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Giurisdizione italiana su traffico di armi estero (Cass. 19762/20)

1 luglio 2020, Cassazione penale

La verifica della giurisdizione, che precede logicamente ogni altro tipo di indagine rimesso alla cognizione del giudice, ha carattere dinamico: ma tale natura dinamica non può essere interpretata nel senso di una 'precarietà dimostrativa' degli elementi di fatto da cui inferire, nel momento iniziale della procedura, l'attribuzione del potere di esercitare la giurisdizione.

Se nella fase iniziale del procedimento gli elementi di fatto acquisiti svelino - quanto al rapporto con la regola normativa attributiva della giurisdizione - ambiguità o debolezza dimostrativa intrinseca, non appare possibile la prosecuzione della procedura al fine di 'rafforzare' il dato probatorio, mancando - all'evidenza - il primo presupposto che governa anche la fase prodromica delle indagini preliminari, rappresentato dalla esistenza - in termini di certezza - del potere dell'autorità giudiziaria di prendere cognizione del fatto.

La verifica della esistenza del potere giurisdizionale per effetto di una convenzione internazionale (qui: Convenzione di Palermo con relativi protocolli addizionali) non può prescindere dalla analisi del testo della Convenzione e della posteriore legge interna di ratifica ed esecuzione.

In tema di giurisdizione su reati commessi all'estero, in assenza dì un fondamento normativo, anche di diritto internazionale, idoneo a derogare al principio di territorialità, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano su reati commessi dallo straniero in danno di straniero e interamente consumati nel territorio di uno Stato estero, seppure connessi con reati commessi in Italia.

Un ordine di esecuzione produce implicitamente tutte le norme interne necessarie perché lo Stato possa adempiere, sul piano internazionale, agli obblighi convenzionalmente assunti, ma anche le sole norme interne strettamente indispensabili a tale scopo. Ma sono oggetto di ricezione nell'ordinamento interno, in virtù del semplice ordine di esecuzione, solo le disposizioni che, per come formulate nel Trattato, realizzano condizioni autoapplicative, configurando obblighi e non necessitando di altro adempimento intermedio.

Per il  delitto comune dello straniero all'estero, la punibilità (e dunque l'interesse dello Stato ad esercitare l'azione penale) è condizionata al fatto che il colpevole 'si trovi nel territorio dello Stato': la presenza, non altrimenti connotata dal legislatore, può anche essere transitoria e occasionale e non necessariamente deve porsi come indicativa di un effettivo 'radicamento' del soggetto sul territorio nazionale. 

Corte Suprema di Cassazione

Sez. 1 Num. 19762 Anno 2020 Presidente: SIANI VINCENZO
Relatore: MAGI RAFFAELLO
Data Udienza: 17/06/2020 - dep. 1/07/2020

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
TY nato il **/65

avverso l'ordinanza del 17/02/2020 del TRIB. LIBERTA' di GENOVA

udita la relazione svolta dal Consigliere RAFFAELLO MAGI;

lette/sentite le conclusioni del PG GIUSEPPINA CASELLA ,(omissis)

 RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Genova - costituito ai sensi dell'art.309 cod. proc .pen. - con ordinanza del 6 marzo 2020 ha confermato l'ordinanza emessa dal GIP della medesima sede con cui è stata applicata nei confronti di YT nato in ** il ** 65, la misura cautelare della custodia in carcere per i seguenti reati:

A) artt. 110 cod. pen., 25 legge n. 185 del 1990; in Libano e Libia: concorso in illecita attività di importazione, esportazione e transito di materiali di armamento; nel gennaio 2020, accertato in Genova, il 3 febbraìo 2020;

B) artt. 110 cod. pen., 1, 2, 4, secondo comma, legge n. 895 del 1967: concorso nell'attività illegale di detenzione e porto, prima in acque internazionali, poi in Libia, di carri armati, automezzi con lanciarazzi, mitragliatrici, esplosivi e altri armamenti, con loro successiva cessione, in Tripoli, a persone non identificate; in Libano e Libia, nel gennaio 2020, accertati in Genova, il 3 febbraio 2020.

2. Vanno esaminati, in sintesi, tanto la decisione genetica che quella del Tribunale.

2.1. Il titolo genetico. Gli elementi di fatto acquisiti durante le indagini hanno consentito di affermare, in tesi di accusa, che:

a) la motonave Bana, battente bandiera libanese, comandata dal T, dopo essere partita da Beirut il 21 gennaio 2020, ha fatto scalo, non previsto dal piano di navigazione, nel porto turco di Mersin. Qui ha imbarcato materiali di armamento (carri armati, mezzi cingolati attrezzati con lanciarazzi e mitragliatrici, containers contenenti esplosivi) unitamente a una decina di militari turchi;

b) scortata da due navi da guerra turche, la motonave Bana si è diretta verso la Libia, anche qui con variazione del piano di navigazione, e, simulando una avaria, ha scaricato i materiali bellici nel porto di Tripoli, sotto il controllo di militari libici e turchi. Nel percorso di avvicinamento a Tripoli è stato disinserito il sistema di rilevamento AIS;

c) nel corso del viaggio, uno degli ufficiali di bordo, XY, dissociandosi dalla condotta tenuta dal comandante, ha chiesto spiegazioni su quanto accadeva e scattato alcune foto degli armamenti trasportati. La nave, ripartita senza carico da Tripoli, ha fatto scalo nel porto di Genova e qui XY ha chiesto di conferire con gli inquirenti, presentando anche richiesta di asilo politico.

