I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono tendenzialmente in relazione all’elemento psicologico.
Nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto eventualmente infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Più in particolare:
- il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) è posto a tutela dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie;
- il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) rientra tra i cc. dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano perché la condotta tipica assume rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce soltanto se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo; ne consegue che, se la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della p.o., che agisca su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie. (Nei casi in cui la condotta tipica è posta materialmente in essere da chi intende "farsi ragione da sé medesimo", è, al contrario, configurabile il concorso - per agevolazione, od anche morale
- nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della p.o.);
- il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione si distinguono quanto al soggetto attivo, perché soltanto il primo è un reato proprio esclusivo o c.d. di mano propria, e quanto all’elemento psicologico, perché, nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto ingiusto, nella piena consapevolezza della sua ingiustizia;
- per la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) occorre che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente. La pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato;
- ai fini della distinzione tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione, l’elevata intensità o gravità della violenza o della minaccia di per sé non legittima la qualificazione del fatto ex art. 629 c.p., poiché l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può risultare - come l’estorsione aggravato dall’uso di armi, ma può costituire indice sintomatico del dolo di estorsione.
Corte di Cassazione
sez. II Penale, sentenza 28 giugno – 3 novembre 2016, n. 46288
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Ancona ha integralmente confermato la sentenza emessa in data 22 febbraio 2012 dal Tribunale della stessa città, che aveva dichiarato M.O.H. e T.M. , in atti generalizzati, colpevoli dell’estorsione consumata di cui al capo A), condannandoli alle pene per ciascuno ritenute di giustizia, con le statuizioni accessorie.
1.1. Agli imputati si contestava di avere esercitato, in concorso, violenze e minacce in danno di G.F. , in atti generalizzato, debitore del T. , per ottenere l’adempimento del debito (contratto presso il night club gestito dal T. ), conclusivamente giungendo ad indurre la p.o. a consegnare loro le chiavi della propria autovettura oltre alla stessa autovettura, che gli imputati trattenevano come pegno in vista della successiva consegna della somma dovuta, ed a firmare un documento ricognitivo del debito a titolo di ulteriore garanzia.
2. Contro tale provvedimento, gli imputati (con l’ausilio di difensori iscritti nell’apposito albo speciale) hanno proposto disgiuntamente ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.:
(M.O.H. ).
I - violazione dell’art. 629 c.p. e vizi di motivazione, in difetto dei requisiti dell’ingiusto profitto e dell’altrui danno, ed in presenza di una legittima giustificazione del credito vantato nei confronti della p.o.;
II - vizi di motivazione, con travisamento, per invenzione del c.d. pegno della autovettura della p.o., poiché non vi fu alcuna sottrazione della stessa, che fu unicamente affidata in custodia a garanzia del debito;
III - vizi di motivazione quanto al ritenuto concorso del M. , in realtà mero ed inconsapevole dipendente del T. ;
IV - violazione degli artt. 629 e 392 s. c.p., quanto alla qualificazione giuridica del fatto accertato, che, come chiarito da un asseritamente condivisibile orientamento giurisprudenziale, al più potrebbe integrare gli estremi del mero esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone;
V - vizi di motivazione con riferimento alla circostanza dell’accompagnamento del sig. G. a casa sua da parte del sig. M. , essendo stata del tutto omessa la motivazione in ordine a quanto emerso dall’esame testimoniale del sig. G.P. , padre di F. (a. casa del padre la p.o., se effettivamente intimidita dal M. , avrebbe potuto chiedere aiuto);
VI - vizi di motivazione per difetto del necessario vaglio di credibilità della p.o.;
VII - mancata assunzione di una prova decisiva, in riferimento al mancato esame testimoniale della ragazza rumena con la quale la p.o. si sarebbe intrattenuta all’interno del night club, nelle more assolta dai fatti, anche a lei in origine contestati, con sentenza passata in giudicato;
(T. ).
I - insussistenza della contestata estorsione, sotto il profilo materiale o psicologico: sarebbe, al più, configurabile un esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, poiché il credito vantato dall’imputato nei confronti della p.o. era effettivamente sussistente (la stessa Corte di appello mostra di non credere alla riduttiva versione della p.o., che riferiva di avere consumato una sola delle quattro bottiglie di champagne che gli erano state messe in conto); inoltre, le condotte di violenza o minaccia non sarebbero ascrivibili al T. , ma al solo coimputato; la stessa p.o. avrebbe inizialmente riferito di non essere stata picchiata, aggiungendo solo dopo l’intervento del P.M. di essere stata sbattuta contro il muro; le dichiarazioni della p.o., che pacificamente versava in stato confusionale, non potrebbero essere ritenute attendibili; difetterebbe comunque il necessario dolo poiché l’imputato agiva al fine di recuperare un credito.
