l reato di favoreggiamento della prostituzione sia perfezionato da ogni forma di interposizione agevolativa e da qualunque attività che, anche in assenza di un contatto diretto dell’agente con il cliente, sia idonea a procurare più facili condizioni per l’esercizio del meretricio e che venga posta in essere con la consapevolezza di facilitare l’altrui attività di prostituzione, senza che abbia rilevanza il movente o il fine di tale comportamento.
L’affitto e la messa a disposizione, a chi esercita il meretricio, di un appartamento, la sussistenza del reato è stata esclusa in ipotesi di locazione a prezzo di mercato, anche se il locatore sia consapevole che la conduttrice vi eserciterà la prostituzione, richiedendosi, per la configurabilità del reato, oltre al mero godimento dell’immobile, anche prestazioni accessorie che esulino dalla stipulazione del contratto ed in concreto agevolino il meretricio.
Ha rilevanza penale la condotta di accompagnamento della prostituta nel luogo ove avviene il contatto tra la donna ed il cliente, indipendentemente da dove si consumi la prestazione sessuale, ancorché motivato da un rapporto di amicizia e da spirito di cortesia, ovvero da un legame sentimentale, essendo irrilevante il movente dell’azione, configurandosi il reato anche nella condotta di colui che si limiti, con la sua auto, a ricondurre la donna presso l’abitazione al termine dell’attività di meretricio.
L'attività di indagine del difensore deve essere depositata ai sensi dell’art. 430, comma 2 cod. proc. pen., ai fini dell'utilizzo per le contestazioni, dato che l’utilizzazione delle dichiarazioni per le contestazioni può ritenersi legittima solo quando sia consentito prenderne tempestivamente visione ed estrarne copia, non essendo sufficiente rispettare il richiamato principio della parità delle parti mediante "la mera ostensione del verbale alle altre parti prima di utilizzare il verbale stesso".
Corte di Cassazione
sez. III Penale, sentenza 3 ottobre – 16 novembre 2018, n. 51830
Presidente Sarno – Relatore Ramacci
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 15 novembre 2017 ha riformato la decisione del Tribunale di Roma in data 7 aprile 2011, appellata ad C.A. , riducendo la pena allo stesso originariamente inflitta per i reati di cui agli articoli 3, n.8 e 4, n. 1 e 7 legge 75/58, per aver favorito e sfruttato la prostituzione di tre transessuali (in Roma, fino al 23 giugno 2009).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge con riferimento alla ritenuta consumazione dei delitti di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, rilevando come in atti non vi sarebbe alcuna prova di tali attività, risultando esclusivamente che egli avrebbe favorito le singole persone e non anche la loro prostituzione.
Tale situazione, osserva, risulterebbe dalle stesse dichiarazioni dei soggetti che si prostituivano, costituitisi parti civili, i quali avrebbero riferito di spendere i loro soldi per ottenere delle utilità in un contesto di corrispettività e per giusta causa, per servizi leciti, quali la locazione dell’appartamento, la fornitura di ormoni femminili, la benzina per l’auto e beni mobili.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge con riferimento all’utilizzazione degli atti relativi all’incidente probatorio, acquisiti tardivamente nel corso del processo di primo grado, su richiesta del pubblico ministero, dopo la verifica della costituzione delle parti sensi dell’art. 491 cod. proc. pen..
Rileva, a tale proposito, che la tardività della richiesta del pubblico ministero era stata eccepita al momento della formulazione della stessa e rigettata dal giudice di primo grado con ordinanza censurata in appello senza che la Corte territoriale accogliesse la doglianza.
4. Con un terzo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge in relazione alla ritenuta consumazione dei delitti oggetto di imputazione in mancanza di prove idonee a ritenere la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.
Osserva, sul punto, che vi sarebbe in atti la prova della non credibilità delle parti civili in considerazione delle numerose contraddizioni che ne caratterizzano le dichiarazioni rese, nonché la presenza di prove a discarico non valutate dai giudici del merito che contrasterebbero le dichiarazioni accusatorie in modo tale da non consentire il superamento del limite dell’al di là di ogni ragionevole dubbio.
Aggiunge che le parti civili non sarebbero credibili anche perché avrebbero sporto denuncia solo in quanto questa era la loro unica possibilità di acquisire la qualità di persone offese, necessaria per tentare di ottenere il permesso di soggiorno per motivi di solidarietà sociale ed evitare, quindi, di essere rimpatriate per la loro condizione di clandestinità in Italia.
