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Diritto di resistenza ad atti arbitrari del pubblico ufficiale (Cass. 4457/19)

29 gennaio 2019, Cassazione penale

Il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima: non vi  è spazio per una malintesa tutela del prestigio e della "infallibilità" degli agenti della pubblica autorità.

I rapporti tra cittadini ed Autorità devono rendere pertanto lecita e quindi priva di antigiuridicità la reazione del privato di fronte ad atti arbitrari della pubblica autorità, non soltanto perchè il soggetto passivo non è meritevole di tutela, ma in quanto deve essere garantito al cittadino in una concezione dello Stato di tipo democratico la facoltà di "resistere" a tutela del diritto o l'interesse privato arbitrariamente leso o posto in pericolo o quantomeno di essere giustificato quando abbia reagito verbalmente quale sfogo del turbamento psichico causato dall'atto arbitrario.

Il cd. diritto di resistenza rispetto ad un attimo arbitrario del pubblico ufficiale è una scriminanbte; per poter trovare applicazione in forma putativa l'errore deve cadere sul fatto, determinando nell'agente la giustificata e ragionevole persuasione di trovarsi di fronte ad un atto arbitrario: il privato, a causa dell'errore, deve invero ritenere di versare concretamente in una situazione di fatto, che se effettiva, renderebbe applicabile la causa di giustificazione (si pensi ad esempio al privato, che si opponga al pubblico agente, avendo creduto erroneamente di avergli consegnato tutta la documentazione richiesta e ritenendo pertanto meramente persecutoria l'attività con cui questi abbia insistito nel fargli richiesta dei documenti).

Naturalmente, come per tutte le cause di giustificazione, si richiede all'imputato, che ne invochi l'applicazione in forma putativa, un onere di allegazione, non potendosi la stessa basarsi su un mero criterio soggettivo, bensì su dati di fatto concreti, tali da giustificare l'erroneo convincimento

Cassazione Penale
 

sez. VI Sentenza 29/01/2019, n. 4457

 

Presidente FIDELBO Giorgio relatore CALVANESE

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

D.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 15/09/2017 della Corte di appello di Bari;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Ersilia Calvanese;

udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Picardi Antonietta, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale della stessa città nella parte in cui aveva condannato D.G. per il reato di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali aggravate.

Secondo quanto emerge dalle sentenze di merito, l'imputato, dopo essere stato identificato e invitato dal personale della Polizia ferroviaria a recarsi in Commissariato appena sceso dal treno, in quanto destinatario di un "atto di rintraccio", veniva intercettato da una pattuglia del locale Commissariato, nel frattempo avvisato dalla Polfer, e invitato più volte a fornire le sue generalità o esibire un documento di riconoscimento, ma senza esito.

A fronte di tale condotta omissiva, l'imputato, dopo essere stato invitato a seguire gli agenti in Commissariato per la sua identificazione, si opponeva a costoro con forza ingaggiando una colluttazione nel corso della quale uno degli agenti riportava lesioni personali.

Secondo la Corte di appello, la p.g. aveva il preciso potere-dovere, ai sensi dell'art. 349 c.p.p., comma 4, di accompagnare l'imputato in Commissariato per identificarlo (essendo emerso che lo stesso era ricercato non solo per la notifica, quale persona offesa di un reato, ai sensi dell'art. 409 c.p.p., ma anche per essere sentito su delega del P.M. nell'ambito di indagini in corso) e, dopo i ripetuti tentativi di farlo in loco, poteva la stessa p.g. usare per tale motivo una coazione fisica, strettamente necessaria per l'espletamento dell'incombente.

Il fatto che l'imputato fosse stato già identificato dagli agenti della Polfer, ad avviso della Corte territoriale, non lo legittimava a rifiutarsi di fornire successivamente le proprie generalità ad altri pubblici ufficiali, che alcuni minuti dopo gliene avevano fatto richiesta.

Nè, in mancanza di una condotta oggettivamente qualificabile in termine di arbitrarietà, era ravvisabile, secondo la Corte di appello, alcuna scriminante a favore dell'imputato.

2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del suo difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p.

