I tribunali interni hanno stabilito in maniera dettagliata e approfondita, con esattezza e al di là di ogni ragionevole dubbio i maltrattamenti di cui sono state oggetto le persone condotte alla caserma di Bolzaneto: le testimonianze delle vittime sono state confermate dalle deposizioni dei membri delle forze dell’ordine e della pubblica amministrazione, dalle parziali ammissioni degli imputati e dai documenti a disposizione dei magistrati, in particolare i rapporti medici e le perizie giudiziarie.
Pertanto, la Corte considera accertate sia le aggressioni fisiche e verbali lamentate dai ricorrenti che le conseguenze derivanti da queste ultime: fin dal loro arrivo alla caserma di Bolzaneto, ai ricorrenti è stato vietato di alzare la testa e guardare gli agenti che li circondavano; coloro che erano stati arrestati alla scuola Diaz-Pertini sono stati marchiati con una croce sulla guancia fatta con un pennarello; tutti i ricorrenti sono stati costretti a rimanere immobili, con le braccia e le gambe divaricate, di fronte alle grate all’esterno della caserma; la stessa posizione vessatoria è stata imposta a ciascuno all’interno delle celle;
all’interno della caserma, i ricorrenti erano costretti a muoversi piegati in avanti e con la testa bassa; in questa posizione, dovevano attraversare «il tunnel di agenti», ossia il corridoio della caserma nel quale alcuni agenti si mettevano da ciascun lato per minacciarli, colpirli e lanciare loro insulti di carattere politico o sessuale (paragrafo 64 supra);
durante le visite mediche, i ricorrenti sono stati oggetto di commenti, di umiliazioni e a volte di minacce da parte del personale medico o degli agenti di polizia presenti;
gli effetti personali dei ricorrenti sono stati confiscati, o addirittura distrutti in maniera aleatoria;
tenuto conto dell’esiguità della caserma di Bolzaneto nonché del numero e della ripetizione degli episodi di brutalità, tutti gli agenti e i funzionari di polizia presenti erano consapevoli delle violenze commesse dai loro colleghi o dai loro subalterni;
i fatti di causa non si possono ricondurre a un periodo determinato durante il quale, senza che questo possa in alcun modo giustificarlo, la tensione e le passioni esacerbate avrebbero portato a questi eccessi: tali fatti si sono svolti durante un lasso di tempo considerevole, ossia nella notte tra il 20 e il 21 luglio, e il 23 luglio, il che significa che varie squadre di agenti si sono avvicendate all’interno della caserma senza alcuna diminuzione significativa in frequenza o in intensità degli episodi di violenza.
I ricorrenti non hanno opposto alcuna forma di resistenza fisica agli agenti, sono stati vittime di una successione continua e sistematica di atti di violenza che hanno provocato vive sofferenze fisiche e psicologiche. Queste violenze sono state inflitte a ciascun individuo in un contesto generale di uso eccessivo, indiscriminato e manifestamente sproporzionato della forza.
Questi episodi si sono svolti in un contesto deliberatamente teso, confuso e rumoroso, in cui gli agenti gridavano contro individui arrestati e intonavano di tanto in tanto canti fascisti. Nella sua sentenza n. 678/10 del 15 aprile 2011, la corte d’appello di Genova ha accertato che la violenza fisica e morale, lungi dall’essere episodica, è stata, al contrario, indiscriminata, costante e in qualche modo organizzata, il che ha avuto come risultato quello di portare a «una sorta di processo di disumanizzazione che ha ridotto l’individuo a una cosa sulla quale esercitare la violenza».
I membri della polizia presenti all’interno della caserma di Bolzaneto, i semplici agenti e, per estensione, la catena di comando, hanno gravemente contravvenuto al loro dovere deontologico primario di protezione delle persone poste sotto la loro sorveglianza.
Gli agenti condannati per i fatti alla caserma Bolzaneto hanno tradito il giuramento di fedeltà e di adesione alla Costituzione e alle leggi repubblicane compromettendo, con il loro comportamento, la dignità e la probità della polizia italiana in quanto categoria professionale e, pertanto, indebolendo la fiducia della popolazione italiana nelle forze dell’ordine.
1I ricorrenti sono stati non soltanto vittime dirette di sevizie ma anche testimoni impotenti dell’uso incontrollato della violenza nei confronti delle altre persone arrestate. Alle offese all’integrità fisica e psicologica individuale si è dunque aggiunto lo stato di angoscia e di stress causato dagli episodi di violenze alle quali hanno assistito.
La Corte ritiene che i ricorrenti, trattati come oggetti nelle mani dei pubblici poteri, abbiano vissuto per tutta la durata della loro detenzione in una zona di «non diritto» in cui le garanzie più elementari erano state sospese.
In effetti, oltre agli episodi di violenza sopra menzionati, la Corte non può ignorare le altre violazioni dei diritti dei ricorrenti che si sono verificate nella caserma di Bolzaneto. Nessun ricorrente ha potuto contattare un parente, un avvocato di fiducia o, se del caso, un rappresentante consolare. Gli effetti personali sono stati distrutti sotto gli occhi dei loro proprietari. L’accesso alle toilette veniva negato e, in ogni caso, i ricorrenti sono stati fortemente dissuasi dal recarvisi a causa degli insulti, delle violenze e delle umiliazioni subite dalle persone che hanno chiesto di accedervi. Inoltre, si deve osservare che l’assenza di cibo e di lenzuola in quantità sufficiente che, secondo i giudici nazionali, non derivava tanto da una volontà deliberata di privarne i ricorrenti quanto da una errata pianificazione del funzionamento del sito, non può che aver amplificato la situazione di sconforto e il livello di sofferenza provati dai ricorrenti.
Gli atti che sono stati commessi nella caserma di Bolzaneto sono l’espressione di una volontà punitiva e di ritorsioni nei confronti dei ricorrenti, privati dei loro diritti e del livello di tutela riconosciuto a ogni individuo dall’ordinamento giuridico italiano.
I ripetuti atti di violenza subiti dai ricorrenti all’interno della caserma di Bolzaneto devono essere visti come atti di tortura. Pertanto, vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’articolo 3 della Convenzione.
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
PRIMA SEZIONE
Causa Azzolina e altri c. Italia
(Ricorsi nn. 28923/09 e 67599/10)
SENTENZA
26 ottobre 2017
Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa Azzolina e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita in una camera composta da:
Linos-Alexandre Sicilianos, presidente,
Kristina Pardalos,
Guido Raimondi,
Aleš Pejchal,
Ksenija Turković,
Pauliine Koskelo,
Tim Eicke, giudici,
e da Abel Campos, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 3 ottobre 2017,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi sono due ricorsi (nn. 28923/09 e 67599/10) proposti contro la Repubblica italiana da trentuno persone, cittadini di vari Stati («i ricorrenti»), i cui nomi sono riportati nell’allegato, e presentati dinanzi alla Corte rispettivamente il 27 maggio 2009 e il 3 settembre 2010, in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. I nomi dei rappresentanti dei ricorrenti sono riportati nell’allegato. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, A. Aversano.
3. I governi tedesco, britannico, spagnolo, francese e svizzero non si sono avvalsi del loro diritto di intervenire nel procedimento (articolo 36 § 1 della Convenzione).
4. Dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione, i ricorrenti affermavano in particolare di essere stati vittime di tortura. Lamentavano che le autorità interne non avessero adempiuto al proprio obbligo di condurre un’inchiesta effettiva in merito a quanto da essi dedotto. Per di più, denunciavano l’assenza nel diritto interno di un reato che punisca la tortura e i trattamenti inumani e degradanti.
5. Il 18 dicembre 2012 la camera ha deciso di riunire i ricorsi e di comunicarli al Governo in applicazione dell’articolo 54 § 2 del regolamento.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
6. I fatti di causa, così come esposti dai ricorrenti e come risultano dai documenti pertinenti nel caso di specie e provenienti da varie cause legate ai fatti all’origine della presente controversia , si possono riassumere come segue.
A. Il contesto generale
7. Il 19, 20 e 21 luglio 2001, la città di Genova accolse il ventisettesimo vertice degli otto paesi più industrializzati (G8), sotto la presidenza del governo italiano. Numerose organizzazioni non governative, riunite sotto l’egida del gruppo di coordinamento «Genoa Social Forum – GSF («il GSF»), organizzarono un vertice «altermondialista» che si svolse nello stesso periodo. È stato stimato che all’evento parteciparono da 200.000 persone (secondo il Ministero dell’Interno) a 300.000 persone (secondo il GSF).
8. Le autorità italiane misero in atto un vasto dispositivo di sicurezza (sentenze Giuliani e Gaggio c. Italia [GC], n. 23458/02, § 12, CEDU 2011, e Cestaro c. Italia, n. 6884/11, §§ 11-12, 23-24, 7 aprile 2015) dividendo la città in tre zone concentriche: la «zona rossa», di massima sorveglianza, dove si sarebbe svolto il vertice e dove avrebbero alloggiato le delegazioni; la «zona gialla», una zona cuscinetto in cui le manifestazioni erano in linea di principio vietate, salvo autorizzazione del questore; e la «zona bianca», in cui erano programmate le principali manifestazioni.
9. Le autorità attribuirono un colore a ogni gruppo organizzato, associazione, sindacato e ONG, in funzione della loro potenziale pericolosità: il «blocco rosa», non pericoloso; il «blocco giallo» e il «blocco blu» che comprendevano alcuni potenziali autori di atti di vandalismo, di blocco delle strade e dei binari, e anche di scontri con la polizia; e, infine, il «black block», di cui facevano parte più gruppi, anarchici o in generale più violenti, che avevano lo scopo di commettere dei saccheggi sistematici.
10. La giornata del 19 luglio si svolse in un’atmosfera relativamente tranquilla, senza episodi particolarmente significativi. Per contro, i giorni 20 e 21 luglio furono caratterizzati da scontri sempre più violenti tra le forze di polizia e alcuni manifestanti appartenenti essenzialmente ai «black block». Nel corso di questi incidenti, diverse centinaia di manifestanti e di membri delle forze dell’ordine furono feriti o intossicati dai gas lacrimogeni. Interi quartieri della città di Genova furono devastati (per un’analisi più dettagliata, si vedano Giuliani e Gaggio, sopra citata, §§ 12-30, e Cestaro, sopra citata, §§ 9-17).
B. I trattamenti subiti dai ricorrenti alla caserma di Bolzaneto
11. Il 12 giugno 2001 il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblici elaborò un piano logistico relativo alla presa in carico delle persone arrestate durante il summit.
12. Poiché il carcere di Marassi si trova in una zona considerata sensibile, fu deciso, per motivi di sicurezza, di creare, in luoghi decentrati, due centri temporanei in cui le persone arrestate dovevano essere raggruppate per essere sottoposte alle pratiche che seguono l’arresto, ossia l’identificazione, la notifica del verbale di arresto, la perquisizione, l’immatricolazione e la visita medica, prima di essere trasferite verso carceri diversi.
13. Con un decreto del Ministero della Giustizia del 12 luglio 2001, le caserme di Forte San Giuliano e di Bolzaneto furono designate in qualità di «siti utilizzati ai fini di detenzione, annessi all’ufficio medico e all’ufficio matricola degli istituti penitenziari di Pavia, Voghera, Vercelli e Alessandria».
14. All’interno della caserma di Bolzaneto, una parte dei locali fu destinata alle attività della polizia giudiziaria. Il resto dei locali fu riservato alle attività della polizia penitenziaria (immatricolazione, perquisizione e visita medica).
15. A seguito del decesso di Carlo Giuliani durante gli scontri tra carabinieri e manifestanti in piazza Alimonda, i carabinieri non furono più destinati alle attività di gestione dell’ordine pubblico nella città. A partire dal 20 luglio, la caserma di Bolzaneto, posta sotto la responsabilità della polizia, rimase perciò l’unico luogo di raduno e di smistamento delle persone arrestate.
16. Secondo il Ministero della Giustizia, nel periodo di attività della struttura, dal 12 al 24 luglio, 222 persone sono state immatricolate prima di essere trasferite verso gli istituti penitenziari di Alessandria, Pavia, Vercelli e Voghera (si veda la «Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare conoscitiva sui fatti del G8 di Genova del 20 settembre 2001» indicata nella nota a piè di pagina della pagina precedente).
17. I tribunali interni hanno stabilito con esattezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, i maltrattamenti di cui erano state oggetto le persone presenti all’interno della caserma di Bolzaneto. Le testimonianze delle vittime sono state confermate dalle deposizioni dei membri delle forze dell’ordine e della pubblica amministrazione, dai riconoscimenti parziali dei fatti da parte degli imputati e dai documenti a disposizione dei magistrati, in particolare le relazioni dei medici e le perizie giudiziarie. A partire da queste molteplici informazioni, è possibile descrivere gli episodi di violenza di cui furono oggetto i ricorrenti:
1. Ricorso n. 28923/09
18. Il 20 luglio, il sig. Azzolina, che partecipava al corteo delle Tute Bianche, ricevette calci e manganellate e fu cosparso di gas irritante durante una carica della polizia vicino alla via Tolemaide. Trasportato all’ospedale a causa di una ferita aperta alla testa, fu curato prima di essere condotto con altre persone alla caserma di Bolzaneto a bordo di un veicolo blindato. Posto insieme ad altre persone contro un muro, fu minacciato, insultato e picchiato. Un agente di polizia gli prese la mano e gli divaricò violentemente le dita, tra il terzo e il quarto dito, causandogli una profonda lacerazione. Minacciato di essere nuovamente picchiato se si fosse mosso o lamentato, il sig. Azzolina subì una sutura della ferita senza anestesia. In seguito, l’interessato e altre persone arrestate furono obbligati a spogliarsi prima di essere condotti in celle in cui furono percossi sulle ferite a intervalli ravvicinati. Il ricorrente fu liberato il giorno dopo, alle 2, dopo essere stato costretto a passare tra due file di membri delle forze dell’ordine che lo percossero con ogni mezzo al suo passaggio. Il sig. Azzolina riportava lesioni a una mano, alla testa e a una gamba, e varie contusioni.