Dai contenuti narrativi resi da XY si è appreso, altresì, che alcuni marittimi erano a conoscenza del traffico di armi, perché la nave aveva effettuato trasporti analoghi in precedenza, mentre altri ne erano all'oscuro. Quanto alla rotta tenuta dalla Turchia alla Libia, XY ipotizzava il transito della nave in acque territoriali italiane e mostrava un messaggio pubblicitario ricevuto in lingua italiana in data 25 gennaio alle 8.53 dal gestore di rete Wind. Le affermazioni rese da XY hanno trovato conferma, in fatto, in dichiarazioni convergenti rese da altri marittimi e in attività investigative riportate nel titolo genetico da pagina 3 a pagina 7.

Si evidenzia, in particolare, che la motonave ha fatto scalo a Genova in tre precedenti occasioni, sempre vuota, ripartendo con carico di automobili, esiguo, con destinazione Libia.

2.2. Ciò posto, secondo i contenuti del titolo genetico è applicabile al caso oggetto di esame la previsione incriminatrice di cui all'art. 25 della legge n.185 del 1990, che di seguito si riporta: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, colui che senza l'autorizzazione di cui agli articoli 10-bis e 13 effettua esportazione, importazione, trasferimenti intracomunitari, transito, intermediazione, cessione delle licenze di produzione e delocalizzazione produttiva di materiali di armamento, nonché trasferimenti intangibili di software e di tecnologia, contemplati nei decreti di cui all'articolo 2, comma 3, è punito con la reclusione da tre a dodici anni ovvero con la multa da euro 25.822 a euro 258.228".

Si afferma, in particolare, che tanto le Nazioni Unite che L'Unione Europea hanno decretato l'embargo delle forniture belliche verso la Libia, in ciò concretizzandosi il particolare divieto di cui all'art.1 co.6 lett. c della medesima legge.

Si compie riferimento ai contenuti nomofilattici di Sez. I n. 39992 del 2009 secondo cui la disposizione di cui al co.1 dell'art. 25 configura un reato comune. Si ritiene altresì configurabile il reato di cui agli artt.1 e 4 della legge sulle armi n.895 del 1967 in relazione alla cessione e al porto delle armi da guerra, non assorbito dalla disposizione concorrente.

2.3. Quanto al tema della giurisdizione, il GIP ritiene che la condotta possa essere oggetto della cognizione giurisdizionale italiana. Una prima ipotesi, sul punto, è quella di un - sia pur temporaneo - transito della motonave Bana in acque territoriali italiane, lungo la rotta seguita dalla Turchia alla Libia. Ciò renderebbe sussistente la giurisdizione italiana - in quanto Stato costiero - in virtù di quanto previsto dall'art.6 co.2 cod. pen. Tuttavia tale ipotesi, secondo il GIP, formulata esclusivamente sul dato storico della avvenuta ricezione del messaggio sul cellulare di XY, 'non ha trovato conferme, non essendo stati segnalati sconfinamenti e non risultando che la rotta per raggiungere Tripoli, come ricostruita, pur con le significative lacune dei rilievi AIS, abbia interessato le nostre acque territoriali'. Si afferma dunque che, pur se la condotta risultasse compiuta interamente in territorio estero (Libano, Turchia, Libia), vi sarebbe comunque il radicamento della giurisdizione italiana in virtù di quanto previsto in via generale dall'art. 7 co.1 n.5 cod. pen. (quanto alla punibilità di reati commessi all'estero) in rapporto ai contenuti dalla Convenzione ONU di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale del 15 novembre 2000 (ratificata dall'Italia con legge n. 146 del 16 marzo 2006 ed entrata in vigore sul piano internazionale in data 1° settembre 2006), con particolare riferimento al III Protocollo Addizionale in tema di prevenzione e repressione del traffico di armi. Si compie riferimento, in particolare, al contenuto dell'art.15 par. 4 della Convenzione, lì dove si consente la adozione, in presenza di un reato previsto dalla Convenzione, di 'misure necessarie per stabilire la sua giurisdizione' anche per reato commesso integralmente all'estero, 'quando il presunto autore si trova sul suo territorio ed esso non Io estrada' . Tale sarebbe la condizione verificatasi nel presente procedimento.

2.4. Si ritiene, inoltre, che la giurisdizione vada affermata anche in riferimento alla natura di delitto politico commesso dallo straniero all'estero, ai sensi dell'art. 8 cod. pen., essendo intervenuta richiesta di procedimento del Ministro della Giustizia in data 11 febbraio 2020. La natura, anche in parte, politica del reato è, in tale ipotesi, da ricollegarsi alla volontà di sostenere, tramite la consegna delle armi, una delle fazioni in lotta sul territorio libico. Ed ancora, risulterebbe applicabile, in alternativa, l'art.10 cod. pen. per il delitto comune dello straniero all'estero, ricorrendo le condizioni di legge (la presenza del presunto autore nel territorio dello stato, la richiesta del Ministro, i limiti edittali di pena e la mancata estradizione).