2.1. Con motivo aggiunto depositato in data 10 giugno 2016, in realtà nella sostanza meramente reiterativo e riepilogativo delle censure già costituenti oggetto del ricorso principale, nell’interesse di M.O.H. è stata altresì dedotta la presunta nullità della sentenza per asserita violazione dei criteri di interpretazione della prova e conseguente insussistenza del reato di estorsione, nonché del principio del ragionevole dubbio ex art. 533
c.p.p. e di quello della prova contraddittoria ex art. 530 c.p.p., ed infine per contraddittorietà, illogicità ed omissione della motivazione.
3. All’odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito: all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, ed il collegio riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.
Considerato in diritto
I ricorsi sono, nel complesso, infondati.
I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITÀ SULLA MOTIVAZIONE.
1. È necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento.
1.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. "travisamento della prova" (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.
Permane, al contrario, la non deducibilità, nel giudizio di legittimità, del travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).
1.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di "travisamento della prova" deve, a pena di inammissibilità (Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, CED Cass. n. 234115; Sez. VI, sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, CED Cass. n. 249035):
(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
1.2. La mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. un., sentenza n. 24 del 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un., sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un., sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).
Devono tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di "un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi" (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, CED Cass. n. 233621; Sez. II, sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789), e di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. VI, sentenza n. 27429 del 4 luglio 2006, CED Cass. n. 234559; Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).
1.3. Il giudice di legittimità ha, pertanto, ai sensi del novellato art. 606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 35964 del 28 settembre 2006, CED Cass. n. 234622; Sez. III, sentenza n. 39729 del 18 giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez. V, sentenza n. 39048 del 25 settembre 2007, CED Cass. n. 238215; Sez. II, sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione);
(c) l’esistenza di una radicale incompatibilità con l’iter motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;
(d) la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d. "travisamento del fatto", ma solo qualora la difformità della realtà storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu oculi ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico e, quindi, anche contraddittorio).
1.4. È anche inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., per censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 45249 dell’8 novembre 2012, CED Cass. n. 254274).
LA NECESSARIA SPECIFICITÀ DEL RICORSO PER CASSAZIONE.
2. La giurisprudenza di questa Corte Suprema è, condivisibilmente, orientata nel senso dell’inammissibilità, per difetto di specificità, del ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa (Sez. VI, sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037: nella fattispecie il ricorrente aveva lamentato la "mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione" in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare personale; Sez. VI, sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 - 12 gennaio 2012, Bidognetti ed altri, CED Cass. n. 251528).
Invero, l’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per "mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame".
La disposizione, se letta in combinazione con l’art. 581, comma 1, lett. c), c.p.p. (a norma del quale è onere del ricorrente "enunciare i motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”) evidenzia che non può ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.
Il principio è stato più recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della qual "È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a più di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame" (Sez. II, sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, CED Cass. n. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità, il che rende il ricorso inammissibile.
2.1. Infine, secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio - 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno - 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con l’aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
2.1.1. Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio - 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che "La funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta).
2.1.2. Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una "duplice specificità": "Deve essere sì anch’esso conforme all’art. 581 c.p.p., lett. C (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando attacca le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresì, contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente" (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio - 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
2.1.3. Risulta, pertanto, evidente che, "se il motivo di ricorso si limita a riprodurre il motivo d’appello, per ciò solo si destina all’inammissibilità, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente attaccato, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato. Né tale forma di redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello) potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli nell’atto di impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice d’appello abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilità. E ciò per almeno due ragioni. È censura di merito. Ma soprattutto (il che vale anche per l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello) non è mediata dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa motivazione (e tanto più nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza grafica, pretende la dimostrazione della sua mera apparenza rispetto ai temi tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto, è pure onerata dell’obbligo di argomentare la decisività del vizio, tale da imporre diversa conclusione del caso".
