparire dell'imputato (preclusivo del giudizio contumaciale), anche nel caso in cui egli avrebbe potuto comunicare al giudice il sopravvenuto stato di detenzione, in tempo utile per consentirne la traduzione".

5.1 Come richiama l'ordinanza della sezione remittente, si è al riguardo determinato un contrasto nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, insorto già sotto il vigore del previgente codice di procedura penale del 1930, protrattosi poi pur dopo l'entrata in vigore dell'attuale codice di rito.

Un primo indirizzo, infatti, sotto il vigore del previgente testo normativo del 1930 ha ritenuto legittima la declaratoria di contumacia dell'imputato detenuto per altra causa quando l'impedimento a comparire sia imputabile a sua condotta che non abbia reso possibile la tempestiva traduzione in udienza (Cass., Sez. 11, 11.7.1988, n. 4682/1990), chiarendosi che quando il giudice non ha conoscenza dello stato detentivo dell'imputato, e non ha perciò potuto provvedere alla sua tempestiva traduzione, l'imputato medesimo ha l'onere di informarlo, e se a tanto non adempie non può addurre l'esistenza di un assoluto impedimento (Cass., Sez. 1, 6.3.1989, n. 7064). S'è ulteriormente chiarito che "un tale onere non risulta legislativamente imposto ma rientra certamente fra i principi intesi ad un sollecito svolgimento del processo..." (Cass., Sez. VI, 29.1.1987, n. 5299).

Tale indirizzo è stato confermato nel vigore dell'attuale disciplina codicistica (Sez. IV, 13.7.2005, n. 36916; Sez. IV, 29.9.2003, n. 46001; Sez. VI, 4.4.2000, n. 5689; Sez. III, 28.4.2000, n. 7161; Sez. I, 26.1.2001, n. 12927; Sez. I, 3.3.1998, n. 4230; Sez. IV, 4.2.1997, n. 2119). In particolare, la prima di tali decisioni, ribadendo, consapevole del contrasto, che "esiste un onere dell'imputato di segnalare tempestivamente lo stato di detenzione (ovviamente quando si tratti di diverso procedimento) e la sua volontà di partecipazione al processo", rileva che il diverso orientamento "fa leva sul dato formale dell'esistenza di un onere di tempestiva comunicazione dell'impedimento per il solo difensore ... per dedurne l'inesistenza di un analogo onere a carico dell'imputato"; laddove, "trattandosi, se esistente, non di nullità assoluta (perché non riguarda l'omessa citazione ma l'intervento dell'imputato) bensì di nullità a regime intermedio risulta ... applicabile la disciplina di carattere generale sulla deducibilità delle nullità (art. 182, comma 1, c.p.p.) che esclude che le nullità possano essere dedotte da chi vi ha dato o ha concorso a darvi causa; nella specie con la mancata tempestiva segnalazione dell'impedimento sopravvenuto in altro procedimento". Tale principio è temperato dall'assunto che "solo se la detenzione sopravviene a ridosso immediato dell'udienza può ammettersi che la comunicazione avvenga direttamente in udienza anche attraverso il difensore, purché risulti circostanziata e riferisca la volontà dell'imputato di essere presente al dibattimento. L'inosservanza di tale obbligo di diligenza rende legittima l'ordinanza contumaciale" (Sez. III, 28.4.2000, n. 7161, cit.).

5.2 L'opposto indirizzo è stato pur esso ripetutamente espresso sotto il vigore del previgente codice del 1930, affermandosi che il sopravvenuto stato di detenzione per altra causa dell'imputato, cui sia stato ritualmente notificato in stato di libertà il decreto di citazione a giudizio, non seguito dall'ordine di traduzione in udienza, è causa di legittimo impedimento preclusivo della dichiarazione di contumacia, quando lo stato di detenzione sia stato portato a conoscenza del giudice prima della sentenza (Sez. V, 7.10.1980, n. 12075; Sez. I, 22.10.1981, n. 312; Sez. I, 26.4.1983, n. 3634; Sez. I, 27.9.1984, n. 10810). S'è chiarito che non può ritenersi sussistente a carico dell'imputato, regolarmente citato a comparire in stato di libertà, l'onere di richiedere la sua traduzione in udienza qualora, successivamente alla notifica del decreto di citazione a giudizio ma prima dell'udienza fissata per il dibattimento, venga posto in stato di detenzione per altra causa, sicché in tale ipotesi il giudice non può legittimamente dichiararne la contumacia, deve disporne la traduzione in udienza (Sez. I, 12.4.1985, n. 6994; Sez. I 29.9.1987, n. 13074; Sez. V, 1.2.1979, n. 2622).