19. La sig.ra Bartesaghi Gallo fu arrestata alla scuola Diaz-Pertini. Trasportata all’ospedale a causa di una ferita aperta in testa, fu curata e poi, il 22 luglio alla sera, trasferita alla caserma di Bolzaneto. Fu tracciata una croce sul suo viso con un pennarello rosso. Fu prima obbligata a rimanere due ore con le braccia in aria contro un recinto metallico nel cortile, poi a passare, a testa bassa, tra agenti che la insultavano («puttana», «stronza»), ad andare al bagno senza poter chiudere la porta, sotto gli insulti e le minacce dell’agente che la accompagnava. All’interno della caserma, dovette restare a lungo immobile, con le braccia e le gambe divaricate, il viso contro un muro, in mezzo a canti fascisti. Vide altre persone arrestate che avevano il viso insanguinato. Durante una visita medica, fu obbligata a spogliarsi e a fare dei piegamenti davanti a due uomini e a due donne. Le furono sequestrati alcuni documenti che furono gettati. Fu poi trasferita nel carcere di Vercelli.
20. Il sig. Delfino fu arrestato e ferito al naso venerdì 20 luglio. Alla fine del pomeriggio, fu trasportato alla caserma di Bolzaneto e pestato in un veicolo parcheggiato in pieno giorno, all’interno del quale fu poi lasciato a lungo. In seguito fu trascinato di forza per i capelli all’interno della caserma, dove fu nuovamente percosso e poi obbligato a rimanere immobile davanti a un muro, con le braccia e le gambe divaricate. Durante la sua identificazione, la polizia non lo autorizzò né ad avvisare i genitori né a vedere un avvocato, e non lo informò dei motivi del suo arresto. Prima della visita medica, il sig. Delfino dovette attendere in corridoio, con le braccia e le game divaricate di fronte al muro. Dopo un’ora, perse conoscenza. Non ricevette alcuna cura per la ferita al naso. Il 21 luglio, all’alba, fu trasferito al carcere di Alessandria.
21. La sig.ra Doherty fu arrestata alla scuola Diaz-Pertini. Trasportata all’ospedale a causa di varie escoriazioni e di una frattura al polso, fu curata prima di essere trasferita, il 22 luglio all’alba, alla caserma di Bolzaneto. Fu prima obbligata a rimanere per due ore con le braccia alzate contro un recinto metallico nel cortile, sebbene avesse un braccio ingessato, e poi a passare, a testa bassa, tra alcuni agenti che la insultavano. Dovette utilizzare i bagni lasciando la porta aperta. Fu tracciata una croce sul suo viso con un pennarello rosso. All’interno della caserma, dovette rimanere a lungo con le braccia e le gambe divaricate, e la faccia al muro. Vide altre persone arrestate soffrire a causa delle sevizie che subivano. Durante una visita medica, fu obbligata a svestirsi e a fare dei piegamenti davanti a un uomo e a due donne, nonostante il dolore provocato dalla frattura del polso; a causa di quest’ultima, non riuscì a mettersi il reggiseno, ma nessuno l’aiutò. In occasione della sua identificazione, fu costretta a firmare alcuni documenti, redatti in italiano, che non capiva.
22. Il sig. Galloway fu arrestato alla scuola Diaz-Pertini. Trasportato all’ospedale a causa di ferite riportate sul dorso e sulla testa, fu curato e poi trasferito, il 22 luglio all’alba, alla caserma di Bolzaneto. Fu identificato e poi condotto in una cella già occupata da altre persone. Costretto a rimanere con le braccia e le gambe divaricate, faccia contro un muro, non fu percosso ma dovette sentire colpi violenti e grida. Fu condotto in un locale vuoto dove fu costretto a spogliarsi e a fare dei piegamenti. Sottoposto a una «specie di visita medica», dovette nuovamente svestirsi ma non ricevette cure. La notte, lo fecero rimanere per molto tempo con le gambe divaricate e la faccia contro il muro, in corridoio. Dovette firmare un documento redatto in italiano e in parte precompilato, di cui non comprendeva il contenuto. Nel pomeriggio del 23 luglio fu trasferito in un carcere il cui nome non è precisato nel fascicolo, senza aver potuto comunicare con le autorità diplomatiche del suo paese.
23. Il sig. Ghivizzani fu arrestato il 20 luglio nelle prime ore del pomeriggio e lasciato con le mani e i piedi legati in pieno sole. Arrivato alla caserma di Bolzaneto verso le 17, fu posto in piedi davanti al muro di una cella. Fu trattato da «cretino di un comunista» e da «stronzo», e ricevette ripetuti calci alle caviglie e colpi di manganello su tutto il corpo; gli fu sbattuta la testa contro il muro e gli fu spenta una sigaretta su un polso. All’alba, un medico ordinò agli agenti di togliere i lacci che legavano i polsi dell’interessato. Prima di essere identificato, quest’ultimo dovette svestirsi e passare tra alcuni agenti che lo colpirono alla nuca, sul dorso e sul sedere. In infermeria, fu minacciato di una perquisizione rettale e obbligato a svestirsi completamente e a fare piegamenti nudo. Non ricevette alcuna cura per le lesioni che presentava alle mani. Non gli fu permesso di andare al bagno. Il 21 luglio alle ore 5 fu trasferito nel carcere di Alessandria.
24. Il sig. Herrmann fu arrestato alla scuola Diaz-Pertini, trasportato all’ospedale e poi trasferito alla caserma di Bolzaneto il 22 luglio, all’alba. Al suo arrivo alla caserma, fu messo contro un muro; un poliziotto gli disegnò una croce sulla guancia sinistra con un pennarello mentre altri poliziotti facevano il saluto romano. Fu perquisito, privato degli effetti personali e poi trascinato per i capelli sulle ginocchia da un agente lungo un corridoio dove altri agenti lo insultarono e gli diedero dei calci. Messo in una cella con una ventina di persone, dovette restare in piedi, con le gambe divaricate e la faccia contro il muro. Gli agenti controllarono varie volte i nomi degli occupanti della cella mentre li strattonavano con violenza. Questi ultimi furono ripetutamente oggetto di insulti fascisti e di sputi provenienti dall’esterno della cella. In occasione di un ulteriore controllo, il ricorrente indicò ai poliziotti che era giornalista e chiese invano di poter comunicare con la redazione del suo giornale, con le autorità diplomatiche del suo paese o con un avvocato. Alla fine della procedura di identificazione, fu autorizzato a recarsi al bagno passando a testa bassa tra alcuni agenti che lo insultavano e lo spingevano. Poté anche lavarsi e cambiarsi, sempre sotto la sorveglianza dei poliziotti. Fu obbligato due volte a raccogliere i suoi effetti personali che erano stati gettati al suolo mentre un agente gli teneva la testa verso il basso. In un ufficio, fu costretto a svestirsi e poi a fare piegamenti e capriole a terra e, infine, a firmare documenti redatti soltanto in italiano. Il 23 luglio al mattino fu ammanettato a un’altra persona e condotto nel carcere di Pavia.
25. Il sig. Moth fu arrestato alla scuola Diaz-Pertini e trasportato all’ospedale allo scopo di essere curato per una ferita alla testa, un’altra al polpaccio e varie ecchimosi. Al suo arrivo alla caserma di Bolzaneto, nella notte tra il 21 e il 22 luglio, fu costretto a rimanere in piedi con altre persone, a gambe divaricate e faccia al muro, per venti minuti. Messo in una cella e poi in un’altra, dovette restare varie volte in questa posizione, mentre alcuni agenti che si trovavano all’interno e all’esterno della cella lo coprivano di insulti. Quando si recò alla toilette, fu costretto a camminare a testa bassa, insultato, colpito e poi sorvegliato all’interno della toilette. In occasione della sua identificazione, dovette firmare dei documenti redatti soltanto in italiano e chiese invano di contattare un avvocato.
26. Il sig. Nathrath fu arrestato alla scuola Diaz-Pertini e condotto direttamente alla caserma di Bolzaneto il 22 luglio. Al suo arrivo, fu colpito e obbligato a restare con la faccia al muro, le gambe divaricate e le braccia alzate. Dovette riprendere poi tale posizione varie volte all’interno della caserma, dove fu nuovamente colpito e insultato in una cella e insultato mentre si recava alla toilette con la testa bassa per ordine dei poliziotti. Fu sorvegliato persino nella toilette. In infermeria, fu costretto a spogliarsi e a fare dei piegamenti. Durante la procedura di identificazione, dovette firmare un documento in parte precompilato e redatto soltanto in italiano. Non fu autorizzato a contattare né la sua famiglia né le autorità diplomatiche del suo paese. Anche a lui fu disegnata una croce rossa sul viso. Il 23 luglio al mattino fu ammanettato a un’altra persona e trasferito nel carcere di Pavia. Fu detenuto per tre settimane, prima a Pavia e poi a Genova.
27. La sig.ra Subri fu arrestata il 20 luglio nel tardo pomeriggio con altre persone in un bar situato vicino alla piazza Alimonda e condotta alla caserma di Bolzaneto. Fin dal suo arrivo alla caserma fu picchiata e insultata. Nella cella in cui era stata posta dovette rimanere varie volte a gambe divaricate, con le braccia alzate e la faccia contro il muro. Fu costretta a camminare a testa bassa, e fu anche minacciata di stupro. Vomitò due volte ma nessun medico si preoccupò del suo stato di salute e nessuno le diede le protezioni igieniche di cui aveva bisogno. Durante la visita medica, fu obbligata a spogliarsi e a fare piegamenti contro uno specchio. Fu costretta a firmare dei documenti redatti in italiano.
28. La sig.ra Treiber fu arrestata alla scuola Diaz-Pertini il 21 luglio e condotta alla caserma di Bolzaneto. Fu dapprima posta contro un muro nel cortile, dove vide due agenti picchiare una delle persone arrestate e cospargerla di gas irritante; poi fu posta in una cella e costretta a rimanere in piedi, con le gambe divaricate. Dovette mantenere tale posizione per tutta la notte, salvo alcuni momenti in cui fu autorizzata a mettersi in ginocchio; poté stendersi per terra solo all’alba. Sentì gridare «Heil Hitler», vide le sofferenze degli altri occupanti delle celle, che avevano il viso insanguinato o che si erano urinati addosso. Al suo arrivo alla caserma, una agente le aveva tolto le medicine che aveva con sé e di cui aveva bisogno a causa di una recente operazione ai reni. Anche alla sig.ra Treiber fu disegnata una croce rossa sul viso. Mentre passava per i corridoi, fu costretta a camminare a testa bassa e con le mani dietro la nuca e tra agenti che la picchiavano e la insultavano. Il mattino del 22 luglio fu condotta in una stanza in cui, in presenza di numerosi agenti, dovette firmare dei documenti redatti soltanto in italiano. Successivamente, in infermeria, fu costretta a svestirsi, circondata da varie agenti che le strapparono i vestiti e le tagliarono il cappuccio del gilet. Fu poi costretta a fare dei piegamenti e privata dei suoi occhiali. Non poté contattare né la sua famiglia, né un avvocato, né le autorità diplomatiche del suo paese. Ammanettata ad un’altra donna, fu infine trasferita al carcere di Voghera.
29. La sig.ra Zeuner fu arrestata alla scuola Diaz-Pertini. Condotta alla caserma di Bolzaneto, fu dapprima posta contro un muro nel cortile, poi condotta all’interno, in una cella dove fu nuovamente obbligata a rimanere con le gambe divaricate e le braccia alzate. Fu minacciata, ricevette dei colpi e fu obbligata a lasciare la porta della toilette aperta mentre la utilizzava. Nell’infermeria, fu costretta a svestirsi, e anche a togliersi il tampone, davanti a un medico donna e a quattro agenti donne di polizia. Mentre passava in un corridoio, un agente le fece uno sgambetto. Si cercò di costringerla a firmare dei documenti redatti soltanto in italiano. Fu poi trasferita nel carcere di Voghera.
2. Ricorso n. 67599/10
30. La sig.ra Kutschkau fu arrestata alla scuola Diaz-Pertini e trasportata all’ospedale per una frattura della mascella, la perdita di due denti, una sublussazione di altri due denti e un trauma cranico. Fu poi trasferita alla caserma di Bolzaneto il 22 luglio all’alba. Al suo arrivo alla caserma, fu posta contro un muro con le gambe divaricate e le braccia alzate, dapprima nel cortile e poi all’interno. Successivamente dovette rimettersi in questa posizione varie volte all’interno della caserma, dove fu nuovamente picchiata. Quando si recò alla toilette, dovette camminare a testa bassa e con un braccio dietro la schiena, e fu picchiata e insultata. Gli agenti la presero ripetutamente in giro per le sue ferite alla bocca. Fu privata degli effetti personali e delle sue protezioni igieniche e non ricevette cure adeguate nell’infermeria della caserma, dove un medico la minacciò di colpirla di nuovo alla bocca con un manganello che teneva vicino a lui. Non poté contattare né la sua famiglia, né un avvocato, né le autorità diplomatiche del suo paese. Il 23 luglio , a mezzogiorno, fu trasferita nel carcere di Pavia.
31. La sig.ra Partesotti fu arrestata durante la manifestazione del 21 luglio e condotta alla caserma di Bolzaneto all’inizio del pomeriggio. Nel cortile della caserma, nel corridoio e poi nelle celle dove fu condotta, fu posta con le mani e il viso contro il muro. Per tutto il tempo in cui fu detenuta in caserma, fu oggetto di insulti («puttana», «stronza») e di minacce («ti vengo a incendiare l’appartamento», «bisognerebbe stuprarvi tutte, come hanno fatto in Kosovo»). Dovette assistere alle sevizie inflitte ad altre persone arrestate e sentire canti fascisti. Il medico che la visitò omise di rilevare gli ematomi conseguenti al suo arresto. La ricorrente non poté contattare la sua famiglia. Il mattino del 22 luglio, fu trasferita nel carcere di Vercelli.