Procede, inoltre, all’analisi delle dichiarazioni delle parti civili, evidenziandone le contraddizioni e pone in rilievo l’illegittimità della decisione della Corte territoriale riguardo all’ordinanza del primo giudice con la quale era stata negata alla difesa la possibilità di utilizzare, ai sensi dell’art. 430, comma 2 cod. proc. pen., il verbale delle sommarie informazioni testimoniali rese nel corso delle indagini difensive da un teste indotto dalla difesa, lamentando, altresì, la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai fini di una nuova escussione di tale testimone.
Aggiunge che non vi sarebbero comunque emergenze dibattimentali idonee a superare il limite del ragionevole dubbio stabilito dall’art. 533, comma 1 cod. proc. pen..
Insiste pertanto per l’accoglimento del ricorso.
In udienza il difensore ha formulato istanza di rinvio in attesa della decisione della Corte costituzionale in tema di favoreggiamento della prostituzione.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Rileva la Corte territoriale che, nel corso del giudizio, si è accertato che l’imputato, dopo aver conosciuto una delle parti civili, che si prostituiva sulla pubblica via, divenendone cliente abituale, aveva poi instaurato con la stessa una relazione sentimentale, pur continuando costei ad esercitare il meretricio, proponendole, poi, di cambiare abitazione, andando a vivere in un appartamento affittato dallo stesso imputato e successivamente occupato anche dalle altre parti civili.
A tale scopo l’imputato si era fatto consegnare una somma di 3.000,00 Euro, a suo dire dovuta quale caparra al proprietario, anche se poi il convivente aveva riscontrato, in un secondo momento, che l’effettivo ammontare della somma era invece di 1.800,00 Euro.
Nell’appartamento giungevano, poi, altre due persone, che convivevano con la prima, versando un canone di affitto di 930,00 Euro mensili che veniva consegnato all’imputato, il quale, poi, lo versava al proprietario dell’immobile.
Le parti civili, nel periodo durante il quale abitavano nella casa in affitto, venivano frequentemente accompagnate dall’imputato con la propria vettura sul luogo in cui si prostituivano, corrispondendogli una somma di 10,00 Euro che, a suo dire, servivano per il rimborso della benzina.
L’imputato, inoltre, forniva alle parti civili gli ormoni femminili, che abitualmente assumevano e che non potevano ottenere in altro modo in ragione della loro condizione di clandestinità, facendoseli prescrivere personalmente dal medico di famiglia e consegnava poi le ricette dietro corrispettivo di 10,00 Euro per ciascuna o di 20,00 Euro per ogni confezione quando provvedeva direttamente a reperire i medicinali.
La Corte di appello ha anche evidenziato come fosse certamente nota all’imputato la condizione di transessuali dediti alla prostituzione delle parti civili, dal momento che aveva conosciuto una di loro proprio nel luogo ove si prostituiva, instaurando poi una relazione sentimentale e fosse del tutto inverosimile, anche in considerazione delle condizioni economiche dell’imputato (portiere di notte in un albergo con uno stipendio mensile di circa 1.200,00 Euro), che lo stesso avesse loro offerto ospitalità a titolo gratuito in un appartamento per il quale versava un canone mensile di 936,00 Euro oltre le spese, pari a 220,00 Euro ogni tre mesi).
2. A fronte di tali dati fattuali, la Corte territoriale ha ritenuto corretta l’affermazione di penale responsabilità da parte del primo giudice in ordine al contestato delitto di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione di più persone, la cui sussistenza viene invece posta in discussione nel primo motivo di ricorso.
La censura, tuttavia, risulta manifestamente infondata.
3. Va ricordato che, in linea generale, si è affermato come il reato di favoreggiamento della prostituzione sia perfezionato da ogni forma di interposizione agevolativa e da qualunque attività che, anche in assenza di un contatto diretto dell’agente con il cliente, sia idonea a procurare più facili condizioni per l’esercizio del meretricio e che venga posta in essere con la consapevolezza di facilitare l’altrui attività di prostituzione, senza che abbia rilevanza il movente o il fine di tale comportamento (così Sez. 1, n. 39928 del 4/10/2007, P M. in proc. Elia e altri, Rv. 237871).