0-1-( Vengono inoltre ravvisate tutte le esigenze cautelari di cui all'art.274 cod. proc. pen., con adeguatezza della sola custodia in carcere.

3. Il provvedimento del Tribunale.

3.1. Il Tribunale riepiloga le risultanze istruttorie che sostengono la fondatezza della ipotesi di accusa. Quanto al tema della giurisdizione italiana: a) si ritiene avvenuto il transito della motonave Bana in acque territoriali italiane in virtù - allo stato e salvo l'esito delle verifiche tecniche disposte dal PM - della avvenuta ricezione sul cellulare di XY il 25 di gennaio, nel corso della navigazione, del messaggio di testo in lingua italiana dal gestore telefonico Wind. In tale momento il sistema di rilevazione AIS era stato interrotto e pertanto l'assenza di visibile traccia dello sconfinamento non può escludere che tale ingresso sia avvenuto. Il Tribunale ritiene applicabile l'art. 25 della legge 185 del 1990 esclusivamente sotto il profilo del 'transito' , escludendo il rilievo penale delle condotte di esportazione o importazione, con concorrente applicazione dell'art. 1 della legge n.895 del 1967. Si compie riferimento, sul punto, all'articolo 6 co.2 cod. pen., in virtù del principio secondo cui il reato commesso, anche in parte, in acque territoriali italiane si considera punibile secondo il principio di territorialità. Nel prosieguo della motivazione si afferma altresì che la giurisdizione italiana sarebbe sussistente anche lì dove non fosse confermato il transito in acque territoriali:

b) in riferimento a quanto previsto dall'art. 7 co.1 n. 5 cod. pen. in combinato disposto con la legge di ratifica della Convenzione di Palermo (legge n.146 del 2006) e con i contenuti dell'art. 15 par.4 della Convenzione. Ciascuno degli Stati coinvolti è 'Stato Parte' e, quanto al requisito della 'presenza' nel territorio dello Stato, si rappresenta che il comandante è sceso dalla nave in data 5.02.2020 per essere sottoposto a fotosegnalamento. Quanto alla natura del reato, si afferma non soltanto che l'obbligo di criminalizzazione per il traffico di armi è previsto dal Protocollo alla Convenzione già menzionato dal GIP ma che 'le modalità del fatto, la caratura degli interessi coinvolti sia economici che politici inducono a ritenere senz'altro la sussistenza di un gruppo criminale organizzato'; c) si ritiene in ogni caso sussistente la giurisdizione italiana anche in rapporto alle ipotesi di cui all'art. 8 e di cui all'arti° cod. pen. (delitto politico o delitto comune commesso dallo straniero all'estero) per le ragioni già indicate dal GIP. Si afferma che i reati sono da considerarsi commessi nei confronti dello stato libico. Si ribadisce la sussistenza delle esigenze cautelari e si ritiene adeguata la misura imposta.

4. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione - a mezzo del difensore di fiducia avv. CF - YT, articolando distinti motivi.

4.1. Il ricorrente premette di mantenere interesse al ricorso anche dopo l'avvenuta sostituzione della misura in atto con quella degli arresti domiciliari, avvenuta il 25 marzo 2020.

4.2. Si contesta, al primo motivo, l'esistenza della giurisdizione italiana. In sintesi, dovendosi ridurre la illustrazione del contenuto dei motivi a quanto necessario per la decisione, ai sensi dell'art.173 co.1 disp. att. cod. proc. pen.: a) quanto alla prospettata applicazione dell'art.6 co. 2 cod. pen. si rappresenta che l'affermazione circa l'avvenuto ingresso della motonave Bana in acque territoriali italiane è stata operata in modo travisante e contraddittorio, non essendo stato correttamente interpretato il contenuto delle note trasmesse dalla Marina Militare e dalla Capitaneria di Porto, allegate al ricorso, che portano ad escludere, nonostante l'interruzione dei segnale AIS, tale ingresso temporaneo. Il solo dato della ricezione di un sms sulla scheda telefonica non è univoco e non potrebbe radicare la giurisdizione italiana in assenza di conferme, posto che la natura 'dinamica' della verifica della giurisdizione - aspetto citato dal Tribunale - non è concetto che possa autorizzare l'avallo della debolezza dimostrativa del fatto posto a base della attribuzione medesima; b) quanto alla prospettata applicazione dell'art. 7 co.1 n.5 cod. pen. in riferimento alla Convenzione di Palermo ed alla legge di ratifica n. 146 del 2006, si afferma che la giurisdizione italiana sarebbe in contrasto con i principi generali del diritto internazionale e con i contenuti della Convenzione di Ginevra del 29 aprile 1958 sul Mare Territoriale e con quelli della Convenzione Onu di Montego Bay (entrambe ratificate dall'Italia), lì dove tali testi affermano che la giurisdizione penale per i fatti di reato avvenuti a bordo delle navi nazionali (la motonave Bana batte bandiera libanese e l'intera condotta è avvenuta all'estero) è riservata allo Stato di bandiera esclusi i casi tassativamente previsti , nello specifico insussistenti. Si citano, sul tema, arresti di giurisprudenza. Inoltre, si afferma sul tema che nessuna delle disposizioni citate nelle decisioni dei giudici di merito legittima l'attribuzione della giurisdizione.