32. Il sig. Balbas fu arrestato nella scuola Diaz-Pertini e trasportato all’ospedale per una ferita alla caviglia. Al suo arrivo alla caserma di Bolzaneto, la sera del 22 luglio, anch’egli fu insultato e fu marchiato con una croce rossa sul viso. Fu poi messo in una cella dove fu costretto a rimanere con le gambe divaricate e le braccia alzate per circa due ore, e minacciato di essere picchiato se si fosse mosso. Sentì delle grida provenienti da altre celle. Mentre passava nel corridoio della caserma, fu costretto a camminare con la testa abbassata e le mani dietro la nuca tra agenti che lo picchiarono. Fu oggetto di insulti come «imbecille di un comunista», «stronzo», «sei una merda». Il ricorrente non poté contattare né la sua famiglia né le autorità diplomatiche del suo paese. Nella notte tra il 22 e il 23 luglio, fu trasferito in un carcere il cui nome non è stato precisato nel fascicolo.
33. La sig.ra Bruschi fu arrestata alla scuola Diaz-Pertini e condotta alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio. Fu posta contro un muro nel cortile, con le gambe divaricate e le braccia alzate, e minacciata da un agente di essere sodomizzata con un manganello. Fu poi condotta all’interno, costretta a camminare piegata in avanti e con le mani dietro la nuca, poi messa in una cella dove fu nuovamente costretta a rimanere con le gambe divaricate e le braccia in aria per circa tre ore. Sentì delle grida e dei colpi che provenivano da altre celle e vide altre persone arrestate che soffrivano. Durante una visita medica, dovette svestirsi parzialmente davanti a degli uomini, mentre il medico la insultava e diceva che i manifestanti arrestati nella scuola Diaz-Pertini avrebbero dovuto essere tutti fucilati. Il 23 luglio, all’alba, fu trasferita nel carcere di Vercelli.
34. La sig.ra Digenti fu arrestata nella scuola Diaz-Pertini e condotta alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio, nonostante le ferite conseguenti al suo arresto. Fu posta contro un muro nel cortile, a gambe divaricate e braccia alzate, e fu oggetto di insulti e di minacce da parte degli agenti, come «bisognerebbe metterli tutti al palo di esecuzione» o «alla Diaz-Pertini, le teste facevano un rumore divertente quando le sbattevano al muro». All’interno della caserma, prima all’entrata e poi dentro una cella, fu costretta a rimanere di nuovo con le gambe divaricate e le braccia alzate, sotto la custodia di agenti che picchiavano chi si muoveva. Sentì delle grida provenienti da altre celle e vide altre persone con il viso insanguinato. Dovette camminare a testa bassa. Nel corso di una visita medica, dovette spogliarsi davanti a degli uomini. Un medico la insultò e le disse che lei e le altre persone arrestate puzzavano come cani; un altro uomo valutò le tracce dei colpi di manganello da lei ricevuti sul collo dichiarando «hanno fatto un buon lavoro» e fece finta di colpirla di nuovo sul collo con un manganello. Il 23 luglio, all’alba, fu trasferita nel carcere di Vercelli.
35. Il sig. Lorente fu arrestato il 20 luglio nel primo pomeriggio, in piazza Manin, e lasciato ammanettato in una camionetta della polizia. Al suo arrivo alla caserma di Bolzaneto, la sera del 20 luglio, fu costretto a rimanere per un’ora con la faccia contro un muro, all’esterno, prima di essere condotto in una cella dove, in ginocchio e sempre in manette, fu pestato varie volte. Fu anche picchiato quando passava nei corridoi. Nell’infermeria, mentre era disteso su una barella, alcuni agenti gli ruppero una costola a suon di pugni, in presenza di un medico che lo invitò ironicamente a sporgere denuncia per questi maltrattamenti. Condotto poi alla toilette, gli furono abbassati i pantaloni e gli fu dato l’ordine di urinare, trattandolo da omosessuale, mentre un agente faceva finta di sodomizzarlo con un manganello; poi fu colpito con quest’ultimo tra le gambe. Il ricorrente dovette firmare un documento in parte precompilato e interamente redatto in italiano. Il 21 luglio, all’alba, fu trasferito nel carcere di Alessandria.
36. Il sig. Madrazo fu arrestato alla scuola Diaz-Pertini e trasportato all’ospedale a causa delle sue ferite. Al suo arrivo alla caserma di Bolzaneto, la sera del 22 luglio, gli fu disegnata una croce sul viso con un pennarello rosso e fu costretto a camminare piegato in avanti e con le mani sulla nuca. Messo in una cella, fu obbligato a rimanere con le gambe divaricate e le braccia alzate, e la faccia contro il muro. Quando passò nei corridoi, dovette camminare a testa bassa e passare tra alcuni agenti che lo spingevano. Dovette dormire per terra. Non poté contattare le autorità diplomatiche del suo paese. Il mattino del 23 luglio, fu trasferito in un carcere il cui nome non è precisato nel fascicolo.
37. Il sig. Nogueras Chavier fu arrestato alla scuola Diaz-Pertini e trasportato all’ospedale per una frattura del perone sinistro. Al suo arrivo alla caserma di Bolzaneto, la sera del 22 luglio, gli fu disegnata una croce rossa sul viso. Messo in una cella con altre persone arrestate, fu costretto, malgrado avesse dolore alla gamba, a rimanere in piedi, dapprima al centro della cella e poi con la faccia contro il muro, le gambe divaricate e le braccia alzate, senza potersi appoggiare. Ricevette insulti («imbecille di un comunista») e sputi. Sentì le grida di altre persone che venivano colpite. Quando passò nei corridoi, dovette camminare a testa bassa e, una volta, ricevette un calcio nella gamba ferita. Dovette utilizzare le toilette senza poter chiudere la porta. Non fu autorizzato a contattare le autorità diplomatiche del suo paese. Il mattino del 23 luglio, fu trasferito in un carcere il cui nome non è precisato nel fascicolo.
38. La sig.ra Ender fu arrestata nel pomeriggio del 20 luglio in via Montezovetto e condotta alla caserma di Bolzaneto la sera dello stesso giorno. Al suo arrivo in caserma, dovette camminare con le mani legate dietro la schiena e la testa bassa, anche mentre passava nel corridoio, dove fu presa a calci. Portata in una cella con la sig.ra Percivati (ricorrente del ricorso n. 67599/10riportato nel numero 18 della lista allegata), fu costretta a rimanere in ginocchio di fronte al muro e fu oggetto di insulti che, come le spiegò la sig.ra Percivati, erano di carattere sessuale. La sig.ra Ender chiese più volte di andare alla toilette, ma invano, in quanto le fu risposto, per il tramite della sig.ra Percivati, che doveva soltanto «farsela addosso». Alla fine fu condotta alla toilette, e mentre passava in corridoio venne picchiata, sia all’andata che al ritorno. Nelle toilette, una agente le sbatté la testa contro il muro, poi un agente le ordinò di lavarsi le mani e la prese a calci sul sedere. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio, sempre all’interno della caserma, fu condotta in un ufficio dove le fu chiesto se fosse incinta. In seguito alla sua risposta negativa, un agente le diede un pugno nella pancia; poi, degli agenti la picchiarono a sangue varie volte e le tagliarono tre ciocche di capelli per costringerla a firmare dei documenti. Prima di essere trasferita nel carcere di Alessandria, il 21 luglio all’alba, dovette restare nel corridoio in una posizione vessatoria, mentre alcuni agenti le ordinavano di gridare «viva il Duce, viva il fascismo, viva la polizia penitenziaria».
39. Il sig. Graf fu arrestato e picchiato a sangue nel pomeriggio del 20 luglio, vicino alla via Tolemaide, mentre indossava una T-shirt con il simbolo della Croce Rossa in quanto aiutava i medici sul posto in qualità di infermiere; nonostante le sue numerose ferite, fu condotto direttamente alla caserma di Bolzaneto. Al suo arrivo alla caserma, non fu sottoposto immediatamente a una visita medica, sebbene zoppicasse fortemente. Fu condotto in una cella attraverso un corridoio in cui fu fatto passare tra due file di agenti che lo insultarono, lo pizzicarono e gli fecero lo sgambetto. Nella cella, dovette rimanere a gambe divaricate e con le braccia alzate, la faccia contro il muro. Poiché l’interessato non aveva ottemperato all’ordine impartitogli di mettersi al centro della cella, un agente disse ai suoi colleghi di condurlo altrove, altrimenti gli avrebbe «spaccato la faccia». Infine, sottoposto a una visita medica, il ricorrente lamentò forti dolori ai testicoli, che presentavano un ematoma importante; il medico ordinò di condurlo in ospedale, cosa che avvenne solo dopo un nuovo periodo di attesa nella cella in cui dovette restare ancora una volta in posizione vessatoria.
40. Il sig. Larroquelle fu arrestato nel pomeriggio del 20 luglio, nella via Montezovetto, e condotto alla caserma di Bolzaneto la sera dello stesso giorno. Al suo arrivo in caserma, fu posto fuori dalla camionetta con le mani legate dietro la schiena e insultato, poi dovette camminare con la testa bassa in un corridoio all’interno della caserma, mentre degli agenti lo colpivano dandogli calci e pugni. Nella cella, mentre aveva sempre le mani legate dietro la schiena, degli agenti lo colpirono di nuovo con pugni e calci, anche nei testicoli e sulla testa affinché quest’ultima battesse contro il muro. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio, sempre all’interno della caserma, fu condotto in un ufficio in cui cinque o sei agenti lo pestarono e lo insultarono nuovamente; siccome il ricorrente aveva chiesto la traduzione di alcuni dei documenti redatti in italiano che gli erano stati dati da firmare, gli agenti lo colpirono ancora con pugni e calci e gli ruppero tre costole. Nell’infermeria, mentre era nudo, il ricorrente fu oggetto di altri insulti. Dopo la ripresa fotografica, un altro agente gli strinse un braccio fino a causargli un ematoma; egli dovette poi restare nel corridoio e fu obbligato a gridare, con altre persone arrestate, «viva il Duce, viva il fascismo, viva la polizia penitenziaria». Il 21 luglio, all’alba, fu trasferito nel carcere di Alessandria.
41. La sig.ra Percivati fu arrestata nel pomeriggio del 20 luglio, in via Montezovetto, e condotta alla caserma di Bolzaneto la sera stessa. Al suo arrivo alla caserma, mentre si trovava ancora nella camionetta della polizia, fu insultata e coperta di sputi e sentì chiaramente alcuni agenti rallegrarsi per aver portato altre «gatte da pelare» ai loro colleghi della caserma. Condotta in una cella a pugni, calci e manganellate, fu costretta a restare con le mani legate dietro la schiena, la faccia contro il muro e le gambe leggermente divaricate; poi fu trasferita nella stessa cella della sig.ra Ender e di altre persone arrestate. Nella notte, la sig.ra Ender, dopo essere tornata dalla toilette, disse alla ricorrente che era stata pestata (paragrafo 48 supra). Quando la sig.ra Percivati si recò a sua volta alla toilette, fu dapprima picchiata e insultata nel corridoio; poi, la agente di polizia che la seguì nelle toilette le spinse la testa nella tazza, mentre altri agenti, dall’esterno, continuavano a rivolgerle insulti («puttana, ti piace il manganello»). Nella notte tra il 20 e il 21 luglio, fu condotta in un ufficio in cui le fu chiesto se fosse incinta e dove, in seguito al suo reiterato rifiuto di firmare documenti senza averli letti, quattro o cinque agenti la pestarono a sangue e le batterono la testa contro il muro. La ricorrente fu nuovamente colpita con pugni e calci quando fu ricondotta nella sua cella e poi portata nell’ufficio per il rilievo fotografico; al suo ritorno, dovette rimanere nel corridoio con la faccia contro il muro, le braccia alzate e le gambe divaricate, sotto i colpi di manganello. Fu inoltre obbligata a uscire dall’infermeria con gli indumenti intimi per cercare i suoi effetti personali nel corridoio. Durante tutti i suoi spostamenti all’interno della caserma, la ricorrente dovette camminare a testa bassa. Fu privata dei suoi monili e delle sue protezioni igieniche. Dopo essere stata costretta, con altre persone arrestate, a fare il saluto hitleriano e a cantare un inno fascista, fu trasferita, all’alba del 21 luglio, nel carcere di Alessandria.
42. Il sig. Nebot fu arrestato nel pomeriggio del 20 luglio in via Montezovetto, e condotto alla caserma di Bolzaneto la sera dello stesso giorno. Al suo arrivo alla caserma, dovette camminare piegato in avanti e a testa bassa. Mentre passava nel corridoio verso la cella, fu colpito alla pancia e ai testicoli. Nella cella, dovette restare in piedi con le gambe divaricate e le mani dietro la schiena, e fu colpito a intervalli irregolari ai testicoli e alle gambe dagli agenti. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio, fu condotto in un ufficio dove le furono mostrati dei documenti redatti in italiano; poiché aveva chiesto l’assistenza di un traduttore e di un avvocato, fu colpito varie volte finché accettò di firmare tali documenti. Nell’infermeria, lui e il sig. Larroquelle (ricorrente del ricorso n. 67599/10 riportato al numero 12 della lista allegata) furono insultati per il loro «cattivo odore»; il sig. Nebot non ricevette alcuna cura e il medico non gli fece domande sul suo stato di salute, malgrado la presenza di ecchimosi sulla pancia e sul petto. Benché avesse segnalato varie volte, anche in presenza del medico, che era asmatico, fu privato delle sue medicine per tutta la durata della detenzione nella caserma. Nella cella, fu costretto a gridare «viva il Duce, viva Mussolini, viva la polizia penitenziaria» e vide altre persone arrestate costrette a camminare nel corridoio facendo il saluto hitleriano. All’alba del 21 luglio fu trasferito nel carcere di Alessandria.
43. Il sig. Bertacchini fu arrestato nel pomeriggio del 21 luglio. Arrivato alla caserma di Bolzaneto e posto in una cella con altre persone arrestate, fu costretto a rimanere varie ore immobile, con le gambe divaricate, le braccia alzate e la faccia contro il muro, in alcuni momenti anche in punta dei piedi. Vide alcuni agenti pestare altre persone arrestate. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, fu spruzzato del gas irritante nella cella in cui egli si trovava, cosa che causò nausee, problemi respiratori e irritazioni a tutti gli occupanti. Prima di essere sottoposto a visita medica, il ricorrente fu colpito sulla schiena e sulle anche. Il 22 luglio, a mezzogiorno, fu trasferito nel carcere di Alessandria.
