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Divulgazione delle generalità della vittima non è reato se .. (Cass. 25610/18)

6 giugno 2018, Cassazione penale

La divulgazione del solo nome di battesimo non è razionalmente sufficiente a consentire l'individuazione della persona offesa da parte di una generalità indeterminata di soggetti; in mancanza dell'accertamento della colpa in una ipotesi di cooperazione colposa, a' sensi dell'art. 113 c.p., nella contravvenzione di cui all'art. 734 bis c.p. (cioè in assenza di una reciproca consapevolezza di contribuire all'altrui azione od omissione (che siano) causali rispetto all'evento non voluto), non c'è reato.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Sent., (ud. 08/03/2018) 06-06-2018, n. 25610

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta - Presidente -

Dott. ANDREAZZA Gastone - rel. Consigliere -

Dott. GENTILI Andrea - Consigliere -

Dott. CORBETTA Stefano - Consigliere -

Dott. CIRIELLO Antonella - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.V., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 16/06/2016 della CORTE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere GASTONE ANDREAZZA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FULVIO BALDI che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio;

udito il difensore il difensore di parte civile Avv. VGC che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il difensore dell'imputato, Avv. FN che ha chiesto l'annullamento senza rinvio.

Svolgimento del processo


1. C.V. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma in data 16/06/2016 di riforma, per intervenuta prescrizione, della pronuncia del Tribunale di Roma di condanna per il reato di cui all'art. 734 bis c.p., per avere indebitamente divulgato, nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda il (OMISSIS), il nome ed i particolari inerenti a presunti abusi sessuali subiti ad opera di una propria assistita come difensore, nell'ambito di un processo penale in corso, da una minorenne all'interno di un istituto religioso.

2. Dopo avere ripercorso l'iter processuale, con un primo motivo di ricorso deduce violazione di legge in riferimento agli artt. 121 e 129 c.p.p., per avere la Corte ignorato la memoria difensiva, presentata in udienza, in cui si ribadiva che l'imputato non aveva divulgato alcunchè (essendosi limitato a dire: " C. non ha subito lesioni agli organi genitali") e si richiamava in proposito pronuncia di legittimità resa in caso analogo. Deduce altresì che nella sentenza gravata non si è fatta alcuna menzione della richiesta di applicazione dell'art. 129 c.p.p., nonostante l'ampia illustrazione oggetto della memoria difensiva.

3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta violazione di legge ex art. 734 bis cod. pen. nonchè falsa applicazione dell'art. 192 c.p.p., comma 1, e art. 546 c.p.p., lett. e), in relazione alla interpretazione del termine di "generalità" della persona offesa e del verbo "divulgare" per avere unicamente indicato un nome comune di persona, disgiunto dal cognome, che ben poteva riferirsi ad un indeterminato numero di soggetti. Deduce altresì che l'imputato avrebbe divulgato un fatto che in realtà non si è mai verificato, atteso quanto deciso dalla Corte di Appello di Salerno che ha assolto l'imputata, difesa dal ricorrente, perchè il fatto non sussiste e avrebbe in tal modo unicamente smentito una notizia risultata falsa alla luce della sentenza stessa, divulgata dalla madre della minore. Lamenta inoltre non avere la sentenza di primo grado considerato (reputandole circostanze che solo indirettamente potevano portare ad identificare la minore) che gli stessi genitori avevano parlato in pubblico (sia sulla stampa che in trasmissioni televisive compresa quella in cui era poi comparso anche l'imputato) dei fatti costituenti reato fornendo particolari sulla loro identità e sui fatti in modo talmente preciso (mediante il riferimento al cognome, al luogo di residenza, al luogo e al nome dell'asilo) che l'identificazione della figlia si era resa possibile ancor prima che l'imputato ne pronunciasse semplicemente il nome. Si censura dunque l'erroneo significato di "generalità" inteso dai giudici in esse dovendo ricomprendersi, oltre al cognome della persona, anche tutte quelle notizie (come quelle nella specie rivelate intenzionalmente dai genitori) che possono anche indirettamente condurre alla identificazione della stessa. Si deduce inoltre che l'imputato ha unicamente indicato il nome proprio della minore mentre la locuzione "figlia dei signori D.G." è stato elemento aggiunto dal Tribunale di Roma nonchè già indicato dai genitori nelle precedenti esternazioni (tra cui l'intervento, a trasmissione di Radio radicale in data (OMISSIS), del padre Avv. D.G. qualificatosi come genitore della bambina implicata nel processo presso il Tribunale di Vallo della Lucania); solo associando le dichiarazioni di questi con il nome pronunciato dall'imputato, si sarebbe allora potuta verificare l'identificazione della minore, dovendosi allora sostenere, semmai, un concorso tra gli stessi. Non a caso la sentenza impugnata ha escluso la parte civile ( P.R., madre della minore) dal riconoscimento in suo favore del diritto al risarcimento del danno alla luce del comportamento da lei stessa assunto. Da ultimo, si aggiunge che la stessa trasmissione televisiva non avrebbe dovuto essere trasmessa poichè effettuata in violazione del Protocollo di Treviso che non consente ai genitori di presentarsi in pubblico con il viso scoperto proprio al fine di evitare, seppur indirettamente, l'identificazione dei figli, essendo stata tra l'altro mandata in onda, durante la trasmissione, copia degli atti processuali in violazione del segreto istruttorio.