2.1. Violazione di legge.

2.1.1. Già in sede cautelare, la Suprema Corte, annullando senza rinvio, l'ordinanza cautelare emessa nei confronti del ricorrente per la medesima vicenda, aveva stigmatizzato il comportamento degli agenti, definendo "arbitrari" i loro atti (era stato costretto ad entrare nell'auto della polizia senza giustificazione), avverso ai quali aveva reagito il ricorrente.

Secondo la Corte di legittimità, si era palesemente al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 349 c.p.p. (identificazione del soggetto indagato), mentre la disciplina che doveva giustificare l'accompagnamento coattivo ai fini di identificazione era quella di cui alla L. 18 maggio 1978, n. 191, art. 11 nella specie, interpretata in modo palesemente erroneo dai giudici della cautela, in quanto la stessa assolve a funzioni essenzialmente preventive e comunque impone l'avviso alla Autorità Giudiziaria, e trova ragione quando vi sia necessità di identificare un soggetto, evidentemente non già noto, e vi siano sufficienti indizi per ritenere che lo stesso abbia fornito dichiarazioni false in ordine alla propria identità o abbia esibito falsi documenti.

Secondo la Corte di cassazione, nella specie, mancava la necessità che autorizzava eccezionalmente la temporanea privazione di libertà, posto che il soggetto era già conosciuto. Il suddetto orientamento risulterebbe confermato dalla Corte di cassazione in altre pronunce (Sez. 6, n. 43894 del 13/09/2016, Virdis, Rv. 268504).

2.1.2. In via subordinata, non sarebbe stata comunque esaminata la mancanza del dolo, stante la già avvenuta identificazione a bordo del treno ad opera della Polfer e avendo ritenuto arbitrario il successivo comportamento della Polizia di Stato.

2.2. Mancata assunzione di una prova decisiva.

Con l'atto di appello era stato allegato nuovamente il referto relativo alle lesioni subite dal ricorrente - già presente nell'incarto processuale, ma la Corte di appello non lo avrebbe considerato.

La motivazione sulla condotta del ricorrente sarebbe illogica, posto che la certificazione delle lesioni riportate dall'agente (trauma distorsivo alla caviglia) mal si concilierebbe con una condotta aggressiva, dimostrando al più che si è solamente difeso.

2.3. vizio di motivazione.

La Corte di appello non avrebbe considerato il rilievo sollevato con l'appello in ordine all'incoerenza tra il tipo di lesione refertata all'agente e quanto dichiarato da quest'ultimo (l'aver subito un calcio), considerato che gli atti di resistenza non risultano qualificati in modo specifico (si parla di "colluttazione").

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito illustrate.

2. Il Collegio ritiene assorbente affrontare la questione della configurabilità nella vicenda in esame della "causa di non punibilità" prevista dall'art. 393-bis c.p..

Con tale norma il codice esclude invero l'applicazione di una serie di disposizioni, volte ad incriminare condotte commesse dal privato nei confronti di qualificati soggetti pubblici (artt. 336, 337, 338, 339, 339-bis, 341-bis, 342 e 343 c.p.) allorquando "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto (....) eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni".

Questa fattispecie, reintrodotta con la L. n. 94 del 2009, riproduce integralmente quella già disciplinata dal D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, art. 4 (espunta per effetto del D.L. n. 200 del 2008, conv. con modd. dalla L. n. 9 del 2009, in materia di semplificazione normativa), salvo prevedere i necessari aggiustamenti in ordine alla sua applicazione a nuove figure di reato.

Sulla natura di questa figura si sono prospettate da tempo variegate soluzioni esegetiche, che al di là del corretto inquadramento sistematico dell'istituto, hanno assunto particolare rilevanza con riferimento alla possibilità dell'applicazione dell'art. 59 c.p., u.c., riservato, secondo un orientamento largamente dominante, alle sole cause di giustificazione o scriminanti del reato.