44. La sig.ra Flagelli fu arrestata il 21 luglio nel campeggio di via Maggio. Arrivata alla caserma di Bolzaneto, dovette aspettare in piedi nel cortile in pieno sole e fu insultata. Posta in una cella, le giungevano di tanto in tanto le arie di canti fascisti, fu costretta a divaricare le gambe sotto i colpi che le venivano assestati e a rimanere per varie ore in questa posizione, con le braccia alzate. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, fu spruzzato del gas irritante nella cella in cui si trovava la ricorrente, cosa che causò nausee, problemi respiratori e irritazioni a tutti gli occupanti. Poiché un’altra persona arrestata aveva ricevuto dei fogli di carta di giornale invece degli assorbenti igienici che aveva richiesto, la ricorrente, spaventata e umiliata, si astenne dal chiedere a sua volta le protezioni igieniche di cui aveva bisogno. Fu insultata e minacciata di stupro da alcuni agenti ed assistette alle sevizie inflitte ad altre persone arrestate. Nell’infermeria, fu privata di tutti i suoi monili da alcuni agenti e fu tagliato il cappuccio del suo gilet; fu costretta a togliersi tutti i piercing, anche quelli delle zone intime, davanti a quattro o cinque uomini. Il mattino del 22 luglio fu trasferita in un carcere il cui nome non è stato precisato nel fascicolo.
45. La sig.ra Franceschin fu arrestata nel pomeriggio del 21 luglio. Posta in una cella della caserma di Bolzaneto, fu costretta a sedersi per terra con la faccia contro il muro e a rimanere in questa posizione per un certo lasso di tempo, minacciata, se si fosse mossa, di dover rimanere in piedi. Fu trattata più volte da «puttana» e da «stronza» nella cella e mentre passava in corridoio. Vari agenti la presero in giro per la sua T-shirt; il medico fece lo stesso durante la visita medica, mentre alcuni la minacciavano di tirarle la maglia e di strappargliela. L’interessata fu privata di tutti gli effetti personali (monili e orologio), che furono lasciati per terra e non le furono restituiti; gli orecchini, in particolare, le furono strappati con una pinza. Dopo la visita medica, fu condotta nuovamente nella cella e costretta a rimanere in piedi con la faccia contro il muro per varie ore. Il 21 luglio, all’alba, fu trasferita nel carcere di Alessandria.
46. La sig.ra Jaeger fu arrestata alla scuola Diaz-Pertini e, nonostante delle ecchimosi e delle ferite visibili, fu condotta direttamente alla caserma di Bolzaneto. Fu posta contro un muro nel cortile in una posizione vessatoria, mentre alcuni agenti le chiedevano ironicamente di che sesso fosse e la prendevano in giro; all’interno della caserma, due agenti donne la trattarono da «lesbica». All’entrata della caserma, le strapparono la collana con una tenaglia. Condotta in una cella, fu costretta a rimanere con le gambe divaricate e le braccia alzate, sotto i colpi e gli sputi degli agenti. Nel corridoio, dovette sempre camminare a testa bassa e con le mani sulla nuca, sotto molti insulti. Nell’infermeria fu costretta a svestirsi e a fare dei piegamenti; poiché la ricorrente aveva detto che aveva fame, il medico replicò, gridando, che lei e gli altri manifestanti avevano distrutto la città di Genova. In seguito, fu condotta in un ufficio dove le chiesero di firmare dei documenti redatti in italiano, assicurandole che questo avrebbe accelerato la sua scarcerazione. Non fu in alcun momento informata dei motivi del suo arresto né del suo diritto di contattare le autorità diplomatiche del suo paese. All’alba del 23 luglio fu trasferita in un carcere il cui nome non è stato precisato nel fascicolo.
47. Il sig. Camandona fu arrestato il 21 luglio nel campeggio di via Maggio. Arrivato alla caserma di Bolzaneto, dovette aspettare nel cortile, in piedi, in pieno sole e fu colpito alla testa, insultato e minacciato («figlio di puttana, non hai capito nulla, dove credi di essere?»). Posto in una cella, fu costretto a rimanere con la faccia contro il muro e le braccia alzate, in alcuni momenti anche in punta dei piedi. Fu colpito alla schiena, probabilmente a colpi di manganello, e fu oggetto di minacce («ti uccidiamo») e di insulti («anarchico di merda», «imbecille di un comunista»). Fu colpito e insultato ogni volta che cercava di cambiare posizione. Dovette anche ascoltare dei canti fascisti. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, fu spruzzato del gas irritante nella cella che occupava. Il sig. Camandona vide allora una persona giovane che vomitava sangue e fu colpito a sua volta da problemi respiratori. Il ricorrente vide anche degli agenti colpire altre persone arrestate, di cui una soffriva di un handicap alla gamba. Durante la visita medica, fu nuovamente colpito, alcuni agenti incitavano delle donne a guardare fino a che punto sarebbe stato ripugnante; poi, avendo corretto il suo nome che alcuni agenti avevano pronunciato male, ricevette dei calci sul sedere. Dovette rimanere a testa bassa per tutta la durata della detenzione. Il 22 luglio, a mezzogiorno, fu trasferito nel carcere di Alessandria.
48. Il sig. Von Unger fu arrestato alla scuola Diaz-Pertini e condotto alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio. Al suo arrivo alla caserma, fu privato di tutti i suoi effetti personali. Un agente gli strappò una spilla a forma di stella rossa che portava sulla giacca e lo trattò da «stronzo di un comunista». Dovette rimanere in piedi per varie ore, con le gambe divaricate e le braccia alzate. Vide le sofferenze delle altre persone arrestate e sentì delle grida provenienti da altre celle. Per tutta la durata della sua detenzione, fu colpito e insultato, soprattutto quando chiese di recarsi alla toilette. Vi si recò attraverso un corridoio che fu costretto a percorrere piegato in avanti, con la testa bassa e le braccia tenute dietro la schiena da un agente. Dovette utilizzare le toilette senza poter chiudere la porta. Non poté contattare né le autorità diplomatiche del suo paese né la sua famiglia. Fu detenuto alla caserma di Bolzaneto per circa trenta ore.
49. Tutti i ricorrenti, ad eccezione dei sigg. Balbas, Lorente, Larroquelle e Bertacchini e delle sigg.re Ender, Franceschin e Percivati, sostengono di avere sofferto il freddo e la fame alla caserma di Bolzaneto. Essi affermano di avere ricevuto coperte, cibo e acqua soltanto molto tardi e in quantità insufficiente.
50. Tutti i procedimenti avviati contro i ricorrenti per i fatti all’origine del loro arresto si sono conclusi con la loro assoluzione.
C. Il procedimento penale avviato contro alcuni membri delle forze dell’ordine per i fatti commessi alla caserma di Bolzaneto
51. In seguito ai fatti commessi nella caserma di Bolzaneto, la procura di Genova avviò un’azione penale contro quarantacinque persone, tra le quali un vice-questore aggiunto, alcuni membri della polizia e della polizia penitenziaria, alcuni carabinieri e alcuni medici dell’amministrazione penitenziaria. I capi di accusa considerati erano i seguenti: abuso d’ufficio, abuso di potere nei confronti di persone arrestate o detenute, lesioni personali, oltraggio, violenza, minacce, omissione, favoreggiamento personale e falso. Il 27 gennaio 2005 la procura chiese il rinvio a giudizio degli imputati. I ricorrenti e altre persone (155 in totale) si costituirono parti civili.
1. La sentenza di primo grado
52. Con la sentenza n. 3119 del 14 luglio 2008, depositata il 27 novembre 2008, il tribunale di Genova condannò quindici dei quarantacinque imputati a pene comprese tra nove mesi e cinque anni di reclusione e alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Dieci condannati beneficiarono della sospensione condizionale e della non menzione della condanna nel casellario giudiziale. Infine, in applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006 relativa alle condizioni per la concessione dell’indulto, tre condannati beneficiarono di un indulto totale della pena della reclusione e altri due, condannati rispettivamente a tre anni e due mesi e a cinque anni di reclusione, di un indulto di tre anni.
53. Il tribunale ritenne anzitutto che fosse provato che i fatti seguenti erano stati commessi nei confronti di tutti i ricorrenti: insulti, minacce, lesioni personali, posizioni vessatorie, vaporizzazione di prodotti irritanti nelle celle, distruzione di effetti personali, lunghi tempi di attesa per utilizzare le toilette e marcatura con pennarello sul viso delle persone arrestate alla scuola Diaz-Pertini. Osservò che questi trattamenti potevano essere definiti inumani e degradanti ed erano stati commessi in un contesto particolare «e, si sper[ava], unico». Aggiunse che tali episodi avevano leso anche la Costituzione della Repubblica e indebolito la fiducia del popolo italiano nelle forze dell’ordine.
54. Il tribunale sottolineò inoltre che, malgrado la lunga, laboriosa e meticolosa indagine condotta dalla procura, la maggior parte degli autori dei maltrattamenti, la cui esistenza era stata dimostrata durante il dibattimento, non avevano potuto essere identificati a causa di difficoltà oggettive, e in particolare la mancanza di collaborazione da parte della polizia, che derivava a suo avviso da una cattiva interpretazione dello spirito di corpo.
55. Il tribunale precisò infine che l’assenza nel diritto penale del reato di tortura aveva costretto la procura a circoscrivere la maggior parte dei maltrattamenti accertati nell’ambito del reato di abuso d’ufficio. Nella fattispecie, gli agenti, i quadri e i funzionari sarebbero stati accusati di non avere impedito, con il loro comportamento passivo, i maltrattamenti denunciati. A questo proposito, il tribunale ritenne che la maggior parte degli imputati del reato di abuso d’ufficio non potessero essere giudicati colpevoli tenuto conto che: a) il delitto in questione era caratterizzato da un dolo specifico, ossia l’intenzione chiara e accertata dell’agente pubblico di commettere un determinato delitto o di non impedirne la perpetrazione, e che b) l’esistenza di questo dolo specifico non era stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.
56. I colpevoli degli atti controversi e i Ministeri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa furono condannati a pagare le spese e a risarcire le parti civili, e furono accordate somme comprese tra 2.500 e 15.000 euro (EUR) a titolo di provvisionale sul risarcimento danni.
2. La sentenza di appello
57. Adita dagli imputati, dal procuratore presso il tribunale di Genova, dal procuratore generale, dai ministri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa (responsabili civili) e dalle vittime che si erano costituite parti civili, la corte d’appello di Genova, con la sentenza n. 678 del 5 marzo 2010, depositata il 15 aprile 2011, invalidò parzialmente la sentenza impugnata.
58. Per quanto riguarda il reato di abuso di ufficio nei confronti delle persone arrestate, essa confermò anzitutto la condanna a un anno di reclusione con sospensione condizionale per due imputati e l’indulto totale per un terzo imputato. Peraltro, condannò un agente a tre anni e due mesi di reclusione per il reato di lesioni personali. Quest’ultimo beneficiò di un indulto di tre anni di pena.
Per quanto riguarda il reato di falso, essa condannò tre imputati ritenuti non colpevoli in primo grado a una pena di un anno e sei mesi di reclusione con sospensione condizionale e non menzione nel casellario giudiziale e una quarta imputata a due anni di reclusione con sospensione condizionale e non menzione nel casellario giudiziale.
59. Infine, pronunciò un non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dei reati di cui erano accusate ventotto persone, tra cui due persone condannate che hanno beneficiato di un indulto in primo grado (paragrafo 52 supra), ed emise un non luogo a procedere anche nei confronti di un altro imputato deceduto.
60. La corte d’appello condannò inoltre tutti gli imputati (ad eccezione di quest’ultimo) nonché i ministeri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa, alle spese processuali e al risarcimento delle parti civili. Furono accordate somme comprese tra 5.000 e 30.000 EUR a titolo provvisionale sui risarcimenti danni.
61. Nelle motivazioni della sentenza, la corte d’appello precisò anzitutto che, pur essendo intervenuta la prescrizione per i reati in questione, essa doveva provvedere agli effetti civili degli stessi.
62. La corte indicò inoltre che l’attendibilità delle deposizioni delle vittime non era in discussione: da una parte, le stesse deposizioni erano state corroborate attraverso il confronto delle diverse dichiarazioni, tra cui quelle di due infermieri e di un ispettore di polizia, dalle parziali ammissioni di alcuni imputati nonché da vari documenti del fascicolo; d’altra parte, tali testimonianze presentavano le caratteristiche tipiche dei racconti di vittime di eventi traumatici e rivelavano una volontà sincera di restituire la verità.
63. Quanto ai fatti che erano avvenuti alla caserma di Bolzaneto, la corte d’appello osservò che tutte le persone che erano transitate per tale centro erano state sottoposte a sevizie di tutti i tipi, continue e sistematiche, da parte di agenti della polizia penitenziaria o di agenti delle forze dell’ordine che avevano partecipato, per la maggior parte, alla gestione dell’ordine pubblico nella città nel corso delle manifestazioni.
64. In effetti, essa osservò che, sin dal loro arrivo e per tutto il periodo in cui furono detenute nella caserma, tali persone, talvolta già provate dalle violenze subite durante l’arresto, erano state obbligate a rimanere in posizioni vessatorie ed erano state oggetto di percosse, minacce ed ingiurie di natura principalmente politica e sessuale. Anche nell’infermeria, i medici e gli agenti presenti avrebbero palesemente contribuito, con atti od omissioni, a provocare e ad aumentare il terrore e il panico nelle persone arrestate. La corte d’appello osservò che alcune di esse, ferite al momento dell’arresto o in caserma, avrebbero, in ogni caso, necessitato di cure adeguate, se non addirittura di un ricovero immediato. Per di più, osservò anche che il corridoio della caserma era stato soprannominato «il tunnel di agenti», in quanto i numerosi passaggi delle persone arrestate si erano svolti tra due file di agenti che le insultavano e le pestavano.