2.1.4. Può, pertanto, concludersi che “la riproduzione, totale o parziale, del motivo d’appello ben può essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo quando ciò serva a documentare il vizio enunciato e dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei principi consolidati in materia di motivazione per relazione nei provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione" (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio - 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
2.2. Questa Corte, con orientamento (Sez. II, n. 19712 del 6 febbraio 2015, rv. 263541; Sez. I, n. 39122 del 22 settembre 2015, rv. 264535) che il collegio condivide e ribadisce, è, inoltre, ferma nel ritenere che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere - sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica.
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA D’APPELLO.
3. Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 1307 del 26 settembre 2002 - 14 gennaio 2003, CED Cass. n. 223061).
3.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilità, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilità della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 1309 del 22 novembre 1993 - 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. III, sentenza n. 13926 del 1 dicembre 2011 - 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615).
L’AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITÀ "OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO".
4. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione "oltre ogni ragionevole dubbio", presente nel testo novellato dell’art. 533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p., sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema - per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. II, sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, CED Cass. n. 239795).
In argomento, si è più recentemente, e conclusivamente, affermato (Sez. II, sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 - 13 febbraio 2013, CED Cass. n. 254025) che "La previsione normativa della regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato”.
IL RICORSO.
5. Alla luce di queste necessarie premesse vanno esaminati gli odierni ricorsi.
6. I motivi riguardano tutti, nel complesso, l’affermazione di responsabilità, e possono essere esaminati congiuntamente.
6.1. Con riguardo alle plurime doglianze riguardanti presunti difetti di motivazione in ordine a censure formulate con l’atto di appello, asseritamente decisive, salvo quello che si dirà nei p.p. che seguono, non può che farsi rinvio a quanto premesso nei p.p. 3 ss. di queste Considerazioni in diritto.
6.2. Con riguardo alle plurime doglianze riguardanti i tre vizi della motivazione contestualmente e promiscuamente evocati, non può che farsi rinvio a quanto premesso nel p. 2.2. di queste Considerazioni in diritto.
7. Per quanto riguarda l’accertamento dei fatti contestati, le doglianze dei ricorrenti sono in parte non consentite (cfr. rilievi di cui al p. 1.4. di queste Considerazioni in diritto, oltre che di cui ai p.p. che seguiranno), in parte assolutamente prive di specificità in tutte le loro articolazioni, perché meramente reiterative (cfr. rilievi di cui al p. 2.1. ss. di queste Considerazioni in diritto, oltre che di cui ai p.p. che seguiranno) e del tutto assertive, e comunque in toto manifestamente infondate.
7.1. I ricorrenti in concreto non si confrontano adeguatamente con la motivazione della Corte di appello, che ripropone legittimamente le considerazioni del primo giudice, condivise perché suffragate dagli elementi acquisiti, valorizzando incensurabilmente - f. 4 ss. - ed in difetto di documentati travisamenti decisivi, le acquisite risultanze testimoniali e documentali, puntualmente richiamate, ed in particolare le dichiarazioni della p.o., motivatamente ritenute attendibili.
7.2. Questa Corte, con orientamento (Sez. IV, sentenza n. 19710 del 3.2.2009, CED Cass. n. 243636) che il collegio condivide e ribadisce, ha osservato che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado ("Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice").
7.3. Nel caso di specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure oggetto dell’atto di appello, in più punti specificamente esaminate e confutate (f. 4 ss.) è incensurabilmente giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità degli imputati.
7.4. A ciò deve aggiungersi che:
- la configurabilità del concorso del M. nel reato commesso dal T. (titolare della pretesa creditoria illegalmente esercitata, come si vedrà ampiamente in seguito) è stata incensurabilmente desunta dalla Corte di appello dalle dichiarazioni della p.o., scrupolosamente vagliate e motivatamente ritenute attendibili;
- la possibilità che la p.o., salita in casa del padre per ottenere un prestito onde onorare il credito del T. , chiedesse aiuto costituisce oggetto di una mera ipotesi del difensore, tra l’altro del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento di responsabilità, essendo ben certo che la condotta contestata fu materialmente posta in essere dagli imputati in danno della stessa p.o.. Deve aggiungersi che, in tutta evidenza, la p.o. può essere stata condizionata nelle sue azioni e nelle sue reazioni dalla consapevolezza di essere effettivamente debitore del T. , e quindi dell’illegalità anche del suo comportamento (ovvero del mancato pagamento del conto del night club);
- il riferimento alla presunta mancata assunzione di una prova decisiva è doppiamente generico, perché il difensore da un lato non indica né il momento processuale in cui la richiesta sarebbe stata formulata, né le argomentazioni poste a fondamento del mancato accoglimento della richiesta, dall’altro non indica dettagliatamente le circostanze fattuali asseritamente decisive sulle quali la teste invocata avrebbe dovuto essere esaminata, né in qual modo l’accertamento di esse avrebbe potuto scalfire la complessiva tenuta delle argomentazioni conformemente poste dai giudici del merito a fondamento dell’affermazione di responsabilità.