La giurisprudenza di legittimità, pur utilizzando definizioni non sempre coerenti, ha qualificato la fattispecie in esame come esimente collocandola pacificamente tra le "cause di giustificazione" che escludono il carattere antigiuridico della condotta (Sez. 6, n. 22529 del 18/03/2015, Vieider, Rv. 263690 in motivazione; Sez. 6, n. 16460 del 11/02/2015, D'Erme, Rv. 263578, in motivazione; Sez. 6, n. 14567 del 06/03/2014, Tavecchio, Rv. 260890; Sez. 6, n. 18841 del 14/04/2011, Mantovani, Rv. 250095; Sez. 5, n. 38952 del 27/10/2006, Izzi, Rv. 235285; Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, Todirica, Rv. 227721), anche dette "scriminanti" (Sez. 6, n. 18957 del 30/04/2014, Bellino, Rv. 260704; Sez. 6, n. 23255 del 15/05/2012, Negro, Rv. 253043; Sez. 6, n. 7928 del 13/01/2012, Variale, Rv. 252175; Sez. 6, n. 42639 del 22/09/2009, Kosovel, Rv. 245002; Sez. 6, n. 36162 del 10/06/2008, Cassone, Rv. 241750; Sez. 6, n. 35845 del 16/04/2008, Marino, Rv. 241245; Sez. 6, n. 27703 del 15/04/2008, Dallara, Rv. 240881; Sez. 6, n. 1339 del 04/06/1969, Leonbruni, Rv. 112433; Sez. 6, n. 685 del 22/03/1969, Bettelli, Rv. 111376; Sez. 6, n. 35 del 14/01/1969, Cossio, Rv. 111130; Sez. 1, n. 1540 del 20/11/1968, dep. 1969, Di Stefano, Rv. 110825; Sez. 6, n. 775 del 11/05/1968, Del Pinto, Rv. 109043; Sez. 3, n. 3164 del 19/11/1965, dep. 1966, Musumeci, Rv. 100500), pervenendo, se del caso, costantemente all'applicazione della conseguente formula assolutoria "perchè il fatto non costituisce reato" (Sez. 2, n. 22549 del 07/05/2014, Nuzzaci, non mass.; Sez. 6, n. 18841 del 14/04/2011, Mantovani, Rv. 250095; Sez. 6, n. 36162 del 10/06/2008, Cassone, Rv. 241750; Sez. 6, n. 23807 del 06/04/2004, Gioca, non mass.), formula prevista dal codice di rito in caso di accertamento dell'esistenza di una causa di giustificazione (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240814).

A fronte di questo pacifico orientamento, la giurisprudenza con divergenti motivazioni ha invece affrontato la questione della rilevanza della fattispecie in esame in forma putativa.

Coerentemente alla qualificazione della figura come scriminante, si è osservato che l'arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale offeso non può essere putativa, ma deve essere oggettivamente esistente, in quanto l'art. 59 cit. richiede che l'errore ricada sugli "elementi di fatto" che costituiscono il reato, tra i quali non rientra la materialità costitutiva della circostanza prevista dal D.Lgs.Lgt. n. 288 del 1944, art. 4 (Sez. 1, n. 1601 del 14/05/1971, Clivio, Rv. 119047; Sez. 6, n. 1229 del 15/12/1972, dep. 1973, Cenni, Rv. 123185; Sez. 6, n. 10586 del 11/10/1984, Maurici, Rv. 166844).

Si è in particolare, osservato che, anche ricorrendo alla fattispecie dell'errore sul fatto che, ex art. 47 cit., esime dalla punibilità, quest'ultimo deve comunque riguardare un elemento materiale del reato, consistendo in una "difettosa percezione" o in una "difettosa ricognizione della percezione" che valga ad alterare il presupposto stesso del processo volitivo dall'agente, così indirizzandolo verso una condotta viziata alla base. Se, però, la realtà è stata esattamente percepita nel suo concreto essere, non può affatto farsi richiamo all'errore di fatto, trattandosi invece di errore sulla interpretazione tecnica della realtà come percepita e sulle norme che la disciplinano, il che è ininfluente ai fini dell'applicazione della disposizione cit. (Sez. 6, n. 603 del 18/11/2005, dep. 2006, Gaggiola, non mass.).

In altri termini, secondo questo orientamento, l'errore non deve riferirsi alla arbitrarietà o meno dell'atto del pubblico ufficiale, ma alla sussistenza di eventuali circostanze di fatto che, se fossero state esistenti, avrebbero reso arbitraria la condotta del pu. (Sez. 2, n. 8572 del 02/02/1973, Ulgheri, Rv. 125583), in quanto non sarebbe scriminante la "arbitrarietà putativa" (Sez. 6, n. 2435 del 16/01/1978, Campomaggiore, Rv. 138175).

