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Difesa in separazione non consente accesso home banking coniuge (Cass. 34501/24)

12 settembre 2024, Cassazione penale

Non può ritenersi di certo scriminata la condotta di chi, per supportare la richiesta dell'assegno di mantenimento, per sé e la figlia minore, accede al home banking del (ex) coniuge perchè in possesso delle credenziali: deve invece avvalersi degli strumenti che il codice di procedura civile appresta allorquando si tratta di acquisire documentazione che non è nella disponibilità della parte e che può essere ottenuta mediante l'ordine dell'autorità giudiziaria.

Corte di Cassazione

sez. V penale

ud. 21 giugno 2024 (dep. 12 settembre 2024), n. 34501

Presidente Catena - Relatore Sessa

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 29.11.2023 la Corte di Appello di Palermo ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di B.F., che l'aveva dichiarata colpevole dei reati di cui agli artt. 616 cod. pen. e 615-ter cod. pen.

2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Col primo motivo deduce l'erronea applicazione della legge penale, nonché l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, in funzione della improcedibilità della querela per tardività. La persona offesa, costituita parte civile, nella querela del 22 Marzo 2017 aveva esposto di essere venuta a conoscenza della denunciata condotta in data 11 gennaio 2017, quando avrebbe ritirato presso l'ufficio postale di (omissis) il ricorso introduttivo del giudizio di separazione introdotto dalla ricorrente, ma vero è che invece l'atto in questione si ha per notificato in data 21 novembre 2016, sicché alla data del 22 Marzo 2017, quando la querela fu presentata, era spirato il termine di giorni 90 previsto dall'art. 124 cod. pen.

L'atto giudiziario, infatti, per assenza della persona offesa, fu depositato presso l'ufficio postale in data 08/11/2016 con immissioni in cassetta dell'avviso di deposito e rispetto ad esso risulta il mancato ritiro nei 10 giorni successivi.

Da qui la tardività della querela.

2.2. Col secondo motivo deduce l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza di motivazione. L'imputata aveva eccepito, fin dall'inizio del procedimento, di essere stata in possesso delle credenziali di accesso al sistema home banking della banca presso cui il marito intratteneva il conto già in costanza di convivenza matrimoniale e di non avere mai ricevuto la revoca di tale consenso, né espressamente né tacitamente. Ha in tal modo sempre respinto le unilaterali accuse dell'ex coniuge che aveva sporto querela dopo essere stato costretto, all'esito dell'udienza presidenziale nel procedimento civile di separazione, a corrispondere alla moglie e alla figlia l'assegno di mantenimento che fino ad allora si era rifiutato di corrispondere.

Da ciò discendeva l'obbligo del giudice di merito della previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca del racconto della vittima; attendibilità che nel caso di specie è a monte viziata, avendo il querelante riferito circostanze non vere, e tenuto conto, per altro verso, che la persona offesa era mossa dall'interesse di tentare per altra via di espungere dal giudizio civile le prove sulla sua vera capacità reddituale.

La Corte di appello, nella sentenza gravata, senza dare minimamente conto di una tale problematica, ha ritenuto tour court l'assenza di consenso del querelante all'utilizzo delle credenziali.

Quantomeno sussiste un ragionevole dubbio in ordine alla colpevolezza dell'imputata.

2.3. Col terzo motivo deduce l'erronea applicazione della legge penale, segnatamente in relazione all'art. 51 cod. pen. La Corte d'appello ha escluso la sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto, ritenendo che nel giudizio civile di separazione la ricorrente avrebbe potuto ottenere la conoscenza delle evidenze patrimoniali del marito ricorrendo alle previsioni di cui all'art. 210 codice procedura civile, con la conseguenza che la condotta perpetrata non potesse ritenersi l'unico mezzo cui ricorrere nel caso di specie. Tuttavia, i giudici non hanno tenuto conto del fatto che la produzione degli estratti conto e del dossier titoli, estrapolati senza un divieto per l'imputata, avvenne in funzione dell'udienza presidenziale di comparizione dei coniugi, per l'adozione dei provvedimenti provvisori in ordine all'obbligo di mantenimento del coniuge più debole e della prole. L'imputata non aveva né il tempo né l'occasione di articolare una richiesta ex art. 210 e versava già in condizioni critiche perché il marito aveva abbandonato il tetto coniugale senza aver mai più contribuito ai bisogni materiali e patrimoniali della predetta e della figlia minorenne, che versavano pertanto in stato di bisogno dal mese di giugno 2016; laddove l'udienza di prima comparizione si svolse solo a febbraio del 2017.