7.5. In concreto, i ricorrenti si sono limitati a reiterare, più o meno pedissequamente, le doglianze già sconfessate dalla Corte di appello, ed a riproporre la propria diversa ed interessata "lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti decisivi delle prove valorizzate.
8. Vanno ora valutate le comuni, diffuse doglianze dei ricorrenti riguardanti la qualificazione giuridica dei fatti accertati, non senza aver premesso che non è denunciabile il vizio di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
8.1. Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. II, sentenze n. 3706 del 21. - 27 gennaio 2009, CED Cass. n. 242634, e n. 19696 del 20 - 25 maggio 2010, CED Cass. n. 247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. IV, sentenza n. 6243 del 7 marzo - 24 maggio 1988, CED Cass. n. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.
E, d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. IV, sentenza n. 4173 del 22 febbraio - 13 aprile 1994, CED Cass. n. 197993).
Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto:
"nel giudizio di legittimità il vizio di motivazione non è denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta. D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere soltanto dall’errata soluzione delle suddette questioni, non dall’indicazione di ragioni errate a sostegno di una soluzione comunque giuridicamente corretta".
9. Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di questa Corte (Sez. II, n. 46628 del 3 novembre 2015, Stradi ed altro, rv. 265214; Sez. II, n. 44674 del 30 settembre 2015, Bonaccorso, rv. 265190; Sez. II, n. 42734 del 30 settembre 2015, Capuozzo, rv. 265410; Sez. II, n. 23765 del 15 maggio 2015, P.M. in proc. Pellicori, rv. 264106; Sez. II, n. 42940 del 25 settembre 2014, Conte, rv. 260474; Sez. II, 25 giugno 2014, Comite, rv. 259966; Sez. II, n. 24292 del 29 maggio 2014, Ciminna, rv. 259831; Sez. II, n. 33870 del 6 maggio 2014, Cacciola, rv. 260344; Sez. II, 19 dicembre 2013, Fusco, n. 51433, rv. 257375; Sez. II, n. 707 del 1 ottobre 2013, dep. 2014, Traettino, rv. 258071; Sez. II, n. 22935 del 12 giugno 2012, Di Vuono, rv. 253192; Sez. II, n. 12329 del 29 marzo 2010, Olmastroni, rv. 247228; Sez. II, n. 9121 del 15 ottobre 1996, dep. 1997, Platania, rv. 206204; Sez. II, n. 6445 del 28 aprile 1989, Stanovich, rv. 181179; Sez. II, n. 5589 del 14 giugno 1983, Rossetti, rv. 159513), i delitti di cui agli articoli 393 e 629 c.p. si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, giudizialmente azionabile, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto.
Per ritenere configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, occorrerebbe, pertanto, che l’agente sia soggettivamente - pur se erroneamente, ma plausibilmente - convinto dell’esistenza del proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale.
9.1. Un opposto orientamento valorizza, ai fini della predetta distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza. Pertanto, quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia. In determinate circostanze e situazioni pertanto, anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva (Sez. II, n. 1921 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Li, rv. 265643; Sez. II, n. 44657 dell’8 ottobre 2015, Lupo, rv. 265316; Sez. II, n. 44476 del 3 luglio 2015, Brudetti, rv. 265320; Sez. VI, n. 17785 del 25 marzo 2015, Pipitone, rv. 263255; Sez. II, n. 9759 del 10 febbraio 2015, Gargiuolo, rv. 263298; Sez. V, n. 19230 del 3 maggio 2013, Palazzotto, rv. 256249; Sez. V, n. 28539 del 20 luglio 2010, Coppola, rv. 247882; Sez. VI, n. 41365 del 23 novembre 2010, Straface, rv. 248736; Sez. II, n. 35610 del 26 settembre 2007, Della Rocca, rv. 237992; Sez. II, n. 14440 del 5 aprile 2007, Mezzanzanica, rv. 236457; Sez. II, n. 47972 del 10 dicembre 2004, Caldara, rv. 230709; Sez. I, n. 10336 del 4 marzo 2003, Preziosi, rv. 228156).