3. Con un terzo ed ultimo motivo lamenta la violazione e la falsa applicazione dell'art. 578 c.p.p., per quanto riguardante le statuizioni civili. Infatti, la Corte di Appello, pur affermando essere stati gli stessi genitori a portare all'attenzione del pubblico quanto accaduto, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, escludendo quindi la risarcibilità dei danni nei confronti della madre, ha poi contraddittoriamente confermato la sussistenza di un generico e immotivato danno morale nei confronti della minore.

Motivi della decisione

1. Va premesso che il ricorso, con cui si lamenta la mancata assoluzione nel merito rispetto all'addebito di cui all'imputazione pur a fronte di maturata prescrizione del reato, è, sotto tale profilo, ammissibile.

Va infatti ricordato che, se è vero che, per espresso dettato dell'art. 129 c.p.p., comma 2, richiamato dall'art. 531 c.p.p., ove ricorra una causa di estinzione del reato, la pronuncia di assoluzione nel merito può essere adottata solo nel caso in cui dagli atti risultino evidenti gli elementi deponenti, appunto, in senso pienamente assolutorio, è anche vero che, ove nel processo sia presente la parte civile costituita, il giudice dell'appello è comunque tenuto, nel prendere atto della causa estintiva del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, a pronunciarsi, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., sull'azione civile; ciò significa che lo stesso deve quindi necessariamente compiere una valutazione approfondita dell'acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi.

Di qui, dunque, la conseguenza per la quale, in sede di appello, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 578 c.p.p., la formula assolutoria nel merito deve prevalere rispetto alla causa di estinzione del reato: e ciò, non solo nel caso di acclarata piena prova di innocenza, ma anche in presenza di prove ambivalenti, posto che, in tal caso, le esigenze di economia processuale (che, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all'art. 129 c.p.p., comma 2), non possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l'applicazione della regola probatoria di cui al secondo comma dell'art. 530 del codice di rito. In definitiva, in tali casi, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova" (Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273).

2. Ciò posto, inammissibile per manifesta infondatezza il primo motivo di ricorso posto che la sentenza, al di là della non effettuata menzione espressa dell'art. 129 c.p.p., e della memoria presentata, ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di disattendere le argomentazioni difensive contenute nella memoria e volte a richiedere l'assoluzione nel merito, è invece fondato, nei termini di cui oltre, il secondo motivo con il quale si deduce essenzialmente, per il tramite dalla violazione di legge denunciata, l'insussistenza del reato; si lamenta in particolare, contestando la fondatezza delle risposte date sul punto dalla sentenza impugnata, da un lato l'omessa considerazione che ciò che venne divulgato sarebbe stato, in realtà, null'altro che la notizia di un fatto - reato insussistente attesa la sentenza assolutoria e, dall'altro, l'impossibilità di configurare comunque, nella specie, la addebitata condotta di divulgazione posto che l'imputato ebbe ad indicare semplicemente un nome di battesimo e che comunque già prima della indicazione, da parte dell'imputato, del nome della persona offesa dal reato a suo tempo attribuito all'assistita dal medesimo, i genitori della vittima, in più occasioni pubbliche, avevano nella sostanza tenuto condotte e fatto affermazioni comunque idonee a consentire di risalire alla identità della minore - persona offesa.