Questa esegesi ha inteso quindi ribadire, in applicazione dei principi pacifici in tema di "scriminante putativa" di cui all'art. 59 c.p., che l'errore del privato rilevante non può che essere quello nella forma dell'errore "sul fatto", cioè deve cadere sulla sussistenza di eventuali circostanze di fatto che abbiano prodotto un erroneo apprezzamento dei fatti, non potendo essere invece invocata quando l'errore dell'agente si traduca in un mero errore di diritto (quale deve ritenersi l'errore sulla legittimità dell'operato del p.u., dovuto ad una inesatta conoscenza dei precetti imposti dall'ordinamento).

Secondo un principio più volte affermato, non ha invero efficacia scriminante l'erronea e inescusabile convinzione che la situazione nella quale l'agente si trova ad operare rientri tra quelle cui l'ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante, giacchè diversamente si finirebbe con il considerare inoperante, sul terreno delle cause di giustificazione, il principio generale, posto dall'art. 5 c.p., secondo cui l'ignoranza (inescusabile) della legge non scusa (tra tante, Sez. 4, n. 12137 del 05/06/1991, Rizzo, Rv. 188684).

Accanto a questo filone interpretativo, si è andato sviluppando un più consistente e attualmente dominante orientamento che ha escluso in radice la possibilità dell'applicazione dell'art. 59 c.p., u.c. La ratio di tale esegesi si rinviene in risalenti arresti di legittimità, che hanno fatto leva essenzialmente sulla funzione assegnata all'istituto, sin dalla sua previgente (analoga) formulazione nel codice Zanardelli, di non consentire la applicabilità delle disposizioni normative concernenti le incriminazioni afferenti la tutela del prestigio del pubblico ufficiale quando sussista "obiettivamente" l'arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale.

Su queste premesse, si è consolidato l'orientamento secondo cui il D.Lgs.Lgt. n. 288 del 1944, art. 4 non prevede una circostanza di esclusione della pena ricadente sotto la disciplina dell'art. 59 c.p., ma dispone l'esclusione di tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno, trovando applicazione solo in rapporto ad atti che obiettivamente e non soltanto nell'opinione dell'agente, concretino una condotta arbitraria (Sez. 6, n. 2329 del 14/01/1998, Fiorentini G, Rv. 209965; conf. Sez. 6, n. 45266 del 18/09/2008, De Pascali, Rv. 242395).

Principio, questo, applicato anche alla fattispecie di cui all'art. 393-bis c.p., tenuto conto della identica formulazione adottata dal legislatore nel reintrodurla (Sez. 6, n. 46743 del 06/11/2013, Ezzamouri, Rv. 257513; Sez. 6, n. 31288 del 28/03/2017, D'Aurelio, Rv. 270859).

Soltanto in qualche isolato arresto, a dir il vero, la Corte di legittimità si è premurata, al di là della riaffermazione del suddetto principio, di specificare quale sia in definitiva la natura della fattispecie, qualificandola ora come una "causa obiettiva di punibilità" o come causa di esclusione della pena "in senso stretto" (Sez. 6, n. 17925 del 12/04/2013, Surco, non mass.).

Su posizioni distanti da quest'ultimo orientamento si è invece attestata la dottrina maggioritaria, che ha da tempo qualificato la "reazione legittima" come una scriminante in senso tecnico, inquadrandola come un vero e proprio diritto soggettivo del privato costituzionalmente tutelato alla resistenza individuale al sopruso subito, che rende pertanto ad ogni effetto il fatto penalmente lecito: una sorta quindi di diritto alla resistenza o alla reazione riconosciuta dall'ordinamento, originato dalla necessità di ricostruire, a seguito dell'atto arbitrario del pubblico agente, il corretto rapporto Stato-individuo, al quale devono essere riconosciuti tutti i requisiti e gli effetti propri delle scriminanti. Tra questi ultimi, in particolare la rilevanza dell'erronea supposizione circa l'esistenza della scriminante, ex art. 59 c.p., comma 4.

3. Fatte queste premesse, il Collegio ritiene di aderire all'orientamento che, qualificata la figura in esame come causa di giustificazione, configura la stessa anche in forma putativa.

3.1. Un contributo importante nella ricostruzione dell'istituto della "reazione legittima ad atti arbitrari" si rinviene nella sentenza n. 140 del 1998 della Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi su una questione di costituzionalità del D.Lgs.Lgt. n. 288 del 1944, art. 4 ha tracciato alcuni importanti direttive esegetiche.

