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Conoscenza effettiva del processo, non del procedimento (Cass. 21997/20)

22 luglio 2020, Cassazione penale

Illegittima una condanna in absentia, qualora la conoscenza sia desunta da una notifica effettuata dall’indagato nel corso delle indagini preliminari e non sia seguita dalla ricezione, da parte di costui, di una vocatio in iudicium contenente l’indicazione della definitiva accusa a suo carico e del giorno e luogo in cui sarà celebrato il processo.

L’art. 629-bis c.p.p., comma 1, infatti, al pari del precedente art. 420-bis, comma 4, dà rilevanza alla mancata conoscenza del "processo", con ciò presupponendo la formalizzazione di un’accusa ed il deferimento a giudizio dell’interessato.

Nel rispetto delle fonti sovranazionali, così come interpretate dalle competenti Corti, ma anche come recepite nel nostro ordinamento, la mancata conoscenza del processo da parte dell’imputato non osta alla celebrazione dello stesso soltanto quando egli si sia ad essa deliberatamente sottratto, non anche, invece, qualora esso sia ascrivibile ad una condotta semplicemente negligente di costui.

Non è colpevole la ignoranza del processo per il sol fatto che l’imputato abbia dimenticato di comunicare, magari a distanza di anni dalla relativa dichiarazione o elezione, un sopravvenuto mutamento di domicilio.

La presunzione relativa di conoscenza, che le stesse Sezioni Unite fanno derivare dalle situazioni tipizzate dall’art. 420-bis, c.p.p., con specifico riguardo all’ipotesi della dichiarazione-elezione di domicilio, opera soltanto nel caso in cui la notificazione della vocatio in iudicium sia avvenuta presso il domicilio indicato, ancorché non a mani del destinatario bensì di altro soggetto legittimato a ricevere l’atto (familiare convivente, portiere dello stabile, collaboratore domestico, dipendente e così via): soltanto in questo caso, infatti, in ragione della stretta relazione intercorrente tra l’imputato e colui che, per esso, ha ricevuto l’atto, è ragionevole presumere che il primo ne sia venuto a conoscenza, sì da ritenere giustificato l’onere, a suo carico, di dimostrare il contrario. Non altrettanto dicasi, invece, qualora, a mente dell’art. 161 c.p.p., comma 4, per la sopravvenuta impossibilità di notificazione di tale atto nel domicilio eletto o dichiarato, la stessa venga effettuata presso il difensore, di fiducia o d’ufficio che sia: in tal caso, infatti, la notificazione risulta eseguita pur sempre in un luogo diverso da quel domicilio.

La notificazione della vocatio in iudicium, considerando la sua funzione essenziale ai fini dell’esercizio del potere giurisdizionale e punitivo dello Stato nei confronti del cittadino, con il meccanismo del 161/4 c.p.p., quantunque formalmente regolare, non può dirsi satisfattiva dell’ineludibile esigenza di certezza della compiuta conoscenza del processo da parte dell’accusato.

 

Corte di Cassazione

sez. VI Penale, sentenza 18 giugno – 22 luglio 2020, n. 21997
Presidente Costanzo – Relatore Rosati

Ritenuto in fatto

1. Con atto del proprio difensore, C.S. ricorre per cassazione avverso l’ordinanza (e non il "decreto", come si legge nel provvedimento, procedendosi secondo la disciplina dell’art. 127 c.p.p.: vds. art. 629-bis, comma 3) emessa dalla Corte di appello di Roma il 30 maggio 2019, che ha respinto la sua richiesta di rescissione del giudicato, in relazione alla sentenza del Tribunale di Roma del 16 novembre 2017 nel processo contraddistinto dal n. 29953/13 rgnr, con cui egli è stato condannato a quattro anni ed otto mesi di reclusione.

La Corte di appello ha rilevato che, nel corso di quel procedimento, C. aveva eletto domicilio presso la propria abitazione, in occasione della prima notifica, ricevuta a mani proprie, di un atto del procedimento, nel quale erano indicati gli estremi di quest’ultimo e la sua qualità di indagato. Talché - ha argomentato la Corte - egli ha avuto piena consapevolezza dell’esistenza del procedimento a suo carico sin dalla fase iniziale delle indagini preliminari e, in adempimento del minimo onere di diligenza su di lui gravante, avrebbe potuto e dovuto conoscerne gli sviluppi, essendo perciò irrilevante che le notifiche dei successivi atti d’impulso processuale si siano perfezionate soltanto nelle forme della c.d. "compiuta giacenza", ovvero ai sensi dell’art. 157 c.p.p., comma 8, u.p..