Secondo questo indirizzo, dunque, a fronte di un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all’autorità giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione occorre verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa, con la conseguenza che si rimarrebbe indubbiamente nell’ambito dell’estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima (così Sez. VI, n. 32721 del 7 settembre 2010, Hamidovic, rv. 248169).
9.2. A parere del collegio, il denunciato contrasto di orientamenti è più apparente che reale.
9.2.1. Occorre premettere che, ai fini della risoluzione del problema in esame, non è possibile trarre utili indicazioni dalla Relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del Codice penale, sul punto assolutamente silente.
9.2.2. La materialità dei due reati in questione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. II, n. 11453 del 17 febbraio 2016, Guarnieri, rv. 267123), poiché soltanto ai fini dell’integrazione dell’estorsione necessita il verificarsi di un effetto di "costrizione" sulla vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 c.p.: "mediante violenza sulle cose"; art. 393 c.p.: "usando violenza o minaccia alle persone"; art. 629 c.p.: "mediante violenza o minaccia"): all’uopo occorre, secondo la dottrina più recente, "che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno. Si tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato").
9.2.3. Nondimeno, la possibile valenza dimostrativa di tale disomogeneità può agevolmente essere ridimensionata, ove si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente, che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto, e la vittima un danno; diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia deve mirare ad ottenere dal debitore proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile.
9.2.4. Sia l’art. 393, comma 3, c.p. che l’art. 629, comma 2, c.p. (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628, comma 3, n. 1 c.p.) prevedono che la pena è aumentata "se la violenza o minaccia è commessa con armi".
La circostanza aggravante speciale de qua non legittima distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco, ed evidenzia la possibilità di qualificare come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza (o minaccia) alle persone, aggravato dall’uso di un’arma, anche le condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza (o minaccia) di particolare gravità, e comunque sproporzionata rispetto al fine perseguito, o tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima (secondo l’id quod plerumque accidit, disarmata).
Detto riferimento appare decisivo, atteso che, in quest’ultimo caso, la condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione di legge, non è.
9.2.4.1. Quest’ultima argomentazione non risulta mai esaminata, né quindi validamente confutata, nell’ambito dell’orientamento riepilogato sub p. 9.1., che si limita tout court a non considerarla.
9.2.5. A parere del collegio, una prima distinzione tra i reati in oggetto può riguardare il soggetto attivo.
9.2.5.1. Invero, il solo esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p., come soggetto agente, unicamente da "chiunque... sì fa arbitrariamente ragione da sé medesimo": detta espressa previsione (sin qui non adeguatamente valorizzata dalla dottrina, che si limita a darne una interpretazione meramente descrittiva, e del tutto trascurata dalla giurisprudenza) impone di ritenere che il solo esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano in quanto la loro esecuzione implica l’intervento personale diretto del soggetto designato dalla legge; la condotta tipica oggetto di incriminazione può, quindi, assumere rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce, soltanto se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo.
9.2.5.2. Tale rilievo potrà risultare decisivo nei casi di reati commessi in concorso, poiché, se la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della p.o., che agisca su mandato del creditore, essa potrà assumere rilievo soltanto ex art. 629 c.p., giammai a titolo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
In tutti gli altri casi, nei quali la condotta tipica è posta in essere da chi agisce per "farsi ragione da sé medesimo", sarà, al contrario, configurabile - in ipotesi (e salva la considerazione delle eventuali peculiarità dei singoli casi concreti) il concorso (per agevolazione, od anche morale) di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della p.o. nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
9.2.5.3. Quanto appena osservato costituisce conseguenza diretta ed immediata della particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che sono posti a tutela dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può - in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) - essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione "da sé medesimo", non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia.
9.2.6. Nell’ambito della dottrina, può senza dubbio definirsi unanime il convincimento che i due reati in oggetto si distinguano in relazione al fine perseguito dall’agente.