In primo luogo, la Corte costituzionale, dovendo verificare la tenuta costituzionale della nozione di "atto arbitrario", alla stregua della interpretazione ristrettiva maggioritaria, ha avuto modo di rilevare che molte delle soluzioni esegetiche allora ricorrenti della norma erano in realtà il frutto di una risalente interpretazione che trovava la sua origine nel particolare assetto dei rapporti tra cittadino e autorità dell'epoca in cui la causa di giustificazione era stata introdotta e che, tuttavia, non poteva non adeguarsi ai mutamenti dell'ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione.

In particolare, il Giudice delle leggi ha evidenziato che la causa di giustificazione degli "atti arbitrari", già presente nel codice penale Zanardelli del 1889, era stata abolita dal codice penale del 1930, per essere poi reintrodotta, ancor prima della fine della guerra di Liberazione, dal D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, unitamente ad altre significative modifiche dell'ordinamento penale, ritenute coessenziali al passaggio dal regime autoritario al nuovo ordinamento democratico e alla nuova impostazione dei rapporti tra autorità e cittadino.

La scelta del Codice Rocco di non disciplinare la fattispecie era stata in realtà motivata dalla convinzione che essa potesse trovare applicazione nell'ambito della scriminante della legittima difesa (cfr. la Relazione ministeriale, ove si affermava: "è talmente logico e giuridico che, come contro gli abusi del cittadino che violi gli altrui diritti si ricorra alla tutela offerta dalla legge, lo stesso abbia farsi contro gli abusi dei pubblici funzionari, e che i presupposti di fatto di diritto che possono consentire la legittimità della sostituzione dell'attività privata all'attività pubblica per la difesa del diritto minacciato dall'arbitrio sono identici in entrambi i casi"), pur celando, come sembra avallare la Corte costituzionale, l'intenzione di voler piuttosto affermare "una malintesa tutela del prestigio e della "infallibilità" degli agenti della pubblica autorità".

Con la sua reintroduzione, come è dato leggere nella relazione ministeriale al decreto del 1944, il legislatore aveva inteso ripristinare, in attesa della pubblicazione dei nuovi codici, "la regola già accolta negli artt. 192 e 199 c.p. 1989, secondo la quale il fatto non è punibile quando il pubblico ufficiale ha dato causa al fatto stesso, eccedendo con atti arbitrari e limiti delle sue attribuzioni" e ciò al fine di riaffermare "le nostre tradizioni giuridiche le quali intesero sempre di garantire la pubblica autorità nell'esercizio dei suoi poteri, ma solo quando essa agisce nei limiti stabiliti dalla legge, in cui trovano la loro misura i diritti e doveri d'ogni cittadino".

Secondo la Corte costituzionale, le vicende storiche della causa di giustificazione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale erano sintomatiche della diversa disciplina dei rapporti tra cittadino e autorità rispettivamente negli ordinamenti liberai-democratici e nei regimi totalitari: in particolare, esse venivano a riflettere le garanzie e le forme di tutela che i primi riconoscono ai privati in caso di comportamenti abusivi dei pubblici ufficiali.

Pertanto, la stessa Corte ha efficacemente rilevato come rientrasse nei poteri-doveri dell'interprete tenere conto dello sviluppo storico dell'istituto che egli è chiamato ad applicare, attribuendogli il significato più consono alla struttura complessiva dell'ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione.

In questa esegesi evolutiva e adeguatrice, la Corte costituzionale ha esemplificatamene collocato la sentenza n. 341 del 1994, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la misura minima edittale di sei mesi di reclusione prevista dall'art. 341 c.p.: in tale occasione era stato rilevato come tale sanzione fosse in definitiva il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che doveva ritenersi estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima.

Seguendo questa linea interpretativa, la Corte costituzionale ha avvalorato una interpretazione "più lata" della fattispecie in parola, contestualizzandola alla normativa positiva, volta ad impostare in un contesto di lealtà e di reciproca fiducia e collaborazione i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione.

La stessa nozione di "atto arbitrario", secondo la Corte costituzionale, doveva essere adeguata, rispetto alle più restrittive esegesi all'epoca maggioritarie, per ricomprendervi anche l'atto del pubblico ufficiale che, pur essendo sostanzialmente legittimo, ma connotato da difetto di congruenza tra le modalità impiegate e le finalità per le quali è attribuita la funzione stessa, a causa della violazione degli elementari doveri di correttezza e civiltà che debbono caratterizzare l'agire dei pubblici ufficiali.