Si sarebbe dovuto quindi applicare il principio della pronuncia di Cassazione penale n. 2457/2021, secondo cui ciò che appare dirimente ai fini del riconoscimento della scriminante in parola è la strumentalità e la proiezione finalistica della condotta rispetto all'esercizio del diritto da parte dell'agente con piena riconducibilità nell'area di operatività dell'art. 51 c.p. di tutte le estrinsecazioni del diritto di difesa, anche di quelle di natura anticipatoria, ove funzionalmente collegate alla tutela giudiziaria.

A tanto consegue che si appalesa del tutto legittima una lettura espansiva del diritto di difesa che abbracci tutte le modalità del suo esercizio non solo nel processo e nel procedimento ma anche prima che gli stessi vengano instaurati.

3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d.l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla l. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto:

il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso;

il difensore della parte civile ha chiesto rigettarsi il ricorso, allegando nota spese.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile

1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato alla stregua di quanto esso stesso prospetta. Ed invero, appare evidente che la decorrenza del termine per presentare la querela non possa che decorrere dal momento dell'effettiva conoscenza del contenuto dell'atto - nel caso di specie coincidente con il momento del ritiro del ricorso per la separazione dei coniugi risalente al 11.1.2017 - da cui emergono elementi a sostegno della notitia criminis denunciata, e che, quindi, non possa assumere alcun rilievo a tal fine - a differenza di quanto assume la difesa - il mero perfezionamento, formale, della notifica dell'atto (con la cd. compiuta giacenza).

Secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine per proporre querela comincia a decorrere dalla data di piena cognizione dei fatti da parte dell'interessato (cfr. tra tante, Sez. 2, n. 37584 del 05/07/2019, Rv. 277081 - 01; Sez. 6, n. 3719 del 24/11/2015, dep. 27/01/2016, Rv. 266954 - 01), sicché non potrebbe assumere giammai rilievo, di per sé, il mero perfezionamento formale della notificazione dell'atto fonte della notitia criminis, privo di riscontro, cioè, quanto alla effettiva presa di conoscenza del contenuto dell'atto da parte del querelante.

1.2. Il secondo motivo è aspecifico.

Nella sentenza impugnata la ricostruzione del fatto è svolta sulla base delle evidenze disponibili che non si risolvono nelle sole, opposte, dichiarazioni rese dall'imputata e dalla parte civile, avendo piuttosto - secondo quanto evidenziano le conformi sentenze di primo e secondo grado - quelle della parte civile trovato riscontro proprio in quanto la stessa ricorrente prospetta nel ricorso per la separazione da lei proposto e nella memoria difensiva. Tali atti nel dare atto delle risultanze relative ai rapporti bancari del (OMISSIS) - aggiornate a data successiva alla crisi coniugale - corredando la prospettazione con la inerente documentazione bancaria, offrono la prova dell'intervenuto accesso al sistema informatico bancario da parte dell'imputata.

La sentenza impugnata ha, per di più, già spiegato come - di là dell'asserzione del marito dell'imputata, persona offesa, che ha escluso di aver mai autorizzato la moglie, neppure in costanza di convivenza (tanto meno di aver mai reso noti i codici di accesso a lei come a nessun altro), ad entrare, tramite home banking, nell'area a sé riservata in via esclusiva nella qualità di esclusivo titolare del conto corrente di riferimento, intrattenuto, in regime di separazione dei beni, presso (omissis) s.p.a. - dovesse, in ogni caso, ritenersi certamente venuto meno l'eventuale consenso in tal senso prestato una volta intervenuta la crisi coniugale che aveva condotto alla cessazione della convivenza (alla persona offesa veniva peraltro, dall'imputata, preclusa la possibilità di far rientro nell'abitazione familiare per portare via i propri effetti personali, tra i quali vi erano le credenziali di accesso al sistema informatico bancario contenute in una busta custodita in un cassetto della casa).