9.2.6.1. Le dottrine tradizionali avevano autorevolmente evidenziato che, nel caso in cui l’agente "non agì per trarre ingiusto profitto dall’azione o dall’omissione imposta al soggetto passivo, ma per uno scopo diverso, potrà ricorrere il titolo di (..) esercizio arbitrario delle proprie ragioni, o altro; ma non quello di estorsione", osservando che "spesso però l’affermazione di voler esercitare un opinato diritto (...), non è che un pretesto per larvare l’estorsione", ed ammonendo i giudici quanto all’opportunità di adoperare "molta cautela nell’accertare il vero scopo dell’agente"; naturalmente, "pur mirando l’agente anche a conseguire il profitto relativo a un preteso diritto esistente o supposto, la estorsione sussiste) quando egli chieda più di ciò che tale diritto comporta".
Ed ancora, che l’estorsione presenta tratti comuni con l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, "ma a stabilirne la diversità basta l’elemento psicologico, che nel secondo consiste nel fine di esercitare un preteso diritto, quando si abbia la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria".
Altra dottrina, con pari autorevolezza, ha successivamente ritenuto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni "richiede il fine di esercitare un preteso diritto azionabile e l’estorsione la coscienza e volontà di conseguire un profitto non fondato su alcuna pretesa giuridica".
Analogamente, la dottrina più recente afferma, altrettanto autorevolmente, che "il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si fonda sulla finalità perseguita dall’agente: nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo, supponendo di essere titolare di un diritto, agisce con lo scopo di esercitarlo, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di conseguire un ingiusto profitto".
9.2.7. Fermo quanto osservato nei p.p. 9.2.5. ss. quanto al soggetto attivo, ed alle conseguenze in tema di concorso di persone nel reato, deve, quindi, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono tendenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto eventualmente infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
9.2.7.1. A tal proposito, è, peraltro, necessario precisare, onde evitare possibili (ed anzi, per la verità, molto frequenti nella pratica) interpretazioni strumentali, che, ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni:
- la pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato (Sez. V, n. 2819 del 24 novembre 2014, dep. 2015, rv. 263589);
- l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente: pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria (Sez. V, n. 23923 del 16 maggio 2014, rv. 260584), ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale. Per la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non è, infatti, necessario che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, ma occorre pur sempre che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale.
9.2.7.2. In applicazione del principio, è stata, ad esempio, già ritenuta la configurabilità del delitto di estorsione, e non di quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poiché in tal caso egli è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius (Sez. II, n. 9931 del 9 marzo 2015, Iovine, rv. 262566), e con riguardo alla pretesa (esplicitata in più occasioni con violenza e minacce) di ottenere, per conto di terzi creditori, l’adempimento di un debito dal padre del debitore, poiché essa non è tutelabile dinanzi l’Autorità giudiziaria, ma è diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. II, n. 16658 del 16 gennaio 2014, D’Errico, rv. 259555, e n. 45300 del 28 ottobre 2015, Immordino, rv. 264967).
9.2.8. Alla speciale veemenza della comportamento violento o minaccioso potrà, peraltro, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione.
9.2.8.1. È noto, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.
9.2.8.2. Come acutamente osservato da Sez. II, n. 44476 del 3 luglio 2015, Brudetti, rv. 265320, erroneamente, collocata tra le sentenze che accolgono l’orientamento contrario a quello qui sostenuto (che, al contrario, in motivazione premette espressamente di condividere), "considerato che, come rilevato in dottrina, la doloscopia non è stata ancora inventata, e che quindi il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante, appare evidente che le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p.", ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile.
9.2.8.3. Anche Sez. V, n. 19230 del 3 maggio 2013, Palazzotto, rv. 256249, a sua volta erroneamente, collocata tra le sentenze che accolgono l’orientamento contrario a quello qui sostenuto, premette di ritenere "certamente esatto il rilievo che si legge nella impugnata sentenza, in base al quale il delitto di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona, non tanto per la materialità del fatto, che può essere identica, quanto per l’elemento intenzionale che, nell’estorsione, è caratterizzato, diversamente dall’altro reato, dalla coscienza dell’agente che quanto egli pretende non gli è dovuto", ed aggiunge che "nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e, pertanto, non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto ex se ingiusto, configurandosi in tal caso il più grave delitto di estorsione".