Tale orientamento è stato ribadito sotto il vigore della vigente disciplina codicistica (Sez. II, 24.1.2003, n. 6490; Sez. II, 7.11.2002, n. 41252; Sez. I, 13.2.2001, n. 13593; Sez. VI, 28.3.2000, n. 5776; Sez. VI, 25.6.1999, n. 9446; Sez. I, 4.12.1997, n. 738/1998; Sez. I, 10.3.1997, n. 5989; Sez. I, 23.9.1994, n. 11193; Sez. VI, 24.9.1993, n. 10413; Sez. I, 24.6.1992, n. 9721; Sez. IV. 14.2.1991, n. 5834; Sez. IV, 18.10.1990, n. 13715). Si è, in tale contesto, affermato che "solo la mancata conoscenza dello stato di detenzione dell'imputato, con la conseguente impossibilità di disporne la traduzione, può legittimare un giudizio contumaciale", "né (l'imputato), avendolo fatto il suo difensore, ha l'onere di comunicare tempestivamente il suo stato onde consentire una tempestiva sua traduzione all'udienza fissata, in quanto ciò non è previsto da alcuna norma" (Sez. VI, 10.3.1997, n. 5989). S'è specificato che l'art. 486.5 c.p.p. "conferisce rilievo al legittimo impedimento del difensore solo se tempestivamente comunicato, mentre nessun onere di preventiva e sollecita comunicazione è imposto all'imputato dalle disposizioni dei commi 1 e 3 dello stesso articolo, le quali subordinano la rilevanza dell'assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento alla sola condizione che questo risulti obiettivamente accertato"; e s'è soggiunto che "alla valenza interpretativa di tale argumentum a contrario si aggiunge il chiaro disposto dell'art. 587 (rectius: 487), IV comma, c.p.p., secondo cui 'l'ordinanza dichiarativa della contumacia è nulla se al momento della pronuncia vi è la prova che l'assenza dell'imputato è dovuta ... ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore od altro legittimo impedimento, dal che deve trarsi che la nullità della dichiarazione di contumacia è determinata dalla coeva esistenza della prova, comunque acquisita, dell'impedimento dell'imputato, ancorché non da costui tempestivamente comunicato", e la omessa comunicazione da parte dell'imputato all'autorità giudiziaria del suo sopravvenuto stato detentivo costituendo una "facoltà, ma non ... obbligo od onere di fare" (Sez. I, 4.12.1997 n. 738, cit.).

6.0 Alla proposta questione, come sopra riassunta, queste Sezioni Unite ritengono di dover dare risposta affermativa, per le ragioni normative e sistematiche di seguito indicate.

7.0 Giova, invero, premettere, sotto un profilo di ordine generale, che la contumacia (dal più verosimile etimo contemnere: "non tenere in conto, non curarsi, disprezzare"), ora disciplinata dall'art. 420-quater c.p.p., connota una situazione processuale caratterizzata dalla condotta dell'imputato che, sebbene regolarmente citato in giudizio, non vi compaia, senza giustificare un legittimo impedimento. Gli elementi costitutivi di tale situazione processuale sono stati tradizionalmente individuati in: a) un fatto giuridico positivo, la sussistenza di una regolare vocatio in iudicium; b) un atto giuridico negativo, la mancata comparizione; c) un atto giuridico negativo (la mancata prova), che si ricollega ad un fatto negativo (mancanza dell' impedimento).

Vieppiù, nell'ottica di un processo a carattere accusatorio, la partecipazione dell'imputato al "suo" processo è condizione indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione; essa afferisce al fondamentale diritto di difesa (autodifesa) e non è perciò confiscabile, nulla, peraltro, ostando a che, come altri diritti, anche questo possa essere semmai oggetto di rinuncia da parte del titolare dello stesso, in presenza di non equivoca manifestazione di volontà abdicativa in tal senso. Il processo contumaciale si caratterizza, quindi, come situazione eccezionalmente derogatoria alla regola generale, che in tanto può legittimamente determinarsi in quanto il giudice accerti la sussistenza di quegli elementi costitutivi suindicati. Ne consegue, tra l'altro, che le relative norme sono di stretta interpretazione e non possono diversamente trovare analogica applicazione in situazioni non normativamente prefigurate.

7.1 La dottrina ha da tempo posto in rilievo le connotazioni innovative dell'istituto rispetto alla sua disciplina originaria dettata nel previgente codice di rito (emblematicamente evocando, tra l'altro, il disposto degli artt. 497.3, 498.3 c.p.p. del 1930) e ricordato come anche la legge 23 gennaio 1989, n. 22 (di poco posteriore alla promulgazione del nuovo codice, avvenuta con D.P.R. 22.9.1988, n. 447, G.U. 24 ottobre 1988, suppl. ord.), contenesse rilevanti novità in riferimento alla regolamentazione dell'istituto, le cui origini devono ritenersi collegate anche ai vincolanti contenuti di accordi pattizi internazionali, che, per vero, assumono rilevanza decisiva nella questione che occupa, come di seguito si chiarirà.