Sulla necessità di un preciso riferimento normativo, idoneo a consentire la deroga al principio generale di territorialità, si cita Sez. 5, n.48250 del 2019. Tale non potrebbe essere la Convenzione Onu di Palermo ed in particolare il suo articolo 15.

La Convenzione in parola per essere applicata richiede che il reato sia di criminalità organizzata, aspetto che non ricorre nel caso in esame. Inoltre, lo stesso articolo 4 della Convenzione tutela il principio di sovranità ed esclude l'esercizio della giurisdizione per fatti avvenuti in uno Stato diverso. Quanto al testo dell'art. 15 par. 4 si evidenzia che se da un lato il contenuto di detta disposizione pare autorizzare la ultraterritorialità della giurisdizione, ciò presuppone l'adozione di specifiche misure normative di adattamento, che nel caso in esame mai sono state adottate. Non vi è, in altre parole, un testo di legge interna che porti a rendere applicabile la previsione dell'art. 15 par. 4 ed a stabilire se e quando il diritto interno possa estendersi a fatti interamente commessi all'estero. Le misure di cui parla la Convenzione, in tale ottica, devono essere misure normative 'regolatrici in via generale' di siffatto potere e non sarebbe sufficiente la legge di ratifica della Convenzione. Si evidenzia inoltre che manca la qualificazione del reato come commesso da un 'gruppo criminale organizzato' essendo stato contestato il mero concorso di persone nel reato. Sul punto si definisce apodittico il passaggio argomentativo contenuto nella ordinanza impugnata. Non sarebbero applicabili inoltre le norme sovranazionali che hanno stabilito l'embargo nei confronti della Libia. Si evidenzia ancora che quanto all'art. 25 della legge n. 185 del 1990 lo stesso Tribunale del Riesame ha escluso le fattispecie di importazione ed esportazione, concentrando il riferimento applicativo al solo 'transito'. Ciò esclude l'applicabilità della previsione incriminatrice se il transito non vi è stato in fatto. Sarebbe esclusa anche l'applicabilità della legge n.895 del 1967, riferibile alle sole condotte avvenute sul territorio nazionale. c) quanto alla prospettata applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 8 e 10 cod. pen., si evidenzia che, in riferimento ai contenuti di cui all'articolo 8, la condotta del comandante risulta essere mossa esclusivamente da finalità economiche. La ipotesi è che la nave sia stata noleggiata dal governo turco per il trasporto di armamenti a favore del governo libico ma ciò esula dalla posizione processuale del comandante. La norma, peraltro, non sarebbe applicabile lì dove l'offesa sia rivolta, come nel caso in esame, a Stati esteri; quanto all'ipotesi dì cui all'art. 10, ma ciò vale anche ove si ritenga applicabile la previsione di cui all'art. 15 par.4 della Convenzione di Palermo, si contesta il presupposto della 'presenza' del soggetto nel territorio dello Stato italiano. Quando la nave è giunta nel porto di Genova, la polizia di frontiera ha negato al comandante e a tutti i marittimi l'autorizzazione a sbarcare con ritiro del passaporto e confinamento a bordo. Non vi sarebbe stato ingresso nel territorio nazionale. La misura cautelare è stata eseguita quando il comandante si trovava, dunque, a bordo della motonave Bana di bandiera straniera e priva di alcun carico illecito. Il fatto che il comandante sia sceso dalla nave per adempimenti preliminari correlati alla attività di indagine non ha rilievo, perché trattasi di presenza temporanea e non volontaria. Non vi è pertanto alcuna libera scelta del soggetto circa il 'trovarsi' sul territorio nazionale.

4.3. Al secondo motivo si afferma che l'assenza della potestà giurisdizionale rende assenti i gravi indizi di colpevolezza e la stessa possibilità di emettere il titolo cautelare, anche in relazione alla verifica delle esigenze cautelari. In ogni caso si contesta la sussistenza dei reati previsti dalle due disposizioni incriminatrici, specie dopo la 'restrizione' operata dal Tribunale della applicabilità dell'art. 25 al solo fatto del 'transito'. Si rappresenta inoltre che, in ipotesi di ritenuta applicabilità degli articoli 8 o 10 cod. pen., la richiesta del Ministro, come condizione di procedibilità, sarebbe intervenuta solo dopo il compimento degli atti di indagine, con correlata inutilizzabilità dei medesimi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è in parte fondato, quanto alla contestazione del fatto di reato di cui al capo a), mentre è infondato nel resto, nei limiti e per le ragioni che seguono.

2. Il tema centrale della presente procedura è rappresentato dal riconoscimento della giurisdizione dello Stato italiano sulla cognizione delle condotte descritte in sede di esercizio della domanda cautelare. E' del tutto evidente che l'apprezzamento della condotta e del suo contrasto con una o più norme incriminatrici presuppone l'esistenza della potestà giurisdizionale dello Stato italiano già nella fase delle indagini preliminari, prodromica all'esercizio dell'azione penale.