65. La corte d’appello aggiunse che molti altri elementi avevano stroncato la resistenza fisica e psicologica delle persone arrestate e temporaneamente detenute in caserma, ossia: il divieto di guardare gli agenti; la privazione o la distruzione ingiustificata degli effetti personali; il fatto – pur essendo soggetti al divieto di comunicare tra detenuti e dunque all’impossibilità di cercare un reciproco conforto – di dover assistere alle sevizie inflitte alle altre persone arrestate, di sentire le grida di queste ultime o di vederne il sangue, il vomito, l’urina; l’impossibilità di accedere regolarmente alle toilette e di utilizzarle al riparo dagli sguardi e dagli insulti degli agenti; la privazione di acqua e di cibo; il freddo e la difficoltà di trovare un po’ di riposo nel sonno; l’assenza totale di contati con l’esterno, e la falsa indicazione da parte degli agenti della rinuncia delle persone arrestate al diritto di avvisare un loro famigliare, un avvocato e, se del caso, un diplomatico del loro paese d’origine; infine, l’assenza di informazioni pienamente intelligibili sui motivi dell’arresto delle persone interessate.
66. Insomma, secondo la corte d’appello, queste persone erano state sottoposte a vari trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle sue sentenze Irlanda c. Regno Unito (18 gennaio 1978, serie A n. 25), Raninen c. Finlandia (16 dicembre 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997 VIII), e Selmouni c. Francia ([GC], n. 25803/94, CEDU 1999 V). Per la corte d’appello, tutti gli agenti e il personale sanitario che si trovavano nella caserma erano stati in grado di accorgersi che erano stati inflitti tali trattamenti, il che, a suo parere, era sufficiente nel caso di specie per costituire il reato di abuso d’ufficio.
67. Inoltre, la corte d’appello considerò che tali trattamenti, combinati con la negazione di alcuni diritti della persona arrestata, avevano lo scopo di dare alle vittime la sensazione di essere caduti in uno spazio di negazione dell’habeas corpus, dei diritti fondamentali e di ogni altro aspetto della preminenza del diritto, cosa che, del resto, confermavano a suo parere le varie forme di evocazione del fascismo fatte dagli agenti. In altri termini, infliggendo torture e maltrattamenti, gli autori di tali sevizie avevano voluto generare un processo di spersonalizzazione simile a quello messo in atto nei confronti degli ebrei e delle altre persone internate nei campi di concentramento. Perciò, come se fossero oggetti o animali, le persone arrestate nella scuola Diaz-Pertini, al loro arrivo in caserma, sarebbero state marchiate sul viso con un pennarello.
68. Infine, secondo la corte d’appello, tali fatti avevano avuto conseguenze molto gravi sulle vittime e i loro effetti perduravano ben oltre la fine della detenzione di queste nella caserma di Bolzaneto, in quanto avevano scardinato le categorie mentali ed emotive sulla base delle quali la persona vive la sua quotidianità, le sue relazioni con gli altri, i suoi legami con lo Stato e la sua partecipazione alla vita pubblica. I fatti in questione avrebbero colpito anche le famiglie delle vittime in quanto comunità di scambio di esperienze e di valori.
3. La sentenza della Corte di cassazione
69. Adita dagli imputati, dal procuratore generale, dai ministeri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa (responsabili civili), la Corte di cassazione emise la sentenza n. 37088 il 14 giugno 2013, che fu depositata il 10 settembre 2013. La Corte di cassazione confermò in sostanza la sentenza impugnata.
70. Anzitutto, la Corte osservò che, per quanto riguarda i reati considerati dal tribunale di primo grado e dalla corte d’appello di Genova, la quasi totalità era caduta in prescrizione, alla quale tuttavia tre ufficiali di polizia avevano rinunciato, ad eccezione del reato di lesioni personali considerato a carico di un agente e del reato di falso considerato nei confronti di altri quattro agenti.
71. Essa respinse inoltre l’eccezione di costituzionalità sollevata dal procuratore generale di Genova ritenendo che, in virtù dell’articolo 25 della Costituzione relativo al principio di riserva della legge, solo il legislatore poteva stabilire le sanzioni penali e definire l’applicazione di misure come la prescrizione e l’indulto (per un’analisi più dettagliata, si veda Cestaro c. Italia, n. 6884/11, §§ 75-80, 7 aprile 2015).
72. La corte di cassazione dichiarò inoltre che le violenze perpetrate all’interno della caserma di Bolzaneto erano state ininterrotte ed erano avvenute in condizioni in cui ogni persona presente ne aveva la totale percezione uditiva e visiva, e considerò, basandosi su trentanove testimonianze concordanti, che nella caserma di Bolzaneto i principi fondamentali dello stato di diritto fossero stati soppressi.
73. In conclusione, per quanto riguarda la sorte individuale di ciascuna persona condannata, la Corte di cassazione confermò la condanna dei tre ufficiali che avevano rinunciato alla prescrizione a un anno di reclusione per il reato di abuso d’ufficio (due dei quali beneficiarono della sospensione condizionale dell’esecuzione e il terzo dell’indulto), di altri tre ufficiali a un anno e sei mesi di reclusione con sospensione condizionale per il reato di falso, e di un medico dell’amministrazione penitenziaria a due anni per lo stesso reato. Confermò anche la condanna di un agente a tre anni e due mesi di reclusione per il reato di lesioni personali. Quest’ultimo beneficiò di un indulto di tre anni.
74. Quanto agli altri appellanti, la Corte di cassazione confermò la sentenza impugnata per quanto riguarda la responsabilità civile dei massimi gradi implicati, ossia il vicequestore, il commissario capo e l’ispettore di polizia penitenzia incaricato della sicurezza del sito penitenziario istituito nella caserma di Bolzaneto, e giunse alla stessa constatazione nei confronti di molti ufficiali e agenti della polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine nonché del personale sanitario in questione, tra cui il responsabile del servizio sanitario del sito.
D. L’indagine parlamentare conoscitiva
75. Il 2 agosto 2001 i presidenti della Camera dei Deputati e del Senato decisero che le Commissioni Affari costituzionali delle due camere del Parlamento avrebbero avviato una indagine conoscitiva sui fatti accaduti in occasione dello svolgimento del G8 di Genova. A tale scopo fu creata una commissione composta da diciotto deputati e diciotto senatori.
76. Il 20 settembre 2001 la commissione depositò la relazione contenente le conclusioni della maggioranza, intitolata «Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare conoscitiva sui fatti del G8 di Genova».
77. La relazione citava le dichiarazioni del responsabile delle attività della polizia penitenziaria in occasione del summit, secondo le quali la decisione di assegnare alla polizia penitenziaria e alla polizia giudiziaria una sola e stessa caserma si era rivelata «una scelta infelice».
78. La relazione indicava inoltre che, nella notte tra il 21 e il 22 luglio, la durata della detenzione alla caserma di Bolzaneto delle persone arrestate era stata eccessivamente lunga a causa della chiusura di alcuni uffici, che sarebbe stata dovuta all’insufficienza di personale, all’afflusso delle persone arrestate nella scuola Diaz-Pertini e alle modalità di trasferimento verso gli istituti designati in quanto luoghi di custodia cautelare. La relazione indicava anche che, nel corso della stessa notte, tra le ore 1.35 e le ore 2.00, il ministro della Giustizia si era recato alla caserma di Bolzaneto e aveva visto in una cella una donna e dieci uomini posti con le gambe divaricate e la faccia contro il muro sotto la sorveglianza di un agente.
79. La relazione menzionava inoltre l’esistenza di due inchieste amministrative relative ai fatti avvenuti alla caserma di Bolzaneto, avviate su iniziativa del capo della polizia e del ministro della Giustizia. La relazione provvisoria della seconda inchiesta menzionava undici casi di violenze denunciati dalla stampa o dalle vittime stesse, nonché altre vessazioni segnalate da un infermiere.
80. La relazione indicava infine che, secondo il questore F., sentito dalla commissione parlamentare, alcune dichiarazioni fatte alla stampa o agli inquirenti dalle vittime si erano rivelate false e infondate. Il rapporto concludeva tuttavia che il prefetto F. non aveva precisato a quale luogo di smistamento (Forte San Giuliano, Bolzaneto o entrambi) si riferissero le sue osservazioni.
II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
81. Per quanto riguarda il diritto e la prassi interni pertinenti nelle presenti cause, la Corte rinvia alla sentenza Cestaro (sopra citata, §§ 87-106).
82. La proposta di legge volta a sanzionare la tortura e i maltrattamenti, intitolata «Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano», Senato della Repubblica S-849, è stata votata dal Senato della Repubblica italiana il 5 marzo 2014, poi trasmessa alla Camera dei deputati che ne ha modificato il testo ed ha inviato la nuova versione al Senato il 13 aprile 2015. Il 17 maggio 2017 il Senato ha adottato degli emendamenti alla proposta di legge e comunicato il nuovo testo alla Camera dei deputati. Il 5 luglio 2017 la Camera dei deputati ha definitivamente adottato il testo.
La legge n. 110 del 14 luglio 2017, intitolata «Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano» è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale il 18 luglio 2017, ed è entrata in vigore lo stesso giorno.
III. ELEMENTI PERTINENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE
83. Per quanto riguarda gli elementi di diritto internazionale pertinenti al caso di specie, la Corte rinvia alla sentenza Cestaro (sopra citata, §§ 107-121).
IN DIRITTO
I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE
84. I ricorrenti lamentano di essere stati sottoposti ad atti di violenza che definiscono torture e trattamenti inumani e degradanti.
Invocano l’articolo 3 della Convenzione, che recita:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
85. Essi affermano anche che l’inchiesta è stata lacunosa a causa delle sanzioni ai loro occhi inadeguate inflitte alle persone considerate responsabili. A questo proposito, denunciano in particolare la prescrizione applicata alla maggior parte dei reati ascritti, l’indulto di cui alcuni condannati avrebbero beneficiato e l’assenza di sanzioni disciplinari nei confronti di queste stesse persone. In questo ambito, essi sostengono che, astenendosi dall’inserire nell’ordinamento giuridico nazionale il reato di tortura, lo Stato non ha adottato le misure necessarie che permettano di prevenire violenze e altri maltrattamenti simili a quelli di cui si dicono vittime.
Invocano a questo proposito gli articoli 3 e 13 della Convenzione, considerati separatamente e in combinato disposto.
86. Tenuto conto della formulazione delle doglianze dei ricorrenti, la Corte ritiene che sia opportuno esaminare la questione dell’assenza di un’inchiesta effettiva sui maltrattamenti dedotti unicamente sotto il profilo dell’elemento procedurale dell’articolo 3 della Convenzione (Dembele c. Svizzera, n. 74010/11, § 33, 24 settembre 2013, con i riferimenti ivi contenuti).
A. Sulla domanda di cancellazione dal ruolo del ricorso n. 67599/10 per quanto riguarda i ricorrenti indicati ai numeri 5, 9-11, 14, 17 e 18 della lista allegata
87. La Corte ha ricevuto delle dichiarazioni di composizione amichevole, firmate dalle parti ricorrenti il 27 luglio 2016 e dal Governo il 9 settembre 2016. Quest’ultimo si impegna a versare a ciascun ricorrente la somma di 45.000 EUR per danno materiale e morale e per le spese sostenute sia per il procedimento dinanzi alla Corte che per quello dinanzi ai giudici nazionali, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta dagli interessati, i quali hanno rinunciato a ogni altra pretesa nei confronti dell’Italia per quanto riguarda i fatti all’origine dei loro ricorsi.
Tale somma sarà versata entro i tre mesi successivi alla data della notifica della decisione della Corte. In assenza di versamento entro detto termine, il Governo si impegna a corrispondere, a decorrere dalla scadenza di quest’ultimo e fino al versamento effettivo della somma in questione, un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, aumentato di tre punti percentuali. Tale versamento equivarrà alla conclusione definitiva della causa.
88. La Corte prende atto della composizione amichevole alla quale sono giunte le parti, e ritiene che essa sia ispirata al rispetto dei diritti dell’uomo come riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli, e non ravvisa peraltro alcun motivo che giustifichi la prosecuzione dell’esame del ricorso nei confronti dei ricorrenti interessati.
89. Pertanto, è opportuno cancellare il ricorso dal ruolo per quanto riguarda i ricorrenti indicati ai numeri 5, 9-11, 14, 17 e 18 della lista allegata. La Corte continua l’esame del ricorso n. 67599/10 nei confronti degli altri ricorrenti.
B. Sul ricorso n. 28923/09 e sul ricorso n. 67599/10 per quanto riguarda i ricorrenti indicati ai numeri 1-4, 6-8, 12, 13, 15, 16 e 19 della lista allegata.
1. Obiezione preliminare
L’eccezione del Governo relativa al carattere tardivo delle osservazioni e della domanda di equa soddisfazione dei ricorrenti del ricorso n. 67599/10
90. Il Governo sostiene anzitutto che le osservazioni e le domande di equa soddisfazione dei ricorrenti del ricorso n. 67599/10 sono state presentate tardivamente, e indica che la scadenza fissata ai ricorrenti dalla Corte per il deposito delle loro osservazioni e domande di equa soddisfazione era il 21 febbraio 2013 e che queste ultime sarebbero state ricevute dalla Corte solo il 27 febbraio 2013.
91. La Corte rammenta che, ai sensi dell’articolo 38 § 1 del suo regolamento, le osservazioni scritte devono essere depositate entro il termine fissato dal presidente della camera o dal giudice relatore e che, salvo decisione contraria del presidente della camera, le osservazioni tardive non possono essere acquisite al fascicolo. Essa rammenta anche che, ai sensi del secondo paragrafo dello stesso articolo, è la data certificata dell’invio del documento ad essere presa in considerazione per il calcolo del termine e che, in assenza di tale data, terrà conto della data del ricevimento del documento.
92. Nel caso di specie, essa rileva che le osservazioni controverse sono state inviate il 21 febbraio 2013, termine ultimo indicato alla parte ricorrente. Di conseguenza, le osservazioni e le domande di equa soddisfazione non possono essere considerate tardive.