D'altra parte, appare evidente che una eventuale autorizzazione, ove pure data in precedenza, dovesse ritenersi connaturale alla condivisione della vita coniugale e familiare, e non potesse essere intesa come un assenso indiscriminato di accesso e soprattutto per finalità del tutto estranee rispetto a quelle per le quali era stata rilasciata.

E' il caso di ricordare che lo scopo della norma incriminatrice di cui all'art. 615-ter cod. pen. è, invero, quello di inibire "ingressi abusivi" nel sistema informatico, sicché non assume rilievo ciò che l'agente carpisce indebitamente (se notizie riservate o altrimenti recuperabili), ma l'ingresso stesso, non sorretto da ragioni collegate al servizio pubblico o privato svolto ovvero all'autorizzazione ricevuta da parte del titolare del diritto di accesso.

Integra, invero, il delitto previsto dall'art. 615-ter cod. pen. non solo la condotta di colui che si introduca abusivamente in un sistema informatico protetto, ma altresì quella di chi, pur autorizzato ad accedervi, vi si trattenga, contro la volontà espressa o tacita di chi abbia il diritto di escluderlo, per finalità diverse da quelle per le quali era stato abilitato (cfr. tra tante Sez. 5, n, 24583 del 18/01/2011, Rv. 249822 - 01; cfr. altresì Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 07/02/2012, Rv. 251269 - 01).

La norma in questione configura, infatti, un reato di pericolo, che sì concretizza ogniqualvolta l'ingresso abusivo riguardi un sistema informatico contenente notizie riservate, indipendentemente dal tipo di notizia eventualmente appresa, protetto da misure di sicurezza ovvero il mantenimento all'interno di esso avvenga contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo.

E non c'è dubbio che l'area riservata alla gestione dei rapporti bancari intrattenuti con una banca altro non è che una componente del sistema informatico dell'istituto di credito, a cui con le tecnologie informatiche oramai a disposizione del cliente che ne fa richiesta è possibile accedere anche da casa con home banking, mediante l'utilizzo di speciali credenziali e password di accesso, rilasciate, in segretezza, dalla banca al titolare dei rapporti medesimi, stante la delicatezza dei dati cui afferiscono (che contengano notizie della più varia natura, tra cui anche notizie e dati destinati a rimanere segreti o riservati).

Ove le finalità siano diverse da quelle per le quali l'accesso era stato inizialmente autorizzato dal titolare, l'ingresso si qualifica per la sua illiceità non potendolo ritenere sorretto da un'autorizzazione data per ragioni difformi; l'avere agito per scopi differenti da quelli per i quali era stata data l'autorizzazione equivale ad agire senza autorizzazione dovendosi presumere la contraria volontà implicita del titolare.

Sicché deve concludersi che nel caso di specie, pure a voler ritenere che vi fosse stata una autorizzazione all'accesso allorquando il rapporto familiare era in essere - secondo quanto sostiene genericamente il ricorso avanzando peraltro inammissibili deduzioni in fatto quanto al momento degli accessi -, si dovrebbe comunque qualificare come abusivo l'ingresso, che, secondo la coerente ricostruzione dei giudici di merito, è intervenuto dopo la cessazione del rapporto (ed è stato funzionale all'acquisizione di dati da produrre in giudizio contro il titolare dell'area riservata violata, il cui dissenso ad una tale introduzione è stato, in buona sostanza, non illogicamente, ritenuto in re ipsa).

Né potrebbero residuare dubbi sulla consapevolezza, da parte dell'imputata, di agire in dissenso dal titolare della posizione informatica, atteso lo scopo perseguito evidentemente dissonante rispetto all'essenza di un'eventuale autorizzazione resa in costanza di convivenza familiare.

Se è vero, infatti, che lo scopo per il quale ci si intromette in un sistema informatico dotato di sicurezza non rileva (come più volte affermato da questa Corte), è altrettanto vero che al fine di comprendere se esso sia stato posto in essere contro la volontà tacita del titolare ben possono assumere rilievo le circostanze del fatto e le finalità dell'ingresso. D'altra parte, il fatto che i motivi che inducono all'ingresso abusivo non rilevino ai fini dell'integrazione del reato va inteso nel senso che l'introduzione rimane illegale anche se l'agente non persegue alcuno scopo specifico nell'introdursi.