Circa tale aspetto, oggetto di puntuale contestazione nel primo motivo di ricorso, la decisione di merito impugnata sostiene - in via alternativa discendente - quattro ipotesi tra loro distinte, ricollegate ciascuna a specifici aspetti normativi o fattuali.Ciò determina la necessità di un compiuto esame delle diverse tesi e delle ragioni di critica introdotte dal ricorrente, nei modi che seguono.

3. La prima tesi sostenuta dal Tribunale di Genova si basa sulla ricorrenza del principio di territorialità di cui all'art. 6 cod. pen. 3.1. In particolare si sostiene - con variazione peggiorativa rispetto alle valutazioni espresse nel titolo genetico - che una frazione della condotta di trasporto dei materiali di armamento, nel corso del viaggio della motonave Bana dalla Turchia alla Libia, sarebbe avvenuta in acque territoriali (le dodici miglia marine) italiane, andandosi in tal modo a concretizzare la previsione di cui all'art. 6 co. 2 cod. pen. nella parte in cui detta disposizione di legge compie riferimento ad azione avvenuta 'in tutto o in parte' nel territorio dello Stato. Tale affermazione, basata su talune considerazioni in fatto, è anche sostenuta in diritto - sempre secondo i giudici del merito - dalla cd. natura dinamica della verifica in tema di giurisdizione, nozione espressa, tra le altre, da Sez. 5, n.32372 del 6.4.2017, rv 270538, secondo cui la verifica della giurisdizione, che precede logicamente ogni altro tipo di indagine rimesso alla cognizione del giudice, ha carattere dinamico, dovendo il difetto di giurisdizione essere rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, secondo la disciplina dettata dall'art. 20 cod. proc. pen., ed implica il potere-dovere del giudice di controllare costantemente, per tutto il corso del processo, se i fatti che formano il contenuto dell'imputazione rientrino nell'ambito della propria giurisdizione, dovendo dichiararne il difetto non appena gli elementi di prova raccolti modifichino la struttura e l'impianto originari dell'imputazione facendola esorbitare dalla sfera cognitiva assegnatagli dall'ordinamento.

3.2 Simile inquadramento della giurisdizione, contestato dal ricorrente, risulta effettivamente viziato sia in termini di ricostruzione del fatto che in diritto. Una premessa appare indispensabile.

L'affermazione per cui l'operazione di verifica della ricorrenza della giurisdizione ha natura dinamica - rinvenibile negli arresti dì questa Corte di legittimità (tra cui Sez. 1, n. 4060 del 8.11.2007, dep.2008, rv 239185) - non può essere interpretata nel senso di una 'precarietà dimostrativa' degli elementi di fatto da cui inferire, nel momento iniziale della procedura, l'attribuzione del potere di esercitare la giurisdizione.

Anzi, il senso delle decisioni emesse sul tema da questa Corte di Cassazione è profondamente diverso.

Si richiama, infatti, in tali arresti il potere-dovere di verificare, anche di ufficio, che gli elementi storici che hanno consentito di esercitare il potere giurisdizionale permangano inalterati, nella loro valenza dimostrativa, nel corso del processo, pure a fronte di un novum probatorio che potrebbe rimetterli in discussione.

Ma se nella fase iniziale del procedimento gli elementi di fatto acquisiti svelino - quanto al rapporto con la regola normativa attributiva della giurisdizione - ambiguità o debolezza dimostrativa intrinseca, non appare possibile la prosecuzione della procedura al fine di 'rafforzare' il dato probatorio, mancando - all'evidenza - il primo presupposto che governa anche la fase prodromica delle indagini preliminari, rappresentato dalla esistenza - in termini di certezza - del potere dell'autorità giudiziaria di prendere cognizione del fatto.

3.3. Nel caso in esame, come evidenziato anche dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta, la debolezza dimostrativa del dato storico teso a sostenere l'ipotesi dell'ingresso della motonave Bana in acque territoriali italiane - consistente nella ricezione di un sms in italiano durante la navigazione dalla Turchia alla Libia - è, allo stato delle evidenze considerate, del tutto palese e il fatto storico del transito in acque territoriali italiane, in rapporto a tutte le circostanze di fatto censite in sede di merito, non trova nessun altro elemento di sostegno. Del tutto illogica, oltre che viziata da una erronea interpretazione del diritto giurisprudenziale, è pertanto la tesi sostenuta, su tale punto, dal Tribunale di Genova, con fondatezza delle critiche esposte nel ricorso. Il fatto storico, per quanto sinora detto, va ritenuto commesso integralmente all'estero e coinvolge, come si è detto, più Stati (Libano, Turchia e Libia).

4. La seconda ipotesi esposta nel provvedimento impugnato sul tema della giurisdizione si fonda sui contenuti dell'art. 7 co. 1 n. 5 cod. pen., disposizione che realizza un generico riferimento, quanto a fatti di reato commessi integralmente all'estero, a speciali disposizioni di legge o a convenzioni internazionali che stabiliscono l'applicabilità - in deroga al principio di territorialità - della legge penale italiana. Come si è detto in parte narrativa, tanto il GIP che il Tribunale del riesame di Genova hanno individuato la disposizione convenzionale attributiva della giurisdizione nell'art. 15, par. 4, della Convenzione Onu di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale del 15 novembre 2000 (ratificata dall'Italia con legge n.146 del 16 marzo 2006 ed entrata in vigore sul piano internazionale in data 10 settembre 2006; da ora in avanti Conv. Onu), anche in ragione dei contenuti del Protocollo aggiuntivo in tema di traffico di armi. Il reato commesso, in tale prospettiva, rientra nell'ambito applicativo della Convenzione (sia in tema di gravità che di oggetto), tutti gli Stati coinvolti sono Stati Parte della medesima e sussiste in fatto la condizione rappresentata, nel testo dell'art. 15, par.4, dalla presenza in territorio italiano di uno dei presunti autori. A tale ipotesi ha aderito anche la Procura Generale in sede di requisitoria scritta.