È dunque sufficiente ad integrare il reato in esame qualsiasi condotta consapevole che si risolva, indipendentemente dal movente dell’azione, in una concreta agevolazione dell’altrui meretricio, anche se si è pure specificato che, affinché possa configurarsi il favoreggiamento della prostituzione, occorre che la condotta materiale concreti oggettivamente un ausilio all’esercizio del meretricio, essendo altrimenti irrilevante l’aiuto che sia prestato solo alla prostituta, ossia che riguardi direttamente quest’ultima e non la sua attività di prostituzione, anche se detta attività ne venga indirettamente agevolata (Sez. 3, n. 36595 del 22/5/2012, T. e altro, Rv. 253390; Sez. 3, n. 8345 del 13/4/2000, Donati D, Rv. 217080).
Il favoreggiamento, inoltre, è ravvisabile in ogni attività non occasionale che favorisca in qualsiasi modo l’altrui prostituzione, trattandosi di reato solo eventualmente abituale, che può essere integrato anche da un solo fatto di agevolazione (Sez. 3, n. 23679 del 1/3/2016, Karaj, Rv. 267674; Sez. 3, n. 17856 del 3/3/2009, La Spada, Rv. 243753).
4. Ciò premesso, risultano corrette le conclusioni cui sono pervenuti i giudici del merito, atteso che la condotta posta in essere dall’imputato, così come accertata in fatto, risulta obiettivamente finalizzata, nel suo complesso, ad agevolare l’esercizio della prostituzione delle parti civili, attività, questa, che risultava fortemente condizionata dal loro stato di stranieri irregolari, che impediva loro, ad esempio, di stipulare il contratto di affitto dell’appartamento e di procurarsi gli ormoni che dovevano assumere con regolarità.
Va peraltro rilevato come alcuni dei comportamenti accertati siano, di per sé, sufficienti a configurare il delitto di favoreggiamento della prostituzione secondo la giurisprudenza di questa Corte.
5. In particolare, per ciò che riguarda l’affitto e la messa a disposizione, a chi esercita il meretricio, di un appartamento, la sussistenza del reato è stata esclusa in ipotesi di locazione a prezzo di mercato, anche se il locatore sia consapevole che la conduttrice vi eserciterà la prostituzione, richiedendosi, per la configurabilità del reato, oltre al mero godimento dell’immobile, anche prestazioni accessorie che esulino dalla stipulazione del contratto ed in concreto agevolino il meretricio (Sez. 3, n. 33160 del 19/2/2013, Bertini, Rv. 255893. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 28754 del 20/3/2013, Paltracca, Rv. 255593; Sez. 3, n. 7338 del 4/2/2014, P.G. in proc. Binazzi, Rv. 259747; Sez. 3, n. 4571 del 19/10/2017 (dep. 2018), G, Rv. 272259; Sez. 3, n. 23851 del 28/2/2018, Rv. 273043).
Tale orientamento è stato giustificato osservando che, se lo scopo specifico della locazione non è quello di esercitare nell’immobile locato una casa di prostituzione, ipotesi sanzionata dall’art. 3 n. 2 legge 75/1958, la condotta del locatore non si concreta in un aiuto alla prostituzione esercitata dalla locataria, risolvendosi nella mera conclusione di un contratto attraverso la quale la donna realizza il proprio diritto all’abitazione.
Si è rilevato, inoltre, che il negozio giuridico riguarda la persona e le sue esigenze abitative e non anche la attività di prostituta esercitata e, sebbene ciò agevoli indirettamente anche la prostituzione, tale rapporto indiretto non può essere incluso nel nesso causale penalmente rilevante tra condotta dell’agente e l’evento di favoreggiamento della prostituzione, perché l’evento del reato non è la prostituzione stessa, ma l’aiuto alla prostituzione, che implica una condotta, da parte dell’agente, di effettivo ausilio per il meretricio, che non sussiste nel caso in cui la prostituzione sarebbe stata comunque esercitata in condizioni sostanzialmente equivalenti (lo afferma Sez. 3, n. 33160 del 19/2/2013, Bertini, Rv. 255893, cit. e lo ricorda anche Sez. 3, n. 7338 del 4/2/2014, P.G. in proc. Binazzi, Rv. 259747, cit. ove, nel giungere a conclusioni analoghe con riferimento ad una ipotesi di sublocazione, si richiamano anche riferimenti a precedenti sostanzialmente conformi).
