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Decine di telefonate: condanna per molestie (Cass. 23186/22)

16 giugno 2022, Cassazione penale

La petulanza è una delle caratteristiche costitutive della contravvenzione in esame, per tale intendendosi un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell'altrui sfera di libertà, che deve ricorrere nella struttura stessa del reato: in tal senso la petulanza attiene al perimetro della condotta penalmente rilevante, ed è antecedente alla verifica dell'elemento soggettivo, che consiste nella volontà della condotta e nella direzione della volontà verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di libertà.

Corte di Cassazione

sez. I penale

ud. 15 febbraio 2022 (dep. 14 giugno 2022), n. 23186
Presidente Mogini – Relatore Liuni

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 30/4/2021 il giudice monocratico del Tribunale di Roma ha condannato P.G. alla pena dell'ammenda di Euro 200,00 per il reato di cui agli artt. 81 e 660 c.p. perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, per petulanza e altro biasimevole motivo, aveva molestato ripetutamente R.G. mediante continue telefonate sull'utenza del cellulare della medesima, commesso in (omissis), con permanenza. L'imputato è stato altresì condannato al risarcimento del danno cagionato alla persona offesa, costituitasi parte civile.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del difensore, avv. (omissis), adducendo i seguenti motivi di impugnazione.

2.1. Con il primo motivo si denuncia erronea applicazione dell'art. 660 c.p. e travisamento della prova, nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativa alla qualificazione della condotta in termini di molestia. Il giudice ha fondato la decisione sull'analisi dei tabulati telefonici che risulta, tuttavia, errata: in realtà, dai tabulati emerge che il numero di telefonate indirizzate dall'imputato all'utenza della persona offesa è nettamente inferiore a quanto aveva asserito la R., al punto che non può ritenersi integrata quella "concentrazione" tale da configurare il reato di cui all'art. 660 c.p. Le telefonate che hanno avuto una durata tale da permettere un'effettiva conversazione fra i due interlocutori sono solo quattro, distribuite nell'arco di un mese: in tutti gli altri casi l'imputato ha effettuato dei meri tentativi di chiamate e, in particolar modo, in data 26 giugno 2017 sono state effettuate 47 chiamate alle quali la R. non ha risposto non perché volesse evitare l'imputato, bensì perché era impegnata in un'altra chiamata e, di conseguenza, la sua utenza risultava occupata.

Il ricorrente denuncia, inoltre, che difetterebbe l'elemento soggettivo del reato, poiché l'imputato non intendeva arrecare turbamento alla persona offesa, nè è possibile affermare che le chiamate avvenissero per biasimevoli motivi: infatti, P. contattava la R. al fine di ottenere dei documenti che avrebbero dovuto essere consegnati a costui dal defunto marito della donna.

2.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia l'erronea applicazione dell'art. 131 bis c.p. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativa all'abitualità della condotta. Il Tribunale di Roma non ha inteso applicare la causa di non punibilità richiamando la natura plurima delle condotte dell'imputato: non è tuttavia possibile comprendere il percorso logico seguito nell'accertare l'abitualità della condotta, poiché il giudice si è limitato a riferire ragioni apodittiche, omettendo di illustrare come potrebbero costituire una molestia le telefonate dell'8 giugno 2017 o del 6 luglio 2017.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile, in quanto si basa su motivi manifestamente infondati, ovvero per la gran parte di natura fattuale e rivalutativa, e lamenta vizi argomentativi insussistenti.

1.1. Il ricorrente deduce il travisamento dei tabulati telefonici, in quanto le indicazioni di contatto tra le utenze di interesse ivi riportate non corrisponderebbero ad effettive conversazioni tra l'imputato e la persona offesa.

L'impugnata sentenza, premessa una dettagliata ricostruzione delle vicende pregresse tra l'imputato ed il defunto marito della parte civile, con gli strascichi residuati inter partes, compreso il coinvolgimento del dirigente amministrativo della R., ha ritenuto integrata la fattispecie di reato, in quanto ha attribuito rilievo alle numerose telefonate indirizzate dal P. alla R. come riscontrate dai tabulati telefonici ed asseverate dalla testimonianza della stessa parte civile. Il dato che parte di tali contatti non abbia prodotto effettive conversazioni non elide la molestia arrecata mediante l'uso del telefono, potendo attribuirsi alla scelta della R. di non rispondere, ma non per questo perdendo il carattere di petulanza riconosciuto nella vicenda, intesa come invasività dell'altrui sfera privata.

La petulanza è una delle caratteristiche costitutive della contravvenzione in esame, per tale intendendosi un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell'altrui sfera di libertà (Sez. 1, n. 6064 del 6/12/2017, dep. 2018, Girone, Rv. 272397), che deve ricorrere nella struttura stessa del reato: in tal senso la petulanza attiene al perimetro della condotta penalmente rilevante, ed è antecedente alla verifica dell'elemento soggettivo, che consiste nella volontà della condotta e nella direzione della volontà verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di libertà (Sez. 1, n. 11755 del 01/10/1991, Poli, Rv. 188987).

Il giudice di merito, nel suo discrezionale apprezzamento degli elementi fattuali della vicenda, ha sottolineato la protrazione della condotta antigiuridica per un apprezzabile lasso di tempo, leggendola anche nel concreto contesto, culminato addirittura nella ricerca della R. sul posto di lavoro; è stato altresì illustrato l'elemento psichico del reato, rimarcandosi che l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine legittimo, nonché il perseguimento effettivo di detto fine con modalità non legali, non escludono la consapevolezza della idoneità della condotta a molestare o disturbare il soggetto passivo.

In tali apprezzamenti di merito, supportati da motivazione congrua e logica, nonché aderente alle risultanze probatorie, non è ravvisabile alcuno dei denunciati vizi di legittimità. Di contro, il ricorso si impernia su annotazioni in fatto che postulano una revisione del giudizio valutativo espresso dal giudice e quindi esorbitano dall'ambito riservato a questa Corte di legittimità.

1.2. Il secondo motivo contesta la valutazione di esclusione della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. ed è manifestamente infondato.

Le occasioni di indesiderato approccio telefonico non si riducono ai 48 contatti del giorno 26/6/2017, essendovi anche le ripetute chiamate dei giorni 8/6 e 6/7/2017, come risulta dalla deposizione dell'operante P.L., sicché la notazione del giudice circa la natura plurima delle condotte risulta fondata in fatto e corretta in diritto, alla luce degli arresti di questa Corte che hanno affermato che per integrare il delitto di molestie commesso per petulanza è richiesto "un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, con la conseguenza che la pluralità di azioni di disturbo integra l'elemento materiale costitutivo del reato" (Sez. 1, n. 6064 del 06/12/2017, cit.; Sez. 1, n. 6908 del 24/11/2011, Zigrino, Rv. 252063; Sez. 1, n. 29933 del 08/07/2010, Arena, Rv. 247960).

Tali rilievi circa l'abitualità della condotta giustificano l'esclusione della possibilità di applicare la speciale causa di non punibilità prevista dall'art. 131 bis c.p., il cui testo esclude espressamente dal suo ambito di applicazione il comportamento abituale.

2. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della congrua somma indicata in dispositivo in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi profili di esenzione da responsabilità nella determinazione della causa di inammissibilità, a tenore della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2000.

L'imputato è altresì tenuto alla rifusione delle spese sopportate dalla parte civile costituita per la rappresentanza e difesa nel presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile R.G., spese che liquida in complessivi Euro 3.510, oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.