2. Sulla ricevibilità
a) L’eccezione del Governo relativa alla perdita della qualità di vittima
i. Tesi delle parti
93. Il Governo convenuto afferma che i ricorrenti hanno perduto la qualità di «vittima». Richiamando la giurisprudenza a suo parere pertinente della Corte nel caso di specie (Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1996 III, Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, § 44, CEDU 1999 VI, Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, § 142, CEDU 2000 IV, e Gäfgen c. Germania [GC], n. 22978/05, §§ 115-116, CEDU 2010), assicura che i tribunali italiani, nell’ambito del procedimento penale, hanno riconosciuto le violazioni subite dai ricorrenti in maniera esplicita o almeno sostanziale. Aggiunge che, all’esito dello stesso procedimento, i ricorrenti hanno ottenuto, in quanto parti civili, il riconoscimento del diritto alla riparazione del danno subito e il versamento di indennità provvisionali sui risarcimenti danni, e argomenta inoltre che la dichiarazione di intervenuta prescrizione di alcuni dei reati attribuiti agli agenti accusati non ha privato i ricorrenti della possibilità di adire i giudici civili allo scopo di ottenere la liquidazione totale e definitiva del risarcimento per il danno subito.
94. Sempre sotto il profilo dell’articolo 34 della Convenzione, il Governo si basa sulla decisione resa nella causa Palazzolo c. Italia ((dec.), §§ 105-108 e 110, n. 32328/09, 24 settembre 2013) per sostenere, da una parte, che i ricorrenti non hanno esaurito le vie di ricorso interne e, dall’altra, che non spetta alla Corte valutare essa stessa gli elementi di fatto che hanno condotto un giudice nazionale ad adottare una decisione, a meno di non disattendere i limiti della sua missione ed erigersi a giudice di quarto grado.
95. I ricorrenti, citando tra altre la sentenza O’Keeffe c. Irlanda ([GC], n. 35810/09, § 115, CEDU 2014 (estratti)), affermano che il processo penale non ha né espressamente né in sostanza riconosciuto una violazione dell’articolo 3 della Convenzione e questo, secondo loro, in quanto il sistema giuridico italiano non prevede alcun reato simile al tipo di atti vietati dalla Convenzione.
96. Essi affermano anche che, nella parte restante del suo ragionamento, il Governo non fa che ribadire gli argomenti che aveva esposto relativamente alla sua deduzione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
ii. Valutazione della Corte
97. La Corte osserva che il Governo associa, nel suo ragionamento, argomenti idonei a contestare la qualità di vittima dei ricorrenti a deduzioni essenzialmente legate al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Pertanto, queste ultime saranno trattate nell’ambito dell’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
98. Per quanto riguarda la perdita della qualità di vittima, la Corte ritiene che la questione centrale che è stata posta sia strettamente legata al merito del motivo di ricorso relativo all’articolo 3 della Convenzione e al suo elemento procedurale. Di conseguenza, essa decide di unire questa eccezione al merito (Cestaro, sopra citata, § 136).
b) L’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne
i. Tesi delle parti
99. Invocando l’articolo 35 § 1 della Convenzione, il Governo afferma che, al momento della presentazione dei due ricorsi (rispettivamente il 27 maggio 2009 e il 3 settembre 2010), il procedimento penale era ancora pendente, e indica in particolare che, per quanto riguarda il ricorso n. 28923/09, la corte d’appello di Genova non si era ancora pronunciata sui fatti controversi all’origine del ricorso. Per quanto riguarda il ricorso n. 67599/10, il Governo espone che la corte d’appello aveva depositato solo il dispositivo della sua sentenza e che la corte di cassazione non era ancora stata adita.
100. Pertanto il Governo afferma che i ricorrenti non hanno esaurito le vie di ricorso interne in materia penale e che questi ultimi, presentando i loro ricorsi prima della fine del procedimento penale, avrebbero di fatto chiesto alla Corte di sostituirsi alle autorità giudiziarie nazionali in violazione del principio di sussidiarietà.
101. I ricorrenti replicano che, a causa dell’assenza di disposizioni legislative penali che reprimano le pratiche contrarie all’articolo 3 della Convenzione, la qualificazione dei fatti operata dai giudici nazionali era insufficiente rispetto alla gravità dei fatti in questione. Inoltre, essi ribadiscono che questa qualificazione non ha potuto impedire l’applicazione della prescrizione alla quasi totalità dei reati in causa, e affermano, inoltre, che le pene adottate sono state fortemente ridotte in applicazione delle disposizioni della legge n. 241/2006 relative alla concessione dell’indulto di tre anni. Essi deducono infine che il bilancio del procedimento penale interno è soltanto di otto condanne definitive per reati minori (abuso d’ufficio, falso e lesioni volontarie) e di quattro assoluzioni, e che la prescrizione è stata applicata per tutti gli altri reati ascritti ai quarantacinque imputati. In materia di prescrizione, essi indicano in particolare che il procuratore generale di Genova ha sollevato dinanzi alla Corte di cassazione una eccezione di incostituzionalità relativa all’applicazione della prescrizione e dell’indulto a reati che potevano essere qualificati come tortura ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione.
102. Pertanto, essi ritengono che il sistema nazionale non offra un rimedio adeguato ed efficace contro gli atti di tortura e citano a questo scopo le sentenze emesse nelle cause Zontul c. Grecia (n. 12294/07, § 96, 17 gennaio 2012), Gäfgen (sopra citata, § 117) e Beganović c. Croazia (n. 46423/06, §§ 69 72, 25 giugno 2009).
ii. Valutazione della Corte
103. Ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione, la Corte può essere adita solo dopo che siano stati esauriti tutti i mezzi di ricorso interni, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti, ed entro un termine di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva.
104. La Corte ha già dichiarato, in alcune cause presentate prima che si fosse concluso il procedimento penale per maltrattamenti ai sensi dell’articolo 3, che l’eccezione del governo convenuto relativa al carattere prematuro del ricorso aveva perso la propria ragione di essere una volta concluso il procedimento penale in questione (Kopylov c. Russia, n. 3933/04, § 119, 29 luglio 2010, che rinvia a Samoylov c. Russia, n. 64398/01, § 39, 2 ottobre 2008; e Cestaro, sopra citata, § 145).
105. Inoltre se, in linea di principio, il ricorrente ha l’obbligo di tentare adeguatamente vari ricorsi interni prima di adire la Corte, e se il rispetto di tale obbligo si valuta alla data di presentazione del ricorso (Baumann c. Francia, n. 33592/96, § 47, CEDU 2001 V (estratti)), la Corte tollera che l’ultimo gradino di tali ricorsi sia raggiunto poco dopo il deposito del ricorso, ma prima che essa sia chiamata a pronunciarsi sulla ricevibilità di quest’ultimo (Karoussiotis c. Portogallo, n. 23205/08, §§ 57 e 87-92, CEDU 2011 (estratti), Rafaa c. Francia, n. 25393/10, § 33, 30 maggio 2013 e Cestaro, sopra citata, §§ 146 e 205-208 con i riferimenti ivi citati).
106. Nella fattispecie, la Corte rammenta che i ricorrenti sostengono di essere stati vittime di atti di tortura che sarebbero stati commessi tra il 20 e il 21 luglio 2001 (paragrafi 18-50 supra).
107. Essa rileva inoltre che il procedimento penale avviato contro le forze dell’ordine relativamente ai fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto, procedimento nel quale i ricorrenti si sono costituiti parti civili nel gennaio 2005 (ad eccezione della sig.ra Kutschkau, che si è costituita parte civile nel febbraio 2005, e del sig. Galloway e della sig.ra Ender, che l’hanno fatto nell’ottobre 2005), ha portato, nel novembre 2008, al deposito della sentenza di primo grado (paragrafo 52 supra) e, nell’aprile 2011, al deposito della sentenza di appello (paragrafo 57 supra). Essa ritiene che l’applicazione della prescrizione e dell’indulto siano due aspetti che influiscono sulla valutazione dell’esaurimento delle vie di ricorso interne.
108. In queste circostanze, tenuto conto in particolare dei fatti dedotti, la Corte non può rimproverare ai ricorrenti di averle sottoposto le loro doglianze relative alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione nel maggio 2009 e nel settembre 2010, ossia rispettivamente quasi otto anni e più di nove anni dopo i fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto, senza aver atteso la sentenza della Corte di cassazione emessa il 14 giugno 2013 e depositata il 10 settembre 2013 (paragrafo 69 supra). Di conseguenza, questa parte dell’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in materia penale non può essere accolta.
c) L’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in materia civile
i. Tesi delle parti
109. Il Governo afferma anche che i ricorrenti avrebbero dovuto avviare un’azione civile di risarcimento danni allo scopo di ottenere l’indennizzo dei danni materiale e morale derivanti dalle violenze di cui sarebbero stati vittime. Poiché gli interessati non l’hanno fatto, il Governo ritiene che questi ultimi non abbiano permesso allo Stato italiano di risolvere le cause controverse a livello interno, come vuole il principio di sussidiarietà.
110. Il Governo indica che i ricorrenti hanno ricevuto, in quanto parti civili, delle indennità provvisionali di importo compreso tra 10.000 EUR e 30.000 EUR. Aggiunge che, in alcuni casi, i tribunali nazionali hanno accordato indennità provvisionali dell’importo di 210.000 EUR.
111. I ricorrenti contestano la tesi del Governo. In effetti, affermano che il solo indennizzo non può bastare per porre rimedio a una violazione dell’articolo 3 della Convenzione quando lo Stato non ha adottato misure ragionevoli per adempiere agli obblighi per esso derivanti da tale articolo. Basandosi sulla giurisprudenza della Corte, essi ritengono che, se la reazione delle autorità agli episodi di maltrattamenti si limita a un semplice indennizzo, senza che i responsabili degli atti in causa siano perseguiti e puniti, gli agenti dello Stato potrebbero in pratica sfuggire alle conseguenze legate alla violazione dei diritti delle vittime di maltrattamenti, privando di fatto della sua sostanza il divieto assoluto espresso dall’articolo 3 della Convenzione. A tal fine, citano le sentenze Assenov e altri c. Bulgaria, (28 ottobre 1998, § 71, Recueil 1998 VIII), Gäfgen (sopra citata, § 119), Krastanov c. Bulgaria (n. 50222/99, § 60, 30 settembre 2004), Çamdereli c. Turchia (n. 28433/02, § 29, 17 luglio 2008), e Vladimir Romanov (sopra citata, § 78).
112. In conclusione, i ricorrenti lamentano che non esisteva alcun rimedio effettivo ed efficace a livello interno.
ii. Valutazione della Corte
113. La Corte rammenta che, secondo i principi generali relativi alla regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne (Vučković e altri c. Serbia ([GC], nn. 17153/11 e altri, §§ 69-77, 25 marzo 2014), l’articolo 35 § 1 della Convenzione prescrive l’esaurimento dei soli ricorsi che siano relativi alle violazioni lamentate, disponibili e adeguati. Un ricorso è effettivo quando è disponibile sia in teoria che in pratica all’epoca dei fatti, ossia quando è accessibile e può offrire al ricorrente la riparazione di quanto da lui lamentato, e quando presenta prospettive ragionevoli di successo (Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 68, Recueil 1996 IV, e Demopoulos e altri c. Turchia (dec.) [GC], nn. 46113/99, 3843/02, 13751/02, 13466/03, 10200/04, 14163/04, 19993/04 e 21819/04, § 70, CEDU 2010).
114. La Corte rammenta anche che deve applicare la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne tenendo debitamente conto del contesto, dando prova di una certa flessibilità e senza eccessivo formalismo. Inoltre, ha ammesso che la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne non si accontenta di una applicazione automatica e non riveste un carattere assoluto; per controllarne il rispetto, bisogna considerare le circostanze della causa. Ciò significa in particolare che la Corte deve tenere conto in maniera realistica del contesto giuridico e politico nel quale si inseriscono i ricorsi nonché della situazione personale dei ricorrenti (si vedano, tra molte altre, Akdivar e altri, sopra citata, § 69, Selmouni, sopra citata, § 77, Kozacıoğlu c. Turchia [GC], n. 2334/03, § 40, 19 febbraio 2009, e Reshetnyak c. Russia, n. 56027/10, § 58, 8 gennaio 2013).
115. Nella sua valutazione dell’effettività della via di ricorso indicata dal governo convenuto, la Corte deve dunque tenere conto della natura delle doglianze e delle circostanze della causa per stabilire se questa via di ricorso fornisse al ricorrente un mezzo adeguato per riparare alla violazione denunciata (Reshetnyak, sopra citata, § 71, riguardante l’inadeguatezza di un ricorso risarcitorio in caso di violazione continua dell’articolo 3 della Convenzione in ragione delle condizioni di detenzione e, in particolare, dell’aggravamento dello stato di salute del detenuto, e De Souza Ribeiro c. Francia [GC], n. 22689/07, §§ 82-83, CEDU 2012, in cui la Corte ha rammentato che l’esigenza di un ricorso di pieno diritto sospensivo contro l’espulsione dell’interessato dipendeva dalla natura della violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli che avrebbe comportato l’espulsione).
116. Nel caso di specie, la Corte osserva che, come per quanto riguarda la perdita della qualità di vittima (paragrafi 93-98 supra), le tesi delle parti divergono profondamente per quanto attiene alla portata degli obblighi che derivano dall’articolo 3 della Convenzione e ai mezzi necessari e sufficienti per porre rimedio alle violazioni in questione.
117. Considerata la sua decisione di unire al merito la questione della perdita della qualità di vittima, essa ritiene che lo stesso debba avvenire per l’eccezione di mancato esaurimento del mezzo di ricorso in materia civile.
d) Altri motivi di irricevibilità
118. Constatando che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.
3. Sul merito
a) Sull’elemento materiale dell’articolo 3 della Convenzione
i. Tesi delle parti
α) I ricorrenti
119. I ricorrenti, arrestati e poi condotti alla caserma di Bolzaneto, affermano di essere stati insultati, minacciati e percossi, e di essere stati oggetto di altri tipi di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine. Deplorano le vive sofferenze fisiche e psicologiche che tali violenze avrebbero causato loro.
120. I ricorrenti denunciano anche l’impossibilità per loro di contattare un parente, un avvocato o, se del caso, un rappresentante consolare, nonché l’assenza di una presa in carico medica adeguata al loro stato di salute, in quanto le visite mediche cui sono stati sottoposti sarebbero state secondo loro superficiali, spesso umilianti e realizzate in presenza di agenti delle forze dell’ordine (paragrafi 18-50). Peraltro, i ricorrenti del ricorso n. 67599/10 considerano ancora più grave il comportamento dei medici dell’amministrazione penitenziaria che, secondo loro, avrebbero contravvenuto al loro dovere professionale di prestare assistenza e di assicurarsi che ciascun detenuto ricevesse le cure necessarie.