4.1. Il Collegio ritiene, sul tema, che la disposizione di cui all'art. 15, par. 4, Conv. Onu non possa trovare diretta applicazione, per le ragioni che seguono. Ed, invero, non vi è dubbio che le caratteristiche del fatto - per come sinora accertato in sede di merito e per come rievocato in parte narrativa - presentano aspetti di transnazionalità e un substrato organizzativo idoneo a rendere in astratto applicabili alcune disposizioni della Convenzione Onu sotto il profilo della finalità di contrasto al crimine organizzato ed al traffico internazionale di armi (v. artt. 2 e 3 della Conv. Onu, in rapporto al testo del Protocollo sulle armi), aspetti che possono dirsi pacifici.

Tuttavia, la verifica della esistenza del potere giurisdizionale non può prescindere dalla analisi del testo della Convenzione e della posteriore legge interna di ratifica ed esecuzione, numero 146 del 2006. Le operazioni interpretative da compiersi anche in tal caso necessitano di alcune premesse ermeneutiche.

4.2. La prima è rappresentata dalla presa d'atto della natura 'non autonomamente regolativa' del testo dell'articolo 7 co. 1 n. 5 cod. pen., norma di chiusura che contiene esclusivamente un rinvio a 'speciali disposizioni di legge' o a 'convenzioni internazionali' nel cui ambito sia prevista in modo espresso la deroga al generale principio di sovranità territoriale. Dunque diventa dirimente l'analisi del contenuto della singola disposizione attributiva del potere, al fine di identificare il particolare statuto regolativo della giurisdizione per il fatto commesso integralmente all'estero. In tale dimensione la disposizione codicistica attesta semplicemente la possibilità (del resto scontata, a parità di forza legislativa) della esistenza di casi aggiuntivi, previsti con legge o con convenzione vincolante, attributivi di giurisdizione italiana per fatti commessi all'estero.

La seconda premessa riguarda, in via generale, il rispetto - anche in tale ambito - del principio di legalità, di recente richiamato da Sez. 5, n. 48250 del 12.9.2019, rv 277245, secondo cui in tema di giurisdizione su reati commessi all'estero, in assenza dì un fondamento normativo, anche di diritto internazionale, idoneo a derogare al principio di territorialità, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano su reati commessi dallo straniero in danno di straniero e interamente consumati nel territorio di uno Stato estero, seppure connessi con reati commessi in Italia.

In detto arresto, le cui linee argomentative sono condivise dal Collegio, si richiama, al fine di ritenere sussistente la giurisdizione su un fatto commesso all'estero, la necessità di individuare un preciso fondamento normativo, anche di diritto internazionale, idoneo a consentire di derogare alla necessità del diretto collegamento tra il fatto che per la legge nazionale costituisce reato ed il territorio dello Stato. La terza premessa ermeneutica riguarda, sempre in tale ambito, la necessità di rispettare i principi generali del diritto delle Convenzioni Internazionali, contenuti nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969, ratificata dall' Italia con legge n. 112 del 12 febbraio 1974. Viene in rilievo, in particolare, il contenuto dell'art.31, par. 1, di detta Convenzione in 10 I tema di interpretazione, lì dove si afferma che un trattato deve essere interpretato in buona fede 'in base al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo'.

4.3. Ciò posto, va investigato il rapporto esistente tra i contenuti della Convenzione Onu di Palermo e le disposizioni interne di adattamento, sulla base dell'analisi dei termini utilizzati nelle singole disposizioni della Convenzione, secondo quanto detto sopra. Ciò, al fine di comprendere se l'esistenza del semplice ordine di esecuzione di cui all'art. 2 della legge n. 146 del 2006 (... piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione e ai Protocolli ...), in assenza di disposizioni regolatrici interne in tema di giurisdizione, sia condizione sufficiente per ritenere introdotta nel sistema giuridico italiano con piena forza precettiva la particolare disposizione contenuta nell'art.15, par. 4, della Conv. Onu. La risposta a tale quesito è, ad avviso del Collegio, negativa.

L'ordine di esecuzione, di cui all'art. 2 della legge n.146 del 2006, è atto normativo la cui efficacia, in rapporto alle norme contenute nel Trattato, è ben descritta dal giudice delle leggi nella sentenza numero 58 del 1997, intervenuta in tema di efficacia della Convenzione Europea di estradizione: tale tecnica - che si esprime nella clausola secondo cui "piena ed intera esecuzione è data alla convenzione ... " - dà luogo alla produzione nell'ordinamento interno delle norme di "adattamento" ai disposti dei trattato. Un ordine di esecuzione produce implicitamente tutte le norme interne necessarie perché lo Stato possa adempiere, sul piano internazionale, agli obblighi convenzionalmente assunti, ma anche le sole norme interne strettamente indispensabili a tale scopo.