9.2.8.4. Si è, ad esempio, già ritenuto che integra gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. "metodo mafioso", e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di matrice ‘ndranghetistica, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. II, n. 34147 del 30 aprile 2015, P.G. in proc. Agostino, rv. 264628: fattispecie in cui l’imputato, che aveva prestato alla persona offesa somme di denaro nell’esercizio abusivo di attività di intermediazione finanziaria, secondo la prospettazione difensiva, per recuperare gli importi erogati, avrebbe potuto proporre azione di indebito arricchimento, ex art. 2041 cod. civ.).
9.2.9. A ben vedere, il denunciato contrasto di orientamenti (cfr. p. 9 s. di queste Considerazioni in diritto) risulta più apparente che reale, riguardando, oltre che decisioni erroneamente considerate, mere enunciazioni di principio in realtà ininfluenti ai fini della decisione.
9.2.9.1. Nella fattispecie esaminata da Sez. II, n. 1921 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Li, rv. 265643, si era accertato che l’agente aveva richiesto al proprio debitore "una somma maggiore di quanto dalla stessa in precedenza richiesto perché a suo dire bisognava pagare i ragazzi (cioè i concorrenti nel reato da lei chiamati ad agire con violenza e minacce nei confronti della persona offesa)": quindi, anche a prescindere dal fatto che "le modalità di soddisfacimento del preteso diritto erano travalicate in forme di particolare violenza, sistematicità e pervicacia", pure valorizzato, l’agente ed i terzi incaricati della riscossione avevano perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
9.2.9.2. Nella fattispecie esaminata da Sez. II, n. 44657 dell’8 ottobre 2015, Lupo, rv. 265316, gli imputati avevano posto in essere condotte violente e minacciose nei confronti delle diverse persone offese - per lo più soggetti in situazione di grave crisi finanziaria finalizzate non solo al recupero di crediti originari, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto rappresentato dall’acquisizione della percentuale concordata come "tangente" per la riscossione delle somme, e quindi per la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
9.2.9.3. Nella fattispecie esaminata dalla già citata Sez. II, n. 44476 del 3 luglio 2015, Brudetti, rv. 265320, alla p.o., sottoposta ad una serie continua di gravi minacce da parte di più persone, singolarmente e in gruppo, "fu poi intimato di firmare cambiali in bianco (che effettivamente in seguito firmò a decine sul cruscotto di un’autovettura nei pressi dello stadio di (OMISSIS) ) e venne anche prospettata (...) la possibilità di lavorare, unitamente ai fratelli, presso un’azienda della zona, onde guadagnare le somme necessarie a ripianare l’esposizione debitoria (prospettiva imposta con la forza dell’intimidazione, e non quale espressione sintomatica di una libera scelta lavorativa)": i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, non essendo mossi dal "ragionevole intento di affermazione di un preteso diritto".
9.2.9.4. Nella fattispecie esaminata da Sez. VI, n. 17785 del 25 marzo 2015, Pipitone, rv. 263255, i contratti preliminari ai quali, con le violenze accertate, si intendeva indurre le pp.00. a far seguire la stipula un contratto di vendita di quota, erano "stati stipulati nel 1989, non dagli attuali soci della (...) s.r.l. ma dagli originari soci della stessa (...); occorreva, dunque, un formale conferimento della relativa posizione negoziale nella società e di tanto manca agli atti la prova si che, dal punto di vista documentale, come evidenziato dal Tribunale, la pretesa ancorata al citato preliminare risulta comunque riferibile a soggetti diversi dagli odierni indagati (...)"; i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
9.2.9.5. Nella fattispecie esaminata da Sez. II, 9759 del 10 febbraio 2015, Gargiuolo, rv. 263298, l’imputato, per riscuotere il suo credito, si era avvalso di due pregiudicati, che avevano minacciato la persona offesa di dare alle fiamme il suo locale e di cagionare gravi lesioni a lui ed ai suoi familiari ove non avesse pagato il debito, ed aveva quindi perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, avendo agito anche in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio vantato.