Sicché, in definitiva, lo scopo perseguito rimane neutro ai fini dell'integrazione oggettiva del reato ma può assumere rilievo per ricostruire l'elemento soggettivo (fino ad escluderlo, come si dirà nell'affrontare l'ultimo motivo di ricorso, nel caso in cui il soggetto abbia agito nell'esercizio di un diritto, ricorrendo determinate condizioni).

1.3. Posto che l'ingresso nel sistema informatico assistito da credenziali vi è stato secondo la coerente ricostruzione dei giudici di merito (e ciò in realtà non è smentito dalla ricorrente che piuttosto come sopra detto ha inutilmente tentato di discolparsi adducendo l'autorizzazione del marito), occorre ora affrontare la questione relativa all'esercizio del diritto che pure la difesa ha riproposto nella presente sede, sebbene essa fosse stata già esaurientemente affrontata dalla Corte di appello.

Questa ha esplicitato le ragioni sulla cui base ha escluso la ricorrenza nel caso di specie della causa di giustificazione dell'esercizio del diritto - di difesa -argomentando, innanzitutto, sulla base della pronuncia di questa Corte, Sez. 5, n. 52075 del 29/10/2014, Lazzarinetti, Rv. 263225 - 01, della quale ha riportato il passo argomentativo di interesse (secondo cui "[l]a tesi che l'accesso abusivo ad un sistema informatico protetto sia scriminato dall'esercizio di un "diritto", allorché l'accesso faccia comodo all'agente per carpire dati utili alla sua difesa in giudizio, si fonda su una lettura personalistica e distorta della norma penale - nella specie, dell'art. 51 c.p. - e sulla assunzione di un concetto onnivoro dei diritto di difesa, che non trova riscontro nella tradizione giuridica italiana ed europea ed è disatteso dalla disciplina positiva delle investigazioni difensive. In realtà, per unanime interpretazione della dottrina e delia giurisprudenza, il diritto che scrimina è quello che, quale che sia il suo posto tra le situazioni giuridiche soggettive (diritto, diritto potestativo, potestà, facoltà), attribuisce al soggetto il potere di agire per la sua soddisfazione, sacrificando gli altri interessi con esso contrastanti. È necessario, però, che l'attività posta in essere costituisca corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto e non trasmodi in aggressioni della sfera giuridica altrui, che sia estranea al campo applicativo del diritto azionato. Nella specie, il diritto di difesa in giudizio si compendia in una serie di diritti e facoltà disciplinati dall'ordinamento positivo, nessuno dei quali autorizza intromissioni nella sfera giuridica delle controparti processuali o di altri soggetti processuali, né l'esercizio di poteri autoritativi riservati agli organi pubblici. Il richiamo dell'art. 51 c.p. è, pertanto, decisamente errato. Né l'attività posta in essere dall'imputato può essere ricondotta al paradigma delle investigazioni difensive, sia perché tale attività è riservata al difensore (e non all'imputato), sia perché la stessa deve arrestarsi di fronte agli ambiti di esclusivo dominio privato, come dimostrato dalla previsione dell'art. 391-sexies c.p.p.").

La sentenza impugnata - argomentando alla stregua della giurisprudenza di questa Corte - ha in buona sostanza affermato che la condotta di cui si adduce l'irrilevanza penale per essere scriminata deve pur sempre costituire una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto che si pretende di avere esercitato, e quindi escluso che l'introduzione in un sistema informatico assistito da credenziali potesse essere considerata una facoltà collegata al diritto di difesa.

Ebbene, fatte tali premesse, osserva, innanzitutto, questo Collegio che la causa di giustificazione in parola non può essere valutata come una scriminante in bianco che indiscriminatamente consente di dare rilievo a qualunque diritto comunque esercitato (in tal senso si è, invece, espressa Sez. 2, n. 2457 del 25/11/2020, dep. 21/01/2021, Rv. 280568 - 01, sia pure rispetto ad un peculiare caso in cui la comparazione era con il reato di ricettazione la cui natura patrimoniale ha fatto ritenere recessiva la sua integrazione rispetto all'esercizio del diritto di difesa a cui era strettamente collegato l'acquisto di beni provenienti da delitto).