Sono dunque oggetto di ricezione nell'ordinamento interno, in virtù del semplice ordine di esecuzione, le disposizioni che, per come formulate nel Trattato, realizzano condizioni autoapplicative, configurano obblighi e non necessitano di altro adempimento intermedio.

Ora, è da rilevarsi che in riferimento ai contenuti della particolare previsione di cui al par. 4 dell'art. 15 della Conv. Onu, non si versa in tale condizione autoapplicativa. La disposizione, derogando al generale principio di territorialità della giurisdizione dello Stato Parte e di sovranità (ribadito in via generale dall'art. 4 della medesima Conv. Onu) e consentendo la procedibilità per fatti commessi integralmente all'estero, nemmeno correlati in via prospettica a fatti da commettersi nel territorio interno, non configura un obbligo quanto una facoltà dello Stato Parte: "..ogni Stato Parte può adottare..". Detta facoltà, inoltre, appare finalizzata alla introduzione di uno strumento avente caratteri di generalità e astrattezza tipici della norma di legge: "... misure necessarie per stabilire la sua giurisdizione riguardo ai reati di cui alla presente Convenzione ...".

Tale assetto ermeneutico, che porta a ritenere a tutt'oggi non esercitata dallo Stato italiano detta facoltà (pur in presenza di ratifica della Convenzione), appare convalidato dal confronto con le altre disposizioni contenute nel medesimo articolo 15 della Conv. Onu in tema di giurisdizione.Ed, invero, nelle altre ipotesi formulate ai paragrafi 1 e 2 dell'art. 15 la visibile considerazione di un diretto interesse dello Stato Parte alla punibilità (reato commesso nel suo territorio o a bordo di nave o velivolo nazionale; reato commesso in danno di un suo cittadino; reato commesso da un cittadino o da persona apolide stabilmente residente; reati commessi fuori dal suo territorio ma in vista di commettere un grave reato sul suo territorio) ha determinato formulazioni sintattiche ben diverse (... lo Stato Parte adotta le misure necessarie; lo Stato Parte può dichiarare la sua giurisdizione ...) che sostengono - in simili casi - la tesi della natura autoapplicativa delle disposizioni convenzionali, come affermato in taluni arresti di questa Corte di legittimità, intervenuti in tema di immigrazione (tra cui v., per il richiamo ai contenuti dell'art. 15 par. 2 Conv. Onu, Sez. 1, n. 14510 del 28.02.2014, Haij, n. m.; Sez. 1, n. 36052 del 23.05.2014, Arabi, rv. 260040, Sez. 1, n. 20503 del 8.04.2015, Iben Massaoud, rv. 263670, 263671). Anche per la ragione testé esposta, non può dunque ritenersi - non essendo stata introdotta nel sistema interno alcuna specifica disposizione di adattamento relativa al caso di cui all'indicato art. 15, par. 4 - che la particolare previsione di cui al par. 4 dell'art. 15 della Conv. Onu, in riferimento a condotte di reato consumate interamente all'estero e non correlate in via prospettica a condotte da commettersi sul territorio italiano, rappresenti una disposizione autoapplicativa e attributiva di giurisdizione in capo allo Stato Parte, pure in rapporto a fattispecie di reato che, per le loro caratteristiche ontologiche, rientrano nell'ambito di quelle previste dalla Convenzione medesima. Ci si trova, in altre parole, in una condizione in cui l'assenza di una disposizione di legge idonea a manifestare la volontà dello Stato Parte di avvalersi della 'facoltà' di perseguire penalmente fatti commessi integralmente all'estero (e non inseriti in una progressione finalistica coinvolgente lo Stato italiano) impedisce l'esercizio del potere giurisdizionale su simili condotte. In tal senso, i riferimenti - pur presenti nel testo dell'art.15 par. 4 Conv. Onu - alla condizione della 'presenza' del presunto autore nel territorio dello Stato e alla sua mancata estradizione rappresentano esclusivamente i parametri minimi condivisi nel Trattato, alla stregua dei quali lo Stato Parte 'ha facoltà di' modellare la disposizione interna di adattamento, ma non conferiscono alla disposizione convenzionale le caratteristiche di norma self-executing. In tale parte il ricorso introduce, pertanto, spunti di critica condivisibili in diritto.

5. L'attribuzione della giurisdizione italiana va tuttavia ritenuta sussistente ai sensi dell'art.10 cod. pen., con rigetto del ricorso sul punto. Il Collegio ritiene che tale disposizione, per quanto previsto al comma 2, risulta espressamente dedicata (a differenza della previsione di legge di cui all'art. 8 cod. pen., pure evocata in sede di merito ma di cui non si ravvisa il presupposto) anche alla tutela di interessi dello Stato estero (nel caso di specie la Libia, unitamente al Libano) e ritiene che sussistano tutte le condizioni poste dalla legge per riconoscere la giurisdizione italiana.