L'art. 111 Cost., come novellato dall'art. 1 L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2, ha ora costituzionalizzato il principio del "giusto processo", tra l'altro statuendo che "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti" e la legge assicura che la persona accusata "abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo". E' del tutto evidente che l'esercizio di tali facoltà postula la piena espansione del diritto di autodifesa, che solo la presenza della parte nel processo è in grado di assicurare; diritto che può essere oggetto di volontaria rinuncia, mediante un prestato assenso al giudizio in absentia, giammai di atti confiscatori in mancanza di quest'ultimo.

L'art. 175.2 c.p.p., in tema di restituzione nel termine, come novellato dalla L. 22 aprile 2005, n. 60, di conversione del D.L. 21 febbraio 2005, n. 17, reca ora che, "se è stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, l'imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione". Ed ancora, quindi, ciò che rileva, ai fini di tale istituto, è la circostanza che l'imputato, pur avendo avuto effettiva conoscenza del procedimento, abbia o meno "volontariamente rinunciato a comparire".

Il giudizio in absentia, dunque, per poter esplicare appieno i suoi effetti processuali, impone che venga preservato il diritto dell'imputato ad essere presente in udienza, salvo un suo espresso o non equivoco atto di rinuncia in tal senso.

8.0 Ma è anche sul versante delle norme pattizie internazionali che il principio trova indefettibile affermazione.

La legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 (replicando quanto già contenuto nell'art. 2 della legge delega 3 aprile 1974, n. 108), stabiliva, all'art. 2, che "il codice di procedura penale deve ... adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale ...".

Le Sezioni Unite civili di questa Suprema Corte, nel prendere in esame l'efficacia nell'ordinamento interno delle nome della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, hanno riconosciuto la natura immediatamente precettiva e la posizione sovraordinata delle nome convenzionali, così sancendo anche l'obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna che sia in contrasto con la noma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (cfr. Cass., Sez. Un. civili, 23.12.2005, n. 28508, e la giurisprudenza ivi richiamata). Dal canto suo, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha più volte sottolineato che, con lo strumento convenzionale, le parti non si sono limitate ad assumere reciprocamente una serie di obblighi, ma hanno istituito un sistema di garanzia collettiva di alcuni diritti e libertà fondamentali (CEDU, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, 87; id., 25 marzo 1995, Loizidou c. Turchia, 70), costituito da norme che hanno "vocazione" a spiegare i propri effetti negli ordinamenti interni dei singoli Stati e - come si annota in dottrina - "raggiungono direttamente gli individui ..., divenendo effettive ed operanti nel momento della loro formazione", quindi "senza l'intervento dei sistemi giuridici interni".

E' vero che, nonostante l'autorevole decisione delle Sezioni Unite, sul potere del giudice di disapplicare le norme interne in conflitto con quelle della Convenzione, la giurisprudenza continua ad essere contrastante (v. Cass. civ., m. 12810/2006, 11887/2006), e però nel caso in esame l'art. 6.3 della Convenzione europea viene in rilievo non per disapplicare la legge interna, ma solo per interpretarla e a questo scopo non è dubbio che la nonna convenzionale costituisca un riferimento decisivo.

8.1 L'art. 6.3, lett. e), d) ed e), della testé citata Convenzione prescrive, tra l'altro, che "ogni accusato ha più specialmente diritto... a c) difendersi da sé o avere l'assistenza di un difensore di propria scelta..."; d) "interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico"; e) "farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata in udienza".

Il Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo con L. 25 ottobre 1977, n. 881, ed entrato in vigore per l'Italia il 15 dicembre 1978) reca, nel suo art. 14.3, lett. d), e) ed f), che "ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza ... d) ad essere presente al processo ed a difendersi personalmente o mediante un difensore di sua scelta..."; " e) a interrogare o far interrogare i testimoni a carico e ad ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico"; "f) a farsi assistere gratuitamente da un interprete, nel caso in cui egli non comprenda o non parli la lingua usata in udienza".

Possono, in tale contesto, ricordarsi anche le nove "regole minime" raccomandate ai governi dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, con la Risoluzione n. 11 del 21 maggio 1975, che prescrivono garanzie per l'imputato assente nel processo, "salvo che si sia accertato che egli si è sottratto volontariamente alla giustizia".

8.2 Nel delibare il contenuto e la portata dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il Giudice di Strasburgo ha avuto modo di rilevare (sentenza anche sentenza 12 febbraio 1985, Colozza c. Italia, Serie A, n. 89; n. 67972/01, Somogyi; 10.11.2004, 56581/00, Seydovic; in tale contesto può ricordarsi anche il parere 27.7.1999 del Comitato dei diritti umani dell'O.N.U., Malaki) che "la facoltà per l'accusato di prendere parte all'udienza discende dall'oggetto e dalla ratio dell'insieme dell'articolo.