Quanto alla natura della fattispecie, la Corte costituzionale, nel qualificarla come causa di giustificazione o esimente, ebbe ad osservare che essa veniva a ricalcare in definitiva la struttura delle altre cause di giustificazione previste dal codice, come ad esempio - nella specifica ipotesi della reazione oltraggiosa del privato - di quella della provocazione, differenziandosene solo per gli elementi specializzanti della qualità di pubblico ufficiale della persona offesa e della conseguente specificità del fatto ingiusto su cui si innesta la reazione, individuato in relazione alle funzioni del soggetto passivo e ai doveri di correttezza, di convenienza e di urbanità che debbono connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali ed i privati.

3.2. Un ulteriore spunto esegetico a favore della qualificazione della fattispecie in esame come causa di giustificazione sembra potersi trarre dalla collocazione, alquanto originale, della norma nel corpo del codice penale.

Il legislatore, allorquando nel 2009 ha introdotto la nuova fattispecie nel codice penale, non l'ha infatti inserita, come prevedibile, del titolo 2 dei delitti contro la pubblica amministrazione, bensì in quello dei delitti contro l'amministrazione della giustizia e segnatamente nel capo dedicato alla "tutela arbitraria delle private ragioni".

In tal modo - pur venendo così ad accumunare indubbiamente situazioni assai diverse - il codice pare aver voluto valorizzare le similitudini che consentono di inquadrare la reazione legittima del privato in una forma di esercizio arbitrario di un diritto, se pur al fine di escluderne la punibilità.

3.3. Tirando le fila del discorso possono rassegnarsi le seguenti conclusioni. La lettera della norma in esame non consente di escludere di inquadrare la fattispecie in una vera e propria scriminante.

Le diverse affermazioni giurisprudenziali, che valorizzavano la funzione dell'istituto, appaiono in verità alquanto datate e tramandate negli anni solo tralaticiamente, e non rispondenti ad una esegesi volta, come ha raccomandato la Corte costituzionale, a cogliere i mutamenti nell'ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione, della concezione dei rapporti tra cittadini ed Autorità.

Rapporti che devono rendere pertanto lecita e quindi priva di antigiuridicità la reazione del privato di fronte ad atti arbitrari della pubblica autorità, non soltanto perchè il soggetto passivo non è meritevole di tutela, ma in quanto deve essere garantito al cittadino in una concezione dello Stato di tipo democratico la facoltà di "resistere" a tutela del diritto o l'interesse privato arbitrariamente leso o posto in pericolo (come nei reati di cui agli artt. 336, 337, 338 e 339 c.p.) o quantomeno di essere giustificato quando abbia reagito verbalmente quale sfogo del turbamento psichico causato dall'atto arbitrario (come nei reati di oltraggio di cui agli gli artt. 341, 342 e 343 c.p.).

Ne consegue che non si rinvengono ostacoli all'applicazione anche alla scriminante in parola dell'ultimo comma dell'art. 59 c.p.

Piuttosto, come già esattamente la giurisprudenza sopra richiamata aveva evidenziato, quel che va ribadito è che non può venire in considerazione l'errore del privato se non nella forma di errore sul fatto, non potendo essere invocata la scriminante putativa quando l'errore dell'agente si traduca in definitiva in un errore di diritto.

Non potrà pertanto rilevare l'errore del privato nel qualificare come arbitrario un atto in realtà legittimo, posto che l'errore in tal caso, come si è già detto in precedenza, verrebbe a rendere scusabile l'errore di diritto, sfociante nell'erronea e inescusabile convinzione che la situazione nella quale l'agente si trova ad operare rientri tra quelle cui l'ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante (tipico è il caso di chi viene fermato per un controllo autostradale e richiesto di fornire i dati identificativi del conducente e dell'automezzo: non potrà giustificare la sua condotta di resistenza, costituente reato, allegando la erronea convinzione dell'arbitrarietà del comportamento del pubblico agente, quanto alla legittimità richiesta rivoltagli, trattandosi di ignoranza di una norma extra penale, come tale irrilevante).