9.2.9.6. Nella fattispecie esaminata da Sez. V, n. 19230 del 3 maggio 2013, Palazzotto, rv. 2256249, ricorreva, con riferimento ad entrambi i tentativi di estorsione contestati e ritenuti, la circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203 del 1991, "in quanto le modalità della minaccia, la sua stessa indeterminatezza, l’intervento di persona formalmente estranea al rapporto tra S. e T., la vicinanza di P. a personaggi della famiglia F. (ovviamente la separazione legale di questo imputato dalla moglie di per sé non può essere circostanza significativa), la richiesta di versare Euro 15.000 a favore proprio della famiglia mafiosa del quartiere, sono tutte circostanze che militano, come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, nel senso della sussistenza dell’utilizzazione del metodo mafioso. E se, erroneamente, anche il secondo giudice ha escluso, con riferimento al primo episodio estorsivo, la sussistenza della predetta aggravante (e tale errore non può essere corretto in mancanza di una impugnazione sul punto della parte pubblica), non vi è ragione per la quale non si debba riconoscerne la sussistenza e la operatività con riferimento al secondo episodio estorsivo". L’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata costituiva, pertanto, indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di soddisfazione di una legittima pretesa civilistica.
9.2.9.7. Appare inutile proseguire la disamina anche in riferimento alle decisioni, in apparenza contrarie, più risalenti.
9.2.10. Vanno, conclusivamente, affermati i seguenti principi di diritto:
- il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) è posto a tutela dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie;
- il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) rientra tra i cc. dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano perché la condotta tipica assume rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce soltanto se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo; ne consegue che, se la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della p.o., che agisca su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie. (Nei casi in cui la condotta tipica è posta materialmente in essere da chi intende "farsi ragione da sé medesimo", è, al contrario, configurabile il concorso - per agevolazione, od anche morale - nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della p.o.);
- il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione si distinguono quanto al soggetto attivo, perché soltanto il primo è un reato proprio esclusivo o c.d. di mano propria, e quanto all’elemento psicologico, perché, nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto ingiusto, nella piena consapevolezza della sua ingiustizia;
- per la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) occorre che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente. La pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato;
- ai fini della distinzione tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione, l’elevata intensità o gravità della violenza o della minaccia di per sé non legittima la qualificazione del fatto ex art. 629 c.p., poiché l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può risultare - come l’estorsione aggravato dall’uso di armi, ma può costituire indice sintomatico del dolo di estorsione.
9.3. Per quanto riguarda il caso in esame, l’affermata natura del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come c.d. reato di mano propria, ai fini della qualificazione giuridica dei fatti accertati non soccorre ai fini della qualificazione giuridica dei fatti accertati, poiché la condotta tipica fu posta in essere (anche) dal creditore T. , non esclusivamente dal correo M. .
9.3.1. Nondimeno, può ritenersi accertato che i due imputati agirono a soddisfazione di una pretesa che sarebbe stata civilisticamente non tutelabile.
9.3.2. Deve, in proposito, rilevarsi che le difese mostrano di travisare l’in sé della contestazione, che, come chiaramente desumibile dal capo d’imputazione e dalle stesse sentenze di merito, risiede nell’avere preteso (non la mera soddisfazione del debito, bensì) la sottoscrizione "di un atto dispositivo di contenuto patrimoniale integrato dalla consegna dell’autovettura e dalla sottoscrizione della scrittura privata che costituiva formalizzazione di apparente legittimità e della garanzia e conteneva riconoscimento di debito" (f. 4 della sentenza impugnata).
In buona sostanza, gli imputati, con violenza e minacce, gli imputati hanno preteso dalla p.o. la sottoscrizione di un patto commissorio (con il quale si conveniva che, in mancanza del pagamento del credito, la proprietà dell’autovettura di G.F. , di valore di molto superiore rispetto all’entità del debito contratto con il T. , sarebbe passata a quest’ultimo) vietato dall’art. 2744 c.c..
9.3.3. La pretesa arbitrariamente attuata dal T. e dal M. non corrispondeva, quindi, all’oggetto della tutela apprestata in concreto - con riguardo alla situazione de qua dall’ordinamento giuridico, che non avrebbe consentito il rilascio della garanzia estorta alla p.o.; né il creditore T. poteva dirsi animato dal fine di esercitare il diritto in oggetto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli potesse competere giuridicamente, poiché la sua pretesa di ottenere dal debitore la sottoscrizione di un patto commissorio, vietato dall’art. 2744 c.c., onde ottenere in garanzia del debito un bene di valore di molto superiore, era non soltanto infondata, ma del tutto arbitraria, perché sfornita della benché minima base legale.
9.3.4. Risulta, pertanto corretta la qualificazione giuridica dei fatti accertati come estorsione, e non come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
10. Il rigetto totale dei ricorsi comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.