Del resto, gli alinea c), d) ed e) del paragrafo 3 riconoscono ad "ogni persona accusata" il diritto di "difendersi personalmente", "esaminare o far esaminare i testimoni" e "farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza", cose che non si concepiscono senza la sua presenza". Ha, quindi, rilevato che "né la lettera né la ratio dell'art. 6 della Convenzione impediscono ad una persona di rinunciare volontariamente alle garanzie di un processo equo in maniera espressa o tacita, ma tale rinuncia deve essere non equivoca e non deve porsi in conflitto con alcun interesse pubblico significativo", e nel caso preso in esame ha considerato: "anche a supporre che il ricorrente fosse indirettamente al corrente dell'apertura di un processo penale a suo carico, non è possibile concludere che egli ha rinunciato in maniera non equivoca al suo diritto a comparire all'udienza",

8.3 Dall'esame delle norme interne e pattizie teste richiamate, anche alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza interna ed europea, si deve, dunque, inferire che il sistema, in sostanza, è improntato al principio -che va qui affermato ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p. - che:

a) la conoscenza di un legittimo impedimento preclude la dichiarazione di contumacia, e solo ove l'imputato impedito esplicitamente consenta che l'udienza avvenga in sua assenza, o, se detenuto, rifiuti di assistervi, trova applicazione l'istituto dell'assenza, ai sensi dell'art. 420- quinquies c.p.p..

b) costituisce legittimo impedimento la detenzione dell'imputato per altra causa anche nel caso in cui questi avrebbe potuto comunicare al giudice la sua condizione in tempo utile per consentirne la traduzione.

E dunque, la accertata presenza di un legittimo impedimento, del quale il giudice sia comunque cognito, in mancanza di qualsivoglia dichiarazione di rinuncia, non sortisce, evidentemente, alcun effetto abdicativo, ed in mancanza di un atto di tal genere la dichiarazione di contumacia è illegittimamente resa.

8.4 Posto, quindi, che, ove il giudice accerti la sussistenza di un legittimo impedimento dell'imputato a comparire, e la mancanza di una sua dichiarazione di volontà che il processo si svolga in sua assenza, tanto dà di per sé contezza della mancanza di un atto di rinuncia dell'imputato medesimo al suo diritto di autodifesa, che preclude la dichiarazione di contumacia ai sensi dell'art. 420-quater c.p.p., in tale contesto non è ravvisabile, né proponibile, alcun onere (normativamente non previsto affatto) di previa comunicazione da parte dell'imputato del suo legittimo impedimento: ciò che decisivamente rileva, infatti, è solo che questo sussista - come tale conosciuto dal giudice - e che manchi una manifestazione di volontà abdicativa di quel diritto da parte del suo titolare, dovendo a quel punto il giudice prendere atto della insussistenza delle condizioni legittimanti una dichiarazione di contumacia. D'altronde, espressamente reca il quarto comma del precitato art. 420-quater c.p.p. che l'ordinanza dichiarativa di contumacia è nulla "se al momento della pronuncia" (quali che, quindi, siano le pregresse evenienze) risulti l'impossibilità dell'imputato di comparire per caso fortuito, forza maggiore od altro legittimo impedimento. Un onere di "prontamente" comunicare il proprio impedimento è imposto solo al difensore (art. 420-ter.5 c.p.p.), ma è di tutta evidenza come la norma riguardi tutt'altra materia, quella della difesa tecnica nel processo (che può comunque essere assicurata con la nomina di un difensore di ufficio), non quella della autodifesa, indelegabile e non confiscabile.

9.0 Nel caso di specie, il giudice del merito era stato reso edotto del legittimo impedimento dell'imputato a comparire e della mancanza di una dichiarazione di volontà di procedersi in sua assenza; ed a quel punto, a quel momento, avrebbe dovuto ritenere la insussistenza di condizioni legittimatrici della dichiarazione di contumacia, perciò illegittimamente resa. Il giudice dell'appello, a sua volta, avrebbe dovuto rilevare quella nullità, verificatasi nel giudizio di primo grado e, dichiaratala con sentenza, rinviare gli atti al giudice che procedeva quando si era verificata quella nullità, ai sensi dell'art. 604.4 c.p.p..

10.0 Deve, quindi, disporsi l'annullamento della sentenza impugnata e di quella di primo grado, resa il 19 gennaio 1996 dal Tribunale di Vicenza, con rinvio a quest'ultimo per nuovo giudizio.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata e quella del Tribunale di Vicenza in data 19 gennaio 1996, con rinvio al Tribunale di Vicenza per nuovo giudizio.

Roma, 26 settembre 2006.

Il Componente estensore.

Il Presidente.

Depositato in Cancelleria, 14 novembre 2006.