In particolare, va evidenziato che l'unica fattispecie di reato applicabile - in ciò anticipandosi la valutazione dei contenuti del secondo motivo di ricorso - è quella prevista e punita dagli articoli 1, 2 e 4 della legge n.895 del 1967 in tema di cessione, detenzione e porto illegali di armi da guerra. Va, sul punto, preso atto della 'riduzione' - operata in sede di riesame - alla condotta di transito della fattispecie di cui all'art. 25 della legge n.185 del 1990 (capo a), il che indubbiamente esaurisce l'oggetto della prima contestazione in una non consentita duplicazione (secondo il criterio della specialità ed al di là dei limiti edittali di pena) della contestazione rispetto al porto illegale delle armi da guerra contestato al capo b. Va anche precisato che secondo il contenuto dell'art. 10 cod. pen. la condotta - pur se commessa all'estero dallo straniero - va presa in considerazione secondo un criterio legale di tipo formale che prevede l'applicabilità della legge italiana. In tal senso, per 'legge italiana' va indubbiamente intesa non soltanto la legge processuale ma anche quella relativa alle disposizioni di diritto sostanziale, come è dimostrato dai riferimenti alla entità della pena prevista dalla disposizione incriminatrice (art. 10 co. 2 n. 2 cod. pen.). Nel caso in esame è l'art. 1 della legge n. 895 del 1967 (la condotta di cessione) a prevedere il minimo della sanzione utile ai fini della punibilità, in rapporto a quanto previsto dall'art.10 cod. pen. e pertanto la condotta risulta punibile 'come se' fosse avvenuta sul territorio nazionale. La illegalità della cessione delle armi da guerra, peraltro, risulta palese anche in riferimento alla esistenza delle deliberazioni in tema di embargo citate in sede di merito. Va altresì rilevato che sussistono le ulteriori condizioni previste dall'art. 10 cod. pen. La richiesta del Ministro della giustizia è intervenuta prima della emissione del titolo cautelare e ciò, oltre a rendere applicabile la previsione di legge qui in rilievo rende legittima l'emissione del provvedimento (si veda, sul tema, ed anche in rapporto al presupposto della presenza nel territorio, quanto affermato da Sez. 1, n. 41333 del 11.07.2003, rv 225751). Quanto al presupposto di cui all'arti° co. 2 n. 1, le obiezioni difensive sono infondate. La disposizione di legge ricollega la punibilità (e dunque l'interesse dello Stato ad esercitare l'azione penale) al fatto che il colpevole 'si trovi nel territorio dello Stato'. La presenza, non altrimenti connotata dal legislatore, può pertanto anche essere transitoria e occasionale e non necessariamente deve porsi come indicativa di un effettivo 'radicamento' del soggetto sul territorio nazionale (in tal senso Sez. 1, n. 2955 del 7.12.2005, dep. 2006, rv 233424).

La prospettiva coltivata dalla difesa - che invoca la presenza come libera scelta del soggetto che pur potendosi allontanare decide di permanere - riguarda, peraltro, il diverso caso della deroga alla clausola di specialità in tema di estradizione e non può ritenersi pertinente, posto che nel caso regolato e previsto dall'art.10 cod. pen. ciò che rileva è il mero dato fenomenico della presenza, antecedente alla emissione del provvedimento cautelare.

Sul punto, il ricorso non controdeduce in modo efficace al punto della decisione di merito in cui si afferma che il T si è recato - senza esercizio di poteri coercitivi - negli uffici della polizia di frontiera per il fotosegnalannento, il che integra la condizione prevista dal citato art. 10 cod. pen. Nessuna questione è stata, in ultimo, sollevata in tema di mancata estradizione, aspetto pacifico. Sugli aspetti trattati nel presente paragrafo, quanto alla giurisdizione, il ricorso va pertanto respinto.

6. Da quanto sinora esposto deriva, altresì, il rigetto del secondo motivo di ricorso, essendo stata riconosciuta l'applicabilità della previsione di legge di cui all'art. 10 cod. pen. e non potendosi accogliere l'eccezione formulata dal ricorrente in tema di inutilizzabilità degli atti di indagine posti in essere prima della richiesta di procedimento del Ministro. Detta richiesta si configura in termini di condizione di procedibilità - tesa qui ad integrare i presupposti per l'esercizio della giurisdizione - e deve, come si è detto, intervenire prima della emissione del titolo cautelare. Per il resto, l'art.346 cod. proc. pen. consente espressamente - nel periodo che precede la sopravvenienza della condizione - il compimento della attività di indagine preliminare necessaria alla assicurazione delle fonti di prova, il che peraltro realizza una prioritaria esigenza di ordine logico, atteso che la stessa richiesta del Ministro non potrebbe che fondarsi su una preliminare attività conoscitiva che ne realizza il fondamento storico. Non può pertanto accogliersi la doglianza in rito formulata dal ricorrente.

7. Per il resto, non si colgono ulteriori elementi di concreta contestazione della gravità indiziaria, con riferimento alla specifica ipotesi di accusa sub b), per come circoscritta all'esito del vaglio compiuto dal Tribunale del riesame. Aspecifica e, in ogni caso, inidonea a mettere in crisi il congruo ragionamento svolto dai giudici del riesame è la critica svolta dal ricorrente nel secondo in punto di esigenze cautelari

. 8. In conclusione, l'ordinanza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui al capo a), con rigetto del ricorso nel resto,