Nel caso di specie, come è dato rilevare, non si versa affatto in una delle ipotesi per le quali si è esclusa la sussistenza del reato, in quanto il quid pluris necessario per la configurabilità della fattispecie delittuosa è rappresentato dal reperimento dell’appartamento, nel quale, peraltro, è stato accertato nel giudizio di merito, veniva anche esercitata la prostituzione da almeno due degli occupanti, e nella stipulazione del contratto, preclusa agli occupanti per la loro condizione personale, da parte dell’imputato.
6. Per ciò che concerne, poi, la rilevanza penale dell’accompagnamento in auto della prostituta sul luogo del meretricio, si è ricordato (Sez. 3, n. 37299 del 16/7/2013, P M. in proc. Barba, Rv. 256696) come numerose pronunce abbiano ritenuto tale attività funzionalmente orientata a migliorare le condizioni organizzative per l’esercizio in concreto della prostituzione.
indicando nel dettaglio tali precedenti, la citata sentenza ricorda come si sia ritenuta la rilevanza penale di una condotta concretatasi nell’accompagnamento della prostituta nel luogo ove avviene il contatto tra la donna ed il cliente, indipendentemente da dove si consumi la prestazione sessuale, ancorché motivato da un rapporto di amicizia e da spirito di cortesia, ovvero da un legame sentimentale, essendo irrilevante il movente dell’azione, configurandosi il reato anche nella condotta di colui che si limiti, con la sua auto, a ricondurre la donna presso l’abitazione al termine dell’attività di meretricio.
Viene altresì posto in evidenza come tutte le sentenze richiamate riguardino sempre ipotesi di accompagnamento non occasionale delle prostitute, rilevando, infine, che l’accompagnamento della prostituta sul luogo di attesa dei clienti assume rilevanza penale in quanto diretta a migliorare le condizioni organizzative per l’esercizio in concreto della prostituzione, rendendo più facile e celere lo spostamento e, quindi, l’attività svolta.
Ribadendo pertanto i principi già affermati, si precisava che la condotta di accompagnamento costituisce reato quando risulti obiettivamente funzionale all’agevolazione della prostituzione sulla base di elementi sintomatici quali, ad esempio, la non occasionalità o l’espletamento di attività ulteriori rispetto al mero accompagnamento (sorveglianza, messa disposizione del veicolo per l’incontro con i clienti, etc.).
Nel caso di specie, come accertato nel giudizio di merito, il trasporto delle persone che si prostituivano non era occasionale ed avveniva dietro corrispettivo.
7. Ribadito che, al di là delle singole condotte accertate, è l’insieme delle stesse a delineare la sussistenza dei requisiti per la configurabilità del delitto di favoreggiamento riconosciuta dai giudici del merito, va osservato che gli stessi hanno individuato, nella corresponsione di denaro per l’accompagnamento e la ricezione di altre somme dalle parti civili gli elementi costitutivi del delitto di sfruttamento dell’altrui prostituzione pure oggetto di imputazione nei confronti dell’odierno ricorrente.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, tale delitto, consistendo in qualsiasi consapevole e volontaria partecipazione, anche occasionale, ai guadagni che una persona si procura con il commercio del proprio corpo, può concorrere con il favoreggiamento, in ragione della diversità dell’elemento materiale, di quello psicologico e del bene giuridico protetto (Sez. 3, n. 15069 del 9/12/2015 (dep. 2016), Xiao, Rv. 266630. Conf. Sez. 3, n. 40539 del 27/9/2007, Pietrobelli e altri, Rv. 238005; Sez. 3, n. 12919 del 13/10/1998, Contessa ed altro, Rv. 212362 ed altri prec. conf.).
Nella sentenza impugnata viene fatto riferimento, oltre alla ripetuta ricezione di corrispettivi per il trasporto in auto, anche della ricezione, in più occasioni, di somme di denaro dalle parti lese (pag. 4), cui si aggiungevano quelle richieste ed ottenute per le ricette e le confezioni di medicinali, dandosi quindi compiutamente atto del fatto che l’imputato aveva tratto scientemente profitto dall’altrui prostituzione.
8. Ne consegue che configura i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, i quali possono tra loro concorrere, la condotta di colui che, ricevendo anche corrispettivi in denaro, facilita l’esercizio dell’altrui meretricio mediante una serie di comportamenti abituali ed oggettivamente agevolativi di tale attività.