La circostanza che tale scriminate non consista in specifici avvenimenti espressamente e tassativamente indicati dalla legge penale, ma recepisca in concreto la pluralità di diritti rinvenibili nell'ordinamento giuridico e suscettibili di rendere lecita una condotta che altrimenti costituirebbe reato, non comporta che l'esercizio del diritto possa assumere rilievo scriminante a prescindere dalla comparazione con gli altri interessi in gioco, dai contenuti e dalle sue modalità di estrinsecazione e dalle circostanze del caso concreto e ciò anche nei caso in cui si tratti del diritto di difesa (si pensi, ad esempio, al diritto di critica, che pur essendo un corollario del diritto di manifestazione del pensiero, assurge a scriminate del reato di diffamazione solo a determinate condizioni individuate dalla giurisprudenza di questa Corte in considerazione della natura e dell'estensione del diritto in questione rapportato al diritto della controparte a non essere offeso nella reputazione).

La mancanza di specificazione da parte del legislatore discende piuttosto dalla casistica dei diritti esercitabili che non sono riconducibili ad una categoria unitaria, dipendendo la legittimità, rectius la capacità scriminante dell'esercizio di ciascuno di essi, innanzitutto dalla natura e tipologia del diritto stesso, che può essere la più varia e che non sempre ricomprende già in sé la facoltà di cui l'agente si è avvalso, (così, ad esempio, proprio per il diritto di difesa a cui l'ordinamento riconduce determinate facoltà espressamente previste tra le quali non figura quella di accesso ad un sistema informatico altrui).

Sicché, erroneamente, la difesa afferma che per l'esercizio del diritto di cui all'art. 51 cod. pen., a differenza che per le altre cause di giustificazione, non sarebbero previste specifiche modalità giustificative di contesto, con la conseguenza che, nell'ottica difensiva, l'esistenza del diritto assurgerebbe quindi di per sé a ragione scriminate della condotta criminosa.

A differenza di quanto assume la difesa, l'esercizio del diritto, invece, non si pone come una monade a sé rispetto alle altre cause di giustificazione, ma si inserisce a pieno titolo nell'ambito del 'sistema penale' delle scriminanti in parola, connotate dalla medesima ratio della irrilevanza penale del fatto allorquando si verifichino determinate condizioni idonee a conferire prevalenza a una situazione giuridica rispetto ad un'altra.

Dal complesso delle norme che regolano le cause di giustificazione si evince, invero, che sotteso al riconoscimento di ciascuna delle scriminati di cui agli artt. 50 e segg. vi è una rigorosa comparazione degli interessi in gioco strettamente correlata a determinate circostanze che consentono di privilegiare una situazione a discapito di un'altra, di attribuire preminenza ad un interesse più che ad un altro. Per altro verso, in linea di massima, si deve trattare di condotte 'necessitate' nel senso che il risultato ottenibile attraverso di esse, tendenzialmente, non deve essere diversamente realizzabile.

Tale substrato non è estraneo alla causa di giustificazione dell'esercizio del diritto, rispetto alla quale il diritto viene in rilievo non in sé per sé ma in relazione ad una contrapposta situazione giuridica anch'essa suscettibile di tutela, rispetto alla quale la condotta posta in essere integrerebbe un reato se non fosse supportata dall'esercizio di un preminente diritto.

Sicché il punto non è se sia legittima una lettura espansiva del diritto di difesa che abbracci tutte le modalità del suo esercizio non solo nel procedimento ma anche prima che lo stesso venga instaurato (in tal senso, Sez. 2, n. 2457 del 25.11.2020, cit.; Sez. 6 n. 40886 del 8.3.2018, Rn. 274147 che si è espressa per la piena riconducibilità nell'area di operatività dell'art. 51 di tutte le estrinsecazioni del diritto di difesa, anche di quelle di natura anticipatoria, ove funzionalmente collegate alla tutela giudiziaria), perché pure a volere condividere tale impostazione, si tratta pur sempre di confrontarsi, a monte, con la fisionomia della causa di giustificazione in parola, che, come detto, non consente generalizzazioni neppure nel caso in cui si tratti del diritto di difesa, la cui rivendicazione, soprattutto quando esercitata al di fuori del procedimento, non comporta la soccombenza, a priori, di qualunque altra posizione giuridica con essa confliggente (d'altra parte anche lo stesso esercizio del diritto di difesa intra-procedimentale incontra dei limiti e non è assoluto).