2. Deduce il ricorrente che l’ordinanza impugnata debba essere annullata, poiché affetta da violazione di legge processuale e vizio della motivazione, in quanto si sarebbe limitata esclusivamente a ribadire la regolarità formale delle notifiche a lui effettuate, tuttavia non controversa, mentre avrebbe omesso di dar conto della sua conoscenza effettiva del processo.
Egli rileva, infatti, che, in occasione dell’unica notifica da lui ricevuta a mani, l’atto conteneva soltanto l’indicazione generica della pendenza di un procedimento a suo carico, senza alcun riferimento ai fatti oggetto di esso, così da non avergli consentito di comprenderne l’oggetto. Inoltre, rappresenta di essere stato assistito esclusivamente da un difensore d’ufficio, che si è completamente disinteressato al processo e col quale non ha avuto alcun contatto.
3. Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore Generale, chiedendo di dichiarare il ricorso inammissibile, per manifesta infondatezza dei motivi.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato.

2. Chiamate a pronunciarsi sulla nozione di "effettiva conoscenza del procedimento", alla quale l’art. 175 c.p.p., comma 2, nella previgente formulazione (introdotta dal D.L. 21 febbraio 2005, n. 17, conv. dalla L. 22 aprile 2005, n. 60, e poi modificata con la più ampia novella n. 67 del 2014), ricollegava effetti preclusivi alla restituzione in termini per l’impugnazione, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 28912 del 28/02/2019, ric. Innaro, Rv. 275716, hanno colto l’occasione per tracciare, più in generale, i confini di ammissibilità del processo in absentia, in termini coerenti con le indicazioni provenienti anche dalla normativa e dalle pronunce delle Corti sovranazionali, ivi specificamente richiamate.
Le Sezioni Unite hanno dunque affermato, anzitutto, la necessità che l’accusato abbia conoscenza del processo, e non soltanto dell’esistenza di un’indagine penale a suo carico, e perciò che egli sia destinatario di un provvedimento formale di "vocatio in iudicium", il quale contenga l’indicazione dell’accusa formulatagli nonché della data e del luogo di svolgimento del giudizio.

Inoltre, hanno statuito che tale conoscenza debba essere effettiva e non soltanto presunta nè, men che mai, meramente legale.

In tal senso, indiscutibilmente suggestivo, per l’indispensabile esigenza di coerenza interna dell’ordinamento, è il richiamo - specificamente compiuto dalle Sezioni Unite, che hanno inteso espressamente ravvisarvi un principio generale dell’ordinamento - al disposto della L. n. 69 del 2005, art. 19, comma 1, lett. a), in tema di mandato d’arresto Europeo, a tenore del quale l’esecuzione di quest’ultimo da parte dell’autorità giudiziaria italiana è subordinata all’assicurazione, proveniente dalla corrispondente autorità estera, della possibilità per l’interessato di ottenere la rinnovazione del processo in sua presenza, qualora la sanzione da eseguire gli sia stata irrogata "mediante decisione pronunciata in absentia... se l’interessato non è stato citato personalmente nè altrimenti informato della data e del luogo dell’udienza".

Al di fuori di tali ipotesi - ha perciò stabilito la "sentenza Innaro" - il processo può ritenersi legittimamente celebrato in assenza dell’imputato soltanto nel caso in cui egli, consapevolmente informato in quei dettagliati termini, abbia rinunciato a comparire; oppure qualora si sia deliberatamente sottratto alla conoscenza di esso.

E, a tal ultimo proposito, le Sezioni Unite hanno specificato che, in caso di "inottemperanza all’onere di informazione che deriva dalle situazioni tipizzate dall’art. 420-bis, c.p.p.", deve ritenersi operante una presunzione relativa di volontaria sottrazione alla conoscenza del processo: in tal senso, invero, non lascia dubbi il disposto, sostanzialmente simmetrico, dell’art. 420-bis c.p.p., comma 4 e art. 629-bis c.p.p., comma 1, che onerano l’interessato (nell’un caso, imputato; nell’altro, condannato) della dimostrazione di una sua "incolpevole mancata conoscenza del processo".

3. Così definita la regula iuris di riferimento, alla quale il Collegio ritiene di conformarsi, pur nella consapevolezza di pronunce divergenti sullo specifico tema oggetto di giudizio (ad es., Sez. 2, n. 39158 del 10/09/2019, Hafid, Rv. 277100; Sez. 2, n. 29660 del 27/03/2019, Pinton, Rv. 276972; Sez. 4, n. 49916 del 16/10/2018, F., Rv. 273999), va osservato che, ai fini della presente decisione, rileva proprio una di quelle situazioni tipiche previste dal citato art. 420-bis: ovvero l’elezione di domicilio.

Occorre, cioè, stabilire se quest’ultima renda legittima una condanna in absentia, qualora essa sia effettuata dall’indagato nel corso delle indagini preliminari e non sia seguita dalla ricezione, da parte di costui, di una vocatio in iudicium contenente l’indicazione della definitiva accusa a suo carico e del giorno e luogo in cui sarà celebrato il processo.

Ritiene il Collegio che la questione, stando ai delineati principi, non possa che trovare una soluzione negativa.