9. Anche il secondo motivo di ricorso risulta manifestamente infondato, poiché la tardiva acquisizione del verbale di incidente probatorio era senz’altro possibile, come correttamente ritenuto dai giudici del gravame.
Invero, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento degli atti tassativamente indicati nell’art. 431, comma 1, cod. proc. pen., tra i quali figurano, alla lettera e), i verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio, non è soggetta a preclusioni o decadenze e può avvenire anche nel giudizio di appello, se il giudice dell’udienza preliminare non la abbia disposta, ovvero, pur avendola disposta, ciò non sia materialmente avvenuto, in quanto non rientra nel potere dispositivo delle parti restringere l’ambito degli atti che per legge devono essere raccolti nell’incartamento processuale (così Sez. 3, n. 12795 del 26/1/2016, Marconi e altro, Rv. 266489, che richiama Sez. 2, n. 25688 del 23/5/2014, Narducci, Rv. 259627).
Come ricordato nelle richiamate pronunce, il regime delle preclusioni e delle decadenze concerne soltanto le attività rientranti nel potere dispositivo delle parti (nella limitata misura in cui esso è riconosciuto dal codice di rito), non anche quelle che rispondono alle esigenze pubblicistiche proprie del processo penale, come la formazione e il contenuto del fascicolo per il dibattimento, con la conseguenza che, mentre le parti possono, ai sensi degli artt. 431, comma 2, e 493, comma 3, cod. proc. pen., accordarsi affinché vi si inseriscano atti ulteriori rispetto a quelli enumerati dal comma 1, non è invece prevista l’ipotesi inversa, ossia che sia loro consentito ridurne il novero o che una di esse possa rinunciarvi in tutto o in parte, osservando anche che la preclusione fissata nell’art. 491, comma 2, cod. proc. pen., laddove è previsto che le questioni riguardanti la formazione del fascicolo per il dibattimento sono precluse se non proposte subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti, riguarda l’estromissione dal fascicolo, ex art. 431 cod. proc. Pen., di atti che siano stati erroneamente inseriti nel fascicolo per il dibattimento e non di atti che dovevano essere raccolti nel fascicolo e che invece non siano stati in esso inseriti.
Tali principi sono pienamente condivisi dal Collegio e vanno qui ribaditi, rilevando come gli stessi abbiano trovato adeguata applicazione nella sentenza impugnata.
10. Manifestamente infondato risulta, infine, anche il terzo motivo di ricorso.
Il ricorrente, nel sostenere la tesi della inattendibilità delle parti civili, si addentra nell’analisi dei contenuti delle dichiarazioni delle stesse, richiamando atti del procedimento ai quali questa Corte non ha accesso e facendo riferimento a dati fattuali analizzati dai giudici del merito rispetto ai quali propone una inammissibile lettura alternativa.
Invero, i giudici del gravame, dando correttamente atto del fatto che la costituzione di parte civile delle persone lese imponeva un maggior rigore nella valutazione di attendibilità delle dichiarazioni da queste rese, con motivazione caratterizzata da tenuta logica e coerenza strutturale ha posto in luce non soltanto quanto riferito in sede di incidente probatorio, ma anche i plurimi risconti rinvenuti nelle dichiarazioni dell’ufficiale di polizia giudiziaria che aveva svolto indagini sui fatti per cui è processo, del medico di famiglia dell’imputato, da un teste indotto dalla difesa (N.J.I.B.D.S. ) e dall’imputato stesso.
La valutazione della credibilità della persona offesa dal reato, peraltro, rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni, cosa che, nella fattispecie, non è affatto avvenuta.
La Corte territoriale ha correttamente risolto anche la questione concernente il rigetto opposto dal primo giudice alla utilizzazione per le contestazioni ai sensi dell’art. 500 cod. proc. pen. del verbale delle dichiarazioni raccolte dal teste N.J.I.B.D.S. a seguito di attività investigativa difensiva e la mancata acquisizione dello stesso al fascicolo del dibattimento.
Invero, come fatto rilevare nella sentenza impugnata, trattasi di attività integrativa di indagine del difensore svolta dopo l’emissione del decreto che disponeva il giudizio ed il relativo verbale avrebbe dovuto essere depositata ai sensi dell’art. 430, comma 2 cod. proc. pen., cosa che, come rilevato dai giudici dell’appello ed indicato nell’atto di impugnazione, non era avvenuta.
11. Vero è, come si sostiene in ricorso, che il mancato rispetto di quanto stabilito dall’art. 430, comma 2 cod. proc. pen. non è espressamente sanzionato con l’inutilizzabilità dal codice di rito, ma è altrettanto vero che, nel rispetto del principio di parità delle parti, l’utilizzazione delle dichiarazioni per le contestazioni può ritenersi legittima solo quando sia consentito prenderne tempestivamente visione ed estrarne copia (cfr., Sez. 2, n. 6726 del 28/3/1995, Lorusso, Rv. 201772. Conf. Sez. 1, n. 12306 del 13/11/1995, Kanoute, Rv. 203125), non essendo possibile, come pure affermato in ricorso, rispettare il richiamato principio della parità delle parti mediante "la mera ostensione del verbale alle altre parti prima di utilizzare il verbale stesso, come infatti il difensore aveva fatto" e ciò per evidenti ragioni, atteso che una simile lettura della disposizione richiamata la renderebbe priva di concreti effetti e precluderebbe o limiterebbe del tutto, per i tempi e modi in cui le altre parti sono messe a conoscenza del contenuto della documentazione, ogni possibilità di valido contraddittorio.
Del resto, con riferimento all’attività integrativa di indagine effettuata dal pubblico ministero, cui si riferiscono le pronunce sul tema, si è osservato che la finalità della disposizione in esame è quella di consentire alle parti di poter "legittimamente aggiornare il rispettivo materiale probatorio in funzione delle evenienze via via emergenti dall’evoluzione del dibattimento che presenta aspetti di dinamicità ben maggiori rispetto ad processo di tipo inquisitorio" e, dando conto dei possibili, diversi sviluppi della vicenda processuale, si è affermato, che, pur in assenza specifica sanzione processuale, "è demandato esclusivamente al giudice del merito, accertata la violazione della norma, dare le disposizioni necessarie perché la difesa sia reintegrata nelle sue prerogative adottando gli opportuni provvedimenti che, se adeguatamente e congruamente motivati, non sono sindacabili in sede di legittimità, investendo valutazioni di fatto correlate al numero e alla complessità degli atti suscettibili di utilizzabilità nel dibattimento e al conseguente tempo necessario per l’imputato di preparare un’idonea difesa" (Sez. 2, n. 31512 del 24/4/2012, Barbaro e altri, Rv. 254029).
La condivisibile soluzione interpretativa adottata dalla citata giurisprudenza è certamente riferibile anche all’attività integrativa di indagine del difensore, non rinvenendosi alcuna specifica ragione per escluderne una simmetrica applicazione, con conseguente alterazione della parità processuale, con la conseguenza che dei tutto correttamente il giudice del merito, rilevato il mancato deposito del verbale, ha adottato la soluzione oggetto di infondata censura in ricorso.
12. Va peraltro osservato come, nella sentenza impugnata, venga comunque dato atto della avvenuta escussione del teste nel corso del giudizio di primo grado e dell’utilizzazione delle dichiarazioni rese ai fini della decisione, ritenendo conseguentemente superflua la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Si tratta, anche in questo caso, di decisione immune da censure, dovendosi ricordare come la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che l’istituto della rinnovazione dibattimentale di cui all’articolo 603 cod. proc. pen. costituisce un’eccezione alla presunzione di completezza dell’istruzione dibattimentale di primo grado dipendente dal principio di oralità del giudizio di appello, cosicché si ritiene che ad esso possa farsi ricorso, su richiesta di parte o d’ufficio, solamente quando il giudice lo ritenga indispensabile ai fini del decidere non potendolo fare allo stato degli atti (v. Sez. 2, n. 41808 del 27/9/2013, Monguardo, Rv. 256968 ed altre prec. conf. V. anche Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 (dep. 2016), Ricci, Rv. 266820), sussistendo tale evenienza unicamente quando i dati probatori già acquisiti siano incerti, nonché quando l’incombente richiesto sia decisivo, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze ovvero sia di per sé oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sez. 6, n. 20095 del 26/2/2013, Ferrara, Rv. 256228).
13. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 2.000,00.
La rilevata inammissibilità preclude ogni valutazione in ordine alla questione di legittimità costituzionale dedotta dal difensore e la conseguente richiesta di rinvio della discussione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’articolo 52 Div. 196/03 in quanto imposto dalla legge.