Né la situazione cambia allorquando l'esercizio del diritto involga la sfera della controparte dell'instaurando giudizio dal momento che in tal caso le questioni di fatto e giuridiche vanno a maggior ragione affrontate nella dialettica processuale e risolte attraverso i mezzi che il processo mette a disposizione delle parti.

Il ricorso a "reati" quale strumento per acquisire elementi da far valere in giudizio a propria difesa non può che essere valutato come un'ipotesi limite, che intanto è discriminata in quanto è dettata dalla necessità di adottare quel comportamento quale unico mezzo per ottenere il risultato difensivo. E ciò perché nell'esercizio del diritto di difesa può ritenersi, ad esempio, compresa la facoltà di dire il falso - facoltà, peraltro, da ricondurre alla veste dell'indagato/imputato che non è un testimone - ma non qualunque facoltà strumentale alla difesa.

D'altra parte, non va, per altro verso, nemmeno trascurato - sebbene si tratti di situazioni non del tutto paragonabili al diritto di difesa - che questa Corte in relazione alle scriminanti dell'esercizio del diritto di critica e del diritto di cronaca ha affermato che esse rilevano solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima (Sez. 1, n. 27984 del 07/04/2016, Rv. 267053 - 01; Sez. 5, n. 36407 del 12/04/2023, Rv. 285109 - 01 che ha affermato che la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca rileva solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia e non anche rispetto a eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima).

Sicché, non essendo compresa nel diritto di difesa la facoltà di introdursi abusivamente, sia pure a fine difensivi, nel sistema informatico altrui, si tratta di stabilire entro quali limiti tale introduzione possa ritenersi scriminata, rispetto al caso concreto.

Ebbene, venendo al caso di specie, non può ritenersi di certo scriminata la condotta posta in essere dall'imputata dal momento che essa, per supportare la richiesta dell'assegno di mantenimento, per sé e la figlia minore, ben avrebbe potuto avvalersi degli strumenti che il codice di procedura civile appresta allorquando si tratta di acquisire documentazione che non è nella disponibilità della parte e che può essere ottenuta mediante l'ordine dell'autorità giudiziaria, ai sensi dell'art. 210 codice procedura civile.

Né potrebbe, a differenza di quanto assume la difesa, valere a rendere necessitata - e quindi giustificata in virtù dell'esercizio del diritto di difesa - la condotta di intrusione nel sistema informatico protetto, la circostanza che essa sarebbe stata funzionale, innanzitutto, alle statuizioni presidenziali che precedono l'instaurazione del giudizio di separazione vero e proprio in cui sono esercitabili i poteri del giudice ex art. 210. Ed infatti, ai fini dell'adozione dei provvisori provvedimenti presidenziali - suscettibili di aggiustamenti alla luce delle successive emergenze giudiziali - non era certamente essenziale l'allegazione dei dati estrapolati dagli accessi abusivi, di mero completamento della posizione reddituale della persona offesa (che era già ben delineata nei suoi tratti essenziali, di per sé idonei a supportare la pretesa atto rea sia pure non negli specifici termini quantitativi azionati).

Se è vero che in linea generale il diritto che scrimina è quello che, quale che sia il suo posto tra le situazioni giuridiche soggettive (diritto, diritto potestativo, potestà, facoltà), attribuisce al soggetto il potere di agire per la sua soddisfazione, sacrificando gli altri interessi con esso contrastanti (si pensi, ad esempio, al diritto di proprietà che consente al titolare di escludere gli altri dal godimento del bene), è altrettanto vero che, allorquando il sacrificio dell'altrui interesse si risolve nella integrazione di una fattispecie penale, che esula dalla tipicità del diritto - nel caso di specie quello di difesa che non ricomprende la facoltà di introdursi nel sistema informatico altrui - ai fini della giustificazione necessitano determinati stringenti presupposti, che nel caso di specie, correttamente, il giudice di merito - alla luce di quanto sopra evidenziato - non ha ritenuto ricorrenti.

2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate. Consegue altresì la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile liquidate in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.