121. Essi considerano infine che lo Stato non abbia messo in atto le misure necessarie che avrebbero evitato loro di essere sottoposti a tali trattamenti e ritengono che le azioni degli agenti e dei funzionari implicati non possano trovare altra giustificazione che la volontà di punirli, loro e le altre persone arrestate, per le opinioni politiche e per la partecipazione alle manifestazioni contro il summit del G8 di Genova. Infine, secondo loro, gli autori dei maltrattamenti in causa hanno agito con il consenso e la connivenza dei loro superiori gerarchici presenti alla caserma di Bolzaneto.
122. Pertanto, tenuto conto di tutti questi elementi, i ricorrenti ritengono di essere stati vittime di tortura e di trattamenti inumani e degradanti.
β) Il Governo
123. Il Governo assicura di non sottovalutare la gravità dei fatti che sono avvenuti all’interno della caserma di Bolzaneto tra il 20 e il 23 luglio 2001, e ritiene che le azioni commesse dagli agenti di polizia costituiscano dei reati gravi e deplorevoli ai quali lo Stato italiano avrebbe reagito in maniera adeguata, attraverso l’azione dei tribunali, ristabilendo lo stato di diritto indebolito da questo episodio.
124. In cambio di «completo riconoscimento da parte dell’Italia delle violazioni dei diritti perpetrate», il Governo dichiara di aderire «al giudizio dei giudici nazionali, che hanno censurato molto duramente il comportamento degli agenti di polizia» all’epoca dei fatti.
125. Nondimeno, esso afferma che i fatti in questione non possono essere visti come l’espressione di una politica generale dell’amministrazione italiana. A suo parere, i fatti che hanno avuto luogo alla caserma di Bolzaneto costituiscono un episodio isolato ed eccezionale, il cui carattere arbitrario e la gravità delle modalità di presa in carico e di trattamento delle persone arrestate rientrano nelle esigenze specifiche di protezione dell’ordine pubblico durante il G8 di Genova, un contesto assolutamente particolare caratterizzato dalla presenza di migliaia di manifestanti provenienti da tutta l’Europa e aggravato dai numerosi incidenti e scontri che si sarebbero verificati durante le manifestazioni.
ii. Valutazione della Corte
α) Principi generali
126. I principi generali applicabili in materia sono stati recentemente richiamati nelle sentenze Bouyid c. Belgio ([GC], n. 23380/09, §§ 88-90, CEDU 2015) e Bartesaghi Gallo e altri c. Italia (nn. 12131/13 e 43390/13, §§ 111-113, 22 giugno 2017).
β) Applicazione di questi principi alle circostanze delle presenti cause
127. La Corte osserva anzitutto che i tribunali interni hanno stabilito in maniera dettagliata e approfondita, con esattezza e al di là di ogni ragionevole dubbio i maltrattamenti di cui sono state oggetto le persone condotte alla caserma di Bolzaneto (paragrafi 18-50 supra) e non rileva elementi convincenti per potersi discostare dalle conclusioni alle quali sono giunti (Gäfgen, sopra citata, § 93). Le testimonianze delle vittime sono state confermate dalle deposizioni dei membri delle forze dell’ordine e della pubblica amministrazione, dalle parziali ammissioni degli imputati e dai documenti a disposizione dei magistrati, in particolare i rapporti medici e le perizie giudiziarie.
128. Pertanto, la Corte considera accertate sia le aggressioni fisiche e verbali lamentate dai ricorrenti che le conseguenze derivanti da queste ultime. Essa constata in particolare quanto segue:
fin dal loro arrivo alla caserma di Bolzaneto, ai ricorrenti è stato vietato di alzare la testa e guardare gli agenti che li circondavano; coloro che erano stati arrestati alla scuola Diaz-Pertini sono stati marchiati con una croce sulla guancia fatta con un pennarello; tutti i ricorrenti sono stati costretti a rimanere immobili, con le braccia e le gambe divaricate, di fronte alle grate all’esterno della caserma; la stessa posizione vessatoria è stata imposta a ciascuno all’interno delle celle;
all’interno della caserma, i ricorrenti erano costretti a muoversi piegati in avanti e con la testa bassa; in questa posizione, dovevano attraversare «il tunnel di agenti», ossia il corridoio della caserma nel quale alcuni agenti si mettevano da ciascun lato per minacciarli, colpirli e lanciare loro insulti di carattere politico o sessuale (paragrafo 64 supra);
durante le visite mediche, i ricorrenti sono stati oggetto di commenti, di umiliazioni e a volte di minacce da parte del personale medico o degli agenti di polizia presenti;
gli effetti personali dei ricorrenti sono stati confiscati, o addirittura distrutti in maniera aleatoria;
tenuto conto dell’esiguità della caserma di Bolzaneto nonché del numero e della ripetizione degli episodi di brutalità, tutti gli agenti e i funzionari di polizia presenti erano consapevoli delle violenze commesse dai loro colleghi o dai loro subalterni;
i fatti di causa non si possono ricondurre a un periodo determinato durante il quale, senza che questo possa in alcun modo giustificarlo, la tensione e le passioni esacerbate avrebbero portato a questi eccessi: tali fatti si sono svolti durante un lasso di tempo considerevole, ossia nella notte tra il 20 e il 21 luglio, e il 23 luglio, il che significa che varie squadre di agenti si sono avvicendate all’interno della caserma senza alcuna diminuzione significativa in frequenza o in intensità degli episodi di violenza.
129. Per quanto riguarda i racconti individuali dei ricorrenti, la Corte può solo constatare la gravità dei fatti descritti dagli interessati. Ciò che emerge dal materiale probatorio dimostra nettamente che i ricorrenti, che non hanno opposto alcuna forma di resistenza fisica agli agenti, sono stati vittime di una successione continua e sistematica di atti di violenza che hanno provocato vive sofferenze fisiche e psicologiche ((Gutsanovi c. Bulgaria, n. 34529/10, § 126, CEDU 2013 (estratti)). Queste violenze sono state inflitte a ciascun individuo in un contesto generale di uso eccessivo, indiscriminato e manifestamente sproporzionato della forza (Bouyid, sopra citata, § 101).
130. Questi episodi si sono svolti in un contesto deliberatamente teso, confuso e rumoroso, in cui gli agenti gridavano contro individui arrestati e intonavano di tanto in tanto canti fascisti. Nella sua sentenza n. 678/10 del 15 aprile 2011, la corte d’appello di Genova ha accertato che la violenza fisica e morale, lungi dall’essere episodica, è stata, al contrario, indiscriminata, costante e in qualche modo organizzata, il che ha avuto come risultato quello di portare a «una sorta di processo di disumanizzazione che ha ridotto l’individuo a una cosa sulla quale esercitare la violenza» (paragrafo 67 supra).
131. La gravità dei fatti della presente causa risiede anche in un altro aspetto che, agli occhi della Corte, è altrettanto importante. Infatti, essa ha rammentato ripetutamente che la situazione di vulnerabilità nella quale si trovano le persone in stato di fermo impone alle autorità il dovere di proteggerle (idem, § 107). Ora, i fatti controversi, nel complesso, dimostrano che i membri della polizia presenti all’interno della caserma di Bolzaneto, i semplici agenti e, per estensione, la catena di comando, hanno gravemente contravvenuto al loro dovere deontologico primario di protezione delle persone poste sotto la loro sorveglianza.
132. Ciò è del resto sottolineato dal tribunale di primo grado di Genova (paragrafo 53 supra), che ha ritenuto che gli agenti perseguiti avessero tradito il giuramento di fedeltà e di adesione alla Costituzione e alle leggi repubblicane compromettendo, con il loro comportamento, la dignità e la probità della polizia italiana in quanto categoria professionale e, pertanto, indebolendo la fiducia della popolazione italiana nelle forze dell’ordine.
133. La Corte non può pertanto ignorare la dimensione simbolica di tali atti, né il fatto che i ricorrenti siano stati non soltanto vittime dirette di sevizie ma anche testimoni impotenti dell’uso incontrollato della violenza nei confronti delle altre persone arrestate. Alle offese all’integrità fisica e psicologica individuale si è dunque aggiunto lo stato di angoscia e di stress causato dagli episodi di violenze alle quali hanno assistito (Iljina e Sarulienė c. Lituania, n. 32293/05, § 47, 15 marzo 2011).
134. Basandosi in particolare sulle conclusioni della corte d’appello di Genova (paragrafo 67 supra) e della Corte di cassazione (paragrafo 72 supra), la Corte ritiene che i ricorrenti, trattati come oggetti nelle mani dei pubblici poteri, abbiano vissuto per tutta la durata della loro detenzione in una zona di «non diritto» in cui le garanzie più elementari erano state sospese.
135. In effetti, oltre agli episodi di violenza sopra menzionati, la Corte non può ignorare le altre violazioni dei diritti dei ricorrenti che si sono verificate nella caserma di Bolzaneto. Nessun ricorrente ha potuto contattare un parente, un avvocato di fiducia o, se del caso, un rappresentante consolare. Gli effetti personali sono stati distrutti sotto gli occhi dei loro proprietari. L’accesso alle toilette veniva negato e, in ogni caso, i ricorrenti sono stati fortemente dissuasi dal recarvisi a causa degli insulti, delle violenze e delle umiliazioni subite dalle persone che hanno chiesto di accedervi. Inoltre, si deve osservare che l’assenza di cibo e di lenzuola in quantità sufficiente che, secondo i giudici nazionali, non derivava tanto da una volontà deliberata di privarne i ricorrenti quanto da una errata pianificazione del funzionamento del sito, non può che aver amplificato la situazione di sconforto e il livello di sofferenza provati dai ricorrenti.
136. In conclusione, la Corte non può ignorare che, nel caso di specie, come risulta dalle sentenze nazionali (paragrafo 67 supra), gli atti che sono stati commessi nella caserma di Bolzanetosono l’espressione di una volontà punitiva e di ritorsioni nei confronti dei ricorrenti, privati dei loro diritti e del livello di tutela riconosciuto a ogni individuo dall’ordinamento giuridico italiano (si veda, mutatis mutandis, Cestaro, sopra citata, § 177).
137. Questi elementi bastano alla Corte per concludere che i ripetuti atti di violenza subiti dai ricorrenti all’interno della caserma di Bolzaneto devono essere visti come atti di tortura. Pertanto, vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’articolo 3 della Convenzione.
b) Sull’elemento procedurale dell’articolo 3 della Convenzione
i. Tesi delle parti
α) I ricorrenti
138. I ricorrenti, nonostante la meticolosa indagine condotta dal procuratore della Repubblica di Genova e le conclusioni del tribunale di primo grado e della corte d’appello di Genova che hanno permesso di accertare i fatti lamentati, rimproverano ai giudici di avere applicato la prescrizione alla quasi totalità dei reati ascritti agli imputati. Essi indicano che sono stati considerati solo dei reati minori nei confronti di un numero ridotto di imputati, che avrebbero inoltre, in ragione della breve durata delle pene previste, beneficiato della sospensione condizionale o di un indulto in applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006. Perciò, essi denunciano l’esito del procedimento penale e richiamano a questo riguardo le sentenze della Corte Abdülsamet Yaman c. Turchia (n. 32446/96, § 55, 2 novembre 2004) e Ali e Ayşe Duran c. Turchia (n. 42942/02, § 69, 8 aprile 2008).
139. I ricorrenti precisano inoltre che i responsabili dei fatti della caserma di Bolzaneto non sono stati puniti con alcun provvedimento disciplinare di sospensione durante il processo o di sanzione all’esito dello stesso, e che, successivamente, hanno persino ottenuto delle promozioni.
140. Essi criticano pertanto l’assenza nell’ordinamento giuridico interno di un reato che punisca la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, disposizione legislativa che avrebbe permesso secondo loro di perseguire non soltanto gli autori materiali ma anche i corresponsabili degli atti in questione, in particolare i superiori gerarchici. In effetti, essi argomentano che la qualificazione giuridica dei fatti applicata dai giudici nazionali prevedeva un elemento psicologico specifico che il divieto di tortura non prevedrebbe, il che permetterebbe di perseguire gli autori materiali e coloro che, in ragione della loro connivenza o del loro consenso, hanno partecipato alla perpetrazione di atti che possono essere definiti tortura o trattamenti inumani o degradanti.
141. La necessità di criminalizzare la tortura e gli altri maltrattamenti si spiegherebbe inoltre con la necessità di evitare l’applicazione della prescrizione o di altre misure di clemenza ad atti particolarmente gravi e che suscitano notevoli disordini a livello sociale.
142. Quanto alla possibilità di ottenere un indennizzo nell’ambito del procedimento civile di risarcimento danni, i ricorrenti si basano sulla giurisprudenza della Corte (Gäfgen, sopra citata, §§ 116-119) per sottolineare l’ineffettività dell’azione civile nel caso di atti deliberati di maltrattamenti.
β) Il Governo
143. Il Governo contesta la tesi dei ricorrenti e afferma che lo Stato ha adempiuto al proprio obbligo positivo di condurre un’inchiesta indipendente e imparziale. Afferma che le autorità hanno adottato tutte le misure che permettevano l’identificazione e la condanna dei responsabili dei maltrattamenti controversi a una pena adeguata, come esige la giurisprudenza della Corte.
144. Il Governo ritiene in particolare che, all’esito di un procedimento penale complesso e approfondito che ha permesso di accertare i fatti denunciati, i quarantacinque poliziotti perseguiti sono stati condannati anche se, per la maggior parte di essi, la corte d’appello ha riconosciuto l’applicazione della prescrizione. Per quanto riguarda l’azione civile, indica che a tutti i ricorrenti è stata accordata una somma a titolo di provvisionale sul risarcimento danni.