Diverso è invece il caso in cui l'errore sia caduto invece sul fatto, determinando nell'agente la giustificata e ragionevole persuasione di trovarsi di fronte ad un atto arbitrario: il privato, a causa dell'errore, deve invero ritenere di versare concretamente in una situazione di fatto, che se effettiva, renderebbe applicabile la causa di giustificazione (nell'esempio sopra riportato, il privato, che si opponga al pubblico agente, avendo creduto erroneamente di avergli consegnato tutta la documentazione richiesta e ritenendo pertanto meramente persecutoria l'attività con cui questi abbia insistito nel fargli richiesta dei documenti).

Naturalmente, come per tutte le cause di giustificazione, si richiede all'imputato, che ne invochi l'applicazione in forma putativa, un onere di allegazione, non potendosi la stessa basarsi su un mero criterio soggettivo, bensì su dati di fatto concreti, tali da giustificare l'erroneo convincimento (tra tante, Sez. 6, n. 4114 del 14/12/2016, dep. 2017, G, Rv. 269724).

Sotto altro verso, va ribadito che l'accertamento relativo alla scriminante in forma putativa deve essere effettuato con un giudizio "ex ante" calato all'interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sè considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all'azione che possano aver avuto concreta incidenza sull'insorgenza dell'erroneo convincimento di dover reagire ad un atto arbitrario (ex multis, sez. 4, n. 24084 del 28/02/2018, Perrone, Rv. 273401).

4. Declinati i suddetti principi al caso in esame, deve ritenersi la sussistenza della causa di giustificazione di cui all'art. 393-bis c.p. sotto il profilo putativo.

I Giudici di merito si sono invero premurati di evidenziare che quello che era apparso nella fase cautelare del procedimento come un comportamento arbitrario degli agenti (quanto alla necessità dell'identificazione del ricorrente basata soltanto sulla esigenza di notificare su un avviso ex art. 409 c.p.p.) era in realtà legittimo, come era dato ricavare da una nota del Commissariato dalla quale risultava che il ricorrente era destinatario di un atto di rintraccio anche per essere sentito su richiesta del P.M. di Salerno come persona informata sui fatti in merito ad un esposto-denuncia dallo stesso presentato contro un P.M. in relazione ad un procedimento in cui era indagato per calunnia.

Ebbene, che l'attività di identificazione ex art. 349 c.p.p. fosse in definitiva formalmente legittima, in quanto rispondente alle finalità della norma, non vale tuttavia a non rendere evidente come al contrario la stessa si fosse presentata agli occhi del ricorrente come arbitraria.

Come era emerso invero nella fase cautelare (in particolare dagli atti del suo arresto) il ricorrente si era visto sottoposto ad una insistente e persecutoria attività di identificazione (prima sul treno, poi una volta sceso dal treno) in funzione di motivi - quelli rappresentati dagli operanti al momento del fatto (la notifica di un atto) - non solo non consentiti dalla legge, ma che ragionevolmente erano apparsi ai suoi occhi viepiù come pretestuosi (risultando il ricorrente persona che gli operanti già conoscevano) rispetto alle denunce che il ricorrente aveva avanzato nei confronti di magistrati baresi e personale dello stesso commissariato di Monopoli.

Sotto questo profilo pertanto deve ritenersi, sulla base delle circostanze rappresentate nelle sentenze merito, che il ricorrente ragionevolmente e incolpevolmente si sia rappresentato di essere vittima di una condotta degli agenti improntata a vessazione, sopruso, prevaricazione, prepotenza nei suoi confronti.

Di qui il riconoscimento della scusabilità in forma putativa della sua reazione anche in ordine a quello che appariva al ricorrente come un ulteriore sopruso (l'accompagnamento coattivo in funzione dell'esigenza della notifica) con la privazione della sua libertà personale, dopo che erano stati chiamati rinforzi dalle forze dell'ordine per bloccarlo e condurlo presso il commissariato.

La esigenza di tutelare il bene primario della libertà personale a fronte di quello che il ricorrente aveva ritenuto un atto arbitrario viene a scriminare anche la restante e connessa condotta di lesioni personali, commessa dal predetto nel tentativo di sottrarsi alla coattiva privazione della libertà per l'accompagnamento coattivo.

S'impone, pertanto, l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza, perchè il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria, il 29 gennaio 2019.