Quanto al primo punto, la prospettazione difensiva, con cui pare fondamentalmente sostenersi che l'epilogo assolutorio escluderebbe il reato, non è condivisibile: anche a volere ritenere che la qualifica di "persona offesa" dei delitti di cui all'art. 734 bis c.p., dipenda dall'esito del relativo processo, sì che ove, in ragione dell'assoluzione dell'imputato, si debba ritenere insussistente il reato, e, dunque, non individuabile alcuna "persona offesa", risulta infatti dallo stesso contenuto del ricorso che la sentenza assolutoria intervenne molti anni dopo il momento in cui avvenne la enunciazione del nome della ragazza, certamente ancora qualificabile, in quella data, come persona offesa di un processo ancora in itinere.

Quanto al secondo profilo, la sentenza impugnata ha ritenuto invece sussistente la condotta di divulgazione sul presupposto che, irrilevanti le precedenti condotte dei genitori (ed in particolare quella del padre della vittima che, presentatosi con il proprio cognome, aveva indicato, in una trasmissione diffusa in scala nazionale su (OMISSIS), la figlia come "coinvolta nei fatti di cui al processo di Valle delle Lucania"), la sola enunciazione del nome di battesimo della ragazza da parte dell'imputato nella trasmissione televisiva "(OMISSIS)" (cui erano presenti, ancora un volta, i genitori) avrebbe integrato la divulgazione delle generalità della vittima della persona offesa, rendendo in tal modo possibile "per la generalità indifferenziata degli utenti, l'associazione immediata del nome con il cognome della minore e, quindi, per la prima volta, l'identificazione di essa". Sicchè, pur avendo implicitamente la Corte distrettuale riconosciuto che il solo nome di battesimo (l'unico pacificamente pronunciato dall'imputato senza aggiunte di sorta) non avrebbe potuto integrare la nozione di "generalità", il fatto sarebbe ugualmente stato commesso perchè detto nome veniva ad "associarsi" al cognome già risultato indirettamente esternato in particolare dal padre della bambina allorquando, presentatosi all'incontro diffuso su (OMISSIS) con il proprio cognome, egli aveva fatto chiaro riferimento ai fatti del processo di (OMISSIS).

Ritiene tuttavia la Corte che tale conclusione sia il frutto di un ragionamento logico viziato: se infatti, come pare ritenere la Corte, nessuna divulgazione, anche solo indiretta, delle generalità della persona offesa precedente alla data in cui l'imputato partecipò alla trasmissione televisiva vi fu pur in presenza della condotta tenuta dal padre al convegno diffuso via radio su scala nazionale, a maggior ragione non si comprende come la sola enunciazione del nome di battesimo (del tutto chiaramente inidoneo di per sè a consentire specificamente l'individuazione di alcuna persona) sia stata idonea a rendere pubbliche generalità che pubbliche non erano state rese neppure per effetto addirittura della indicazione del cognome della vittima e del suo collegamento con il processo di (OMISSIS).

Nè all'imputato, resosi responsabile della sola indicazione del nome di battesimo, può attribuirsi, come finisce per fare la sentenza per superare l'impasse, anche l'indicazione del cognome fatto in precedenza dal padre, non avendo tra l'altro i giudici di primo e di secondo grado mai precisato che C. fosse al corrente delle precedenti affermazioni fatte dal padre della ragazza durante il convegno trasmesso su (OMISSIS) ed avendo inoltre la sentenza impugnata dato atto del fatto che C., quel giorno, prese la parola a trasmissione già iniziata; al contrario, la necessità di tale consapevolezza non poteva e non può (laddove appunto all'imputato si faccia carico dello "abbinamento" del nome da lui pronunciato con il cognome pronunciato dal padre) non imporsi ove si consideri che, con riguardo alla cooperazione nel delitto colposo, applicabile anche alle contravvenzioni colpose (Sez. 3, n. 48016 del 05/11/2014, Galluzzi e altri, Rv. 261165), ed essendo inconfigurabile l'ipotesi del concorso, applicabile ai soli reati dolosi, ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della propria condotta con quella altrui (senza peraltro che tale consapevolezza investa, ovviamente, l'evento richiesto per l'esistenza del reato) (Sez. 4, n. 48318 del 12/11/2009, p.c. in proc. Gigli e altri, Rv. 245736); in altri termini, come costantemente chiarito da questa Corte, deve sussistere la reciproca consapevolezza di contribuire all'azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell'evento non voluto (Sez. U., n. 5/99 del 25/11/1998, Loparco, Rv. 212576).

3. In definitiva, apparendo emergente, dalla necessaria interpretazione secondo legge degli stessi dati fattuali contenuti nella sentenza, i presupposti della evidenza della mancanza di prova di sussistenza del reato ascritto, e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto ex art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2018