145. Esaminando poi la doglianza relativa all’assenza del reato di «tortura» nell’ordinamento giuridico italiano, il Governo espone che i giudici nazionali hanno potuto sanzionare in maniera adeguata i reati contro la persona utilizzando l’arsenale giuridico esistente. A questo titolo, afferma che la Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984 non prevede una definizione univoca della nozione di «tortura», il che implicherebbe che il codice penale italiano permette di sanzionare in maniera appropriata le varie forme di maltrattamenti.
146. Infine, il Governo informa la Corte che una proposta di legge volta a introdurre nel codice penale italiano il reato di tortura è attualmente in corso di esame dinanzi al Parlamento (paragrafo 82 supra), e precisa che in caso di maltrattamenti inflitti da funzionari o da pubblici ufficiali sono previste pene fino a dodici anni di reclusione e che qualora i maltrattamenti in questione abbiano causato il decesso della vittima potrà essere pronunciata la pena dell’ergastolo.
ii. Valutazione della Corte
α) Principi generali
147. La Corte rammenta che, quando un individuo sostiene in maniera difendibile di avere subito, da parte della polizia o di altri servizi analoghi dello Stato, un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione, quest’ultima disposizione, in combinato disposto con il dovere generale imposto allo Stato dall’articolo 1 della Convenzione di «riconoscere a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà enunciati (...) [nella] Convenzione», richiede, per implicazione, che sia condotta un’inchiesta ufficiale effettiva. Tale inchiesta deve poter condurre all’identificazione e, se del caso, alla punizione dei responsabili e all’accertamento della verità. Se così non fosse, nonostante la sua importanza fondamentale, il divieto generale della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti sarebbe inefficace in pratica, e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato calpestare, godendo di una quasi-impunità, i diritti delle persone sottoposte al loro controllo (si veda, tra molte altre, Nasr e Ghali c. Italia, n. 44883/09, § 262, 23 febbraio 2016).
148. I principi pertinenti per quanto riguarda gli elementi di «una inchiesta ufficiale effettiva» sono stati richiamati recentemente dalla corte nella sentenza Cestaro (sopra citata, §§ 205-212, e i riferimenti ivi citati) e riassunti nella sentenza Nasr e Ghali (sopra citata, § 263), alle quali la Corte rinvia.
β) Applicazione di questi principi alle circostanze della presente causa
149. La Corte osserva anzitutto che la maggior parte degli autori materiali degli atti di «tortura» (paragrafo 54 supra) non hanno potuto essere identificati dalle autorità giudiziarie né sottoposti a un’inchiesta, e sono dunque rimasti impuniti.
150. Pur rammentando che l’obbligo di condurre un’inchiesta non è, secondo la sua giurisprudenza, un obbligo di risultato ma di mezzi (si veda, tra molte altre, Gheorghe Dima c. Romania, n. 2770/09, § 100, 19 aprile 2016), si deve notare che i notevoli sforzi dei giudici nazionali per identificare gli agenti di polizia che hanno partecipato ai fatti denunciati si sono conclusi con un fallimento per due ragioni principali.
151. Da una parte, il divieto opposto ai ricorrenti di guardare gli agenti e l’obbligo loro imposto di restare con la faccia contro le grate all’esterno della caserma o il muro delle celle, combinato con l’assenza di segni distintivi sull’uniforme degli agenti, come un numero di matricola, hanno contribuito a rendere impossibile l’identificazione da parte delle vittime dei poliziotti presenti all’interno della caserma di Bolzaneto.
152. Dall’altra, la Corte constata che la deplorevole mancanza di collaborazione della polizia con le autorità giudiziarie incaricate delle indagini è stata determinante nella presente causa.
153. Per quanto riguarda il procedimento penale, essa osserva che per l’ampia maggioranza dei reati di lesioni personali, semplici o aggravate, così come per quelli di calunnia e di abuso d’ufficio, è stata dichiarata la prescrizione. In effetti, su quarantacinque persone rinviate a giudizio, la Corte di cassazione (paragrafo 69 supra) ha confermato la condanna solo di otto agenti o quadri delle forze dell’ordine a pene della reclusione che vanno da un anno per abuso d’ufficio (in quanto i tre agenti condannati hanno rinunciato alla prescrizione) a tre anni e due mesi per il reato di lesioni personali (poi ridotta di tre anni in applicazione della legge n. 241/06). La Corte constata che tutti i condannati hanno beneficiato o dell’indulto, o della sospensione condizionale e della non menzione della condanna nel casellario giudiziale, e osserva che, in pratica, nessuno ha passato un solo giorno in carcere per i trattamenti inflitti ai ricorrenti.
154. In virtù dell’articolo 19 della Convenzione, e conformemente al principio che vuole che la Convenzione garantisca dei diritti non teorici o illusori ma concreti ed effettivi, la Corte deve assicurarsi che lo Stato adempia come si deve all’obbligo di tutelare i diritti delle persone che rientrano nella sua giurisdizione, in particolare nei casi in cui esiste una sproporzione evidente tra la gravità dell’atto e la sanzione inflitta. In caso contrario, il dovere che hanno gli Stati di condurre un’inchiesta effettiva perderebbe molto del suo senso.
155. Pertanto, essa può solo osservare che, nonostante i fatti più gravi siano stati stabiliti dai giudici nazionali, la prescrizione ha impedito l’accertamento della responsabilità penale dei loro autori. Essa osserva inoltre che, in applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006 relativa alle condizioni di concessione dell’indulto, le pene pronunciate per gli altri reati sono state ridotte di tre anni (paragrafi 58 supra).
156. Essa rammenta che, tra gli elementi che caratterizzano un’inchiesta effettiva dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione, il fatto che l’azione giudiziaria non sia soggetta ad alcun termine di prescrizione è fondamentale. Essa indica anche di avere già dichiarato che la concessione di un’amnistia o di un indulto non dovrebbe essere tollerata in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da agenti dello Stato (Abdülsamet Yaman, sopra citata, § 55, e Mocanu e altri c. Romania [GC], nn. 10865/09 e altri 2, § 326, CEDU 2014 (estratti)).
157. Come ha fatto nella sentenza Cestaro (sopra citata, §§ 223 e 224), la Corte riconosce che i giudici nazionali, per i fatti verificatisi alla caserma di Bolzaneto, hanno dovuto affrontare un procedimento penale complesso legato a un episodio di violenza da parte della polizia unico nella storia della Repubblica italiana. Essa non può ignorare che alle difficoltà del procedimento a carico di molti coimputati e di parti civili si sono aggiunti ostacoli legati alla mancanza di collaborazione da parte dell’amministrazione della polizia (paragrafo 54 supra).
158. Contrariamente alla conclusione cui è giunta in altre cause, la Corte considera che, nella fattispecie, la durata del procedimento interno e il non luogo a procedere pronunciato per intervenuta prescrizione della maggior parte dei reati non siano imputabili ai temporeggiamenti o alla negligenza della procura o dei giudici nazionali ma alle lacune strutturali dell’ordinamento giuridico italiano (si vedano, tra altre, Batı e altri c. Turchia, nn. 33097/96 e 57834/00, §§ 142 147, CEDU 2004 IV (estratti), e Hüseyin Şimşek c. Turchia, n. 68881/01, §§ 68-70, 20 maggio 2008).
159. In effetti, secondo la Corte, l’origine del problema risiede nel fatto che nessuno dei reati esistenti sembra comprendere tutta la gamma di questioni sollevate da un atto di tortura di cui un individuo rischia di essere vittima (Myumyun c. Bulgaria, n. 67258/13, § 77, 3 novembre 2015).
160. La Corte ha già dichiarato nella sentenza Cestaro (sopra citata, § 225) che la legislazione penale nazionale applicata nelle cause in discussione si era rivelata inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e priva dell’effetto dissuasivo necessario alla prevenzione di violazioni simili dell’articolo 3 della Convenzione.
161. In questo contesto, la Corte ha invitato l’Italia a munirsi degli strumenti giuridici atti a sanzionare in maniera adeguata i responsabili degli atti di tortura o di altri maltrattamenti rispetto all’articolo 3 e ad impedire che questi ultimi possano beneficiare di misure che contrastano con la giurisprudenza della Corte, in particolare la prescrizione e l’indulto (idem, §§ 242-246).
162. Il legislatore italiano ha presentato una proposta di legge che introduce il reato di tortura. Dopo varie modifiche, il 18 luglio 2017 la legge è entrata in vigore. La Corte prende atto dell’introduzione delle nuove disposizioni che non trovano applicazione nel caso di specie.
163. Per quanto riguarda, infine, i provvedimenti disciplinari, la Corte osserva che il Governo ha indicato che i poliziotti interessati non sono stati sospesi dalle loro funzioni durante il processo, che non precisa se questi stessi poliziotti siano stati oggetto di provvedimenti disciplinari e non indica, se del caso, quali siano le misure adottate a questo proposito.
164. La Corte rammenta comunque, a questo proposito, di avere dichiarato ripetutamente che, quando degli agenti dello Stato sono imputati per reati che implicano dei maltrattamenti, è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi (si vedano, tra molte altre, Abdülsamet Yaman, sopra citata, § 55, Ali e Ayşe Duran, sopra citata, § 64, Çamdereli, sopra citata, § 38, Gäfgen, sopra citata, § 125, Cestaro, sopra citata, § 205, Erdal Aslan c. Turchia, nn. 25060/02 e 1705/03, §§ 74 e 76, 2 dicembre 2008, e Saba c. Italia, n. 36629/10, § 78, 1o luglio 2014).
165. In conclusione, la Corte considera che i ricorrenti non abbiano beneficiato di una inchiesta ufficiale effettiva ai fini dell’articolo 3 della Convenzione. Pertanto, essa conclude che vi è stata violazione dell’elemento procedurale di tale disposizione, e respinge dunque sia l’eccezione preliminare del Governo relativa alla qualità di vittima (paragrafi 93 98 supra) che l’eccezione preliminare relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in materia civile (paragrafi 109-117 supra; Cestaro, sopra citata, §§ 229-236).
II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
166. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
A. Danno
167. I ricorrenti del ricorso n. 28923/09 chiedono la somma di 150.000 EUR ciascuno per il danno materiale e morale che ritengono di avere subito, mentre i ricorrenti del ricorso n. 67599/10 (in particolare i ricorrenti indicati ai numeri 1-4, 6-8, 12, 13, 15, 16 e 19 della lista allegata) si affidano al giudizio della Corte.
168. Il Governo contesta queste pretese e invita la Corte a dichiarare che una constatazione di violazione costituirebbe un’equa soddisfazione sufficiente. In subordine, critica l’importo richiesto dai ricorrenti, che considera sproporzionato, e chiede alla Corte di tenere conto delle somme provvisionali che sono state versate ai ricorrenti nella loro qualità di parti civili del procedimento penale.
169. La Corte osserva che i ricorrenti non hanno prodotto sufficienti elementi a sostegno delle loro richieste affinché potesse essere accertato il nesso di causalità necessario tra la violazione constatata e il danno materiale dedotto. Di conseguenza, respinge questa parte della domanda (Eğitim ve Bilim Emekçileri Sendikası e altri c. Turchia, n. 20347/07, § 116, 5 luglio 2016).
170. Per quanto riguarda il danno morale, la Corte osserva che, secondo le ultime informazioni fornite dai ricorrenti e non contestate dal Governo, le indennità provvisionali accordate a titolo di risarcimento danni ai ricorrenti dai tribunali nazionali non sono state versate o lo sono state solo parzialmente e a un numero limitato di ricorrenti (quattro ricorrenti del ricorso n. 28923/09 e due ricorrenti del ricorso n. 67599/10). Essa rammenta anche la gravità degli atti di violenza accertati nelle presenti cause, che hanno condotto alla sua conclusione di violazione sia dell’elemento materiale che dell’elemento procedurale dell’articolo 3 della Convenzione.
171. Pertanto, decide di accordare in via equitativa a ciascun ricorrente la somma di 80.000 EUR (ottantamila euro) per il danno morale, ad eccezione del sig. G. Azzolina. A quest’ultimo, in ragione della gravità e della crudeltà delle violenze di cui fu vittima all’interno della caserma di Bolzaneto, la Corte decide di accordare in via equitativa la somma di 85.000 EUR (ottantacinquemila euro) per il danno morale.
172. La Corte precisa nondimeno che le somme da essa accordate per il danno morale sono dovute soltanto in funzione dello stato di versamento delle indennità riconosciute a titolo provvisionale a livello nazionale. Perciò, nell’ipotesi che venissero effettivamente pagate ai ricorrenti dalle autorità italiane, tali somme dovrebbero essere detratte dalle somme che il Governo dovrà versare alle parti ricorrenti a titolo di equa soddisfazione in virtù della presente sentenza (Kavaklıoğlu e altri c. Turchia, n. 15397/02, § 302, 6 ottobre 2015).
B. Spese
173. I ricorrenti non hanno formulato alcuna richiesta di rimborso delle spese sostenute per il procedimento dinanzi alla Corte. La Corte ritiene pertanto non doversi accordare loro alcuna somma a questo titolo.
C. Interessi moratori
174. La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
Decide di cancellare il ricorso dal ruolo, per quanto riguarda i ricorrenti del ricorso n. 67599/10 riportati nella lista allegata ai numeri 5, 9, 10, 11, 14, 17 e 18;
Respinge l’eccezione preliminare sollevata dal Governo relativamente al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in materia penale;
Unisce al merito le eccezioni sollevate dal Governo relativamente alla perdita della qualità di vittima dei ricorrenti e al mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni in materia civile e le respinge;
Dichiara i ricorsi ricevibili;
Dichiara che vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’articolo 3 della Convenzione;
Dichiara che vi è stata violazione dell’elemento procedurale dell’articolo 3 della Convenzione;
Dichiarache lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:85.000 EUR (ottantacinquemila euro) al sig. G. Azzolina, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale,
80.000 EUR (ottantamila euro), ai ricorrenti del ricorso n. 28923/09 e ai ricorrenti del ricorso n. 67599/10 riportati ai numeri 1-4, 6-8, 12, 13, 15, 16 e 19 della lista allegata, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale;
che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
Respinge la domanda di equa soddisfazione per il resto.
Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 26 ottobre 2017, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.
Abel Campos
Cancelliere
Linos-Alexandre Sicilianos
Presidente