L’art. 629-bis c.p.p., comma 1, infatti, al pari del precedente art. 420-bis, comma 4, dà rilevanza alla mancata conoscenza del "processo", con ciò presupponendo la formalizzazione di un’accusa ed il deferimento a giudizio dell’interessato.
Nel rispetto delle fonti sovranazionali, così come interpretate dalle competenti Corti (Corte EDU, sentenza 18/05/2004, Somogyi c. Italia; sentenza 10/11/2004, Sejdovic c. Italia), ma anche come recepite nel nostro ordinamento (L. n. 69 del 2005, art. 19), la mancata conoscenza del processo da parte dell’imputato non osta alla celebrazione dello stesso soltanto quando egli si sia ad essa deliberatamente sottratto. Solo in questo caso, pertanto, quel difetto di conoscenza potrà reputarsi "colpevole", come il predetto art. 629-bis richiede per escludere la possibilità di rescissione del giudicato (o l’art. 420-bis per superare le decadenze probatorie verificatesi nel processo); non anche, invece, qualora esso sia ascrivibile ad una condotta semplicemente negligente di costui.

Ne consegue, per l’ipotesi - che qui interessa - della dichiarazione od elezione di domicilio, che la stessa potrà essere intesa quale espediente per sottrarsi al processo, ad esempio, nel caso in cui l’interessato abbia scientemente indicato un recapito inesistente, inveritiero o inadeguato, per l’impossibilità di reperirvi lui stesso od altre persone legittimate alla ricezione; non potrà dirsi tale, invece, per il sol fatto che l’imputato abbia soltanto dimenticato di comunicare, magari a distanza di anni dalla relativa dichiarazione o elezione, un sopravvenuto mutamento di domicilio.

Si tratta, all’evidenza, di questione da risolversi sul piano della prova, in ragione delle peculiarità del caso concreto, dalle quali poter desumere la dimostrazione logica dell’effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato.

Va precisato, in proposito, che la presunzione relativa di conoscenza, che le stesse Sezioni Unite fanno derivare dalle situazioni tipizzate dall’art. 420-bis, c.p.p., con specifico riguardo all’ipotesi della dichiarazione-elezione di domicilio, opera soltanto nel caso in cui la notificazione della vocatio in iudicium sia avvenuta presso il domicilio indicato, ancorché non a mani del destinatario bensì di altro soggetto legittimato a ricevere l’atto (familiare convivente, portiere dello stabile, collaboratore domestico, dipendente e così via): soltanto in questo caso, infatti, in ragione della stretta relazione intercorrente tra l’imputato e colui che, per esso, ha ricevuto l’atto, è ragionevole presumere che il primo ne sia venuto a conoscenza, sì da ritenere giustificato l’onere, a suo carico, di dimostrare il contrario.

Non altrettanto dicasi, invece, qualora, a mente dell’art. 161 c.p.p., comma 4, per la sopravvenuta impossibilità di notificazione di tale atto nel domicilio eletto o dichiarato, la stessa venga effettuata presso il difensore, di fiducia o d’ufficio che sia: in tal caso, infatti, la notificazione risulta eseguita pur sempre in un luogo diverso da quel domicilio.

Ciò non vuol dire, ovviamente, che la disposizione dell’art. 161, comma 4, cit., debba intendersi tamquam non esset: essa, infatti, rimane pur sempre la regola generale, nelle ipotesi ivi stabilite, per la notificazione di tutti gli atti del procedimento e del processo diversi dalla vocatio in iudicium.

Per quest’ultima, invece, considerando la sua funzione essenziale ai fini dell’esercizio del potere giurisdizionale e punitivo dello Stato nei confronti del cittadino, una notificazione così eseguita, quantunque formalmente regolare, non può dirsi satisfattiva dell’ineludibile esigenza di certezza della compiuta conoscenza del processo da parte dell’accusato.

4. In applicazione dei principi sin qui esposti, è agevole inferire l’insufficienza delle comunicazioni ricevute dal ricorrente ai fini della sua compiuta conoscenza del processo e l’assenza di una sua deliberata intenzione di sottrarsi ad essa.
Egli, infatti, ha eletto domicilio in una fase iniziale delle indagini preliminari, venendo messo a conoscenza solo dell’instaurazione a suo carico di un procedimento penale, indicato esclusivamente con il numero di iscrizione e senza alcun riferimento ai fatti oggetto d’addebito.
Successivamente, non ha ricevuto più alcuna comunicazione relativa al procedimento, ed in particolare all’avvio del processo ed alla relativa decisione, poiché tutti gli avvisi gli sono stati inviati al domicilio eletto, tuttavia nel frattempo divenuto inidoneo.
Di conseguenza, essendo peraltro assistito da un difensore d’ufficio, completamente disinteressatosi al processo, egli, del tutto verosimilmente, non ha avuto conoscenza dello stesso, finché non è stata posta in esecuzione la sentenza di condanna.
Tale sua mancanza di conoscenza, pertanto, non può dirsi "colpevole". Nè può ritenersi operante la presunzione relativa di conoscenza, poiché la notificazione dell’atto di citazione in giudizio, in concreto, non è mai avvenuta presso il domicilio eletto, ma si è perfezionata soltanto attraverso la fictio della c.d. "compiuta giacenza" della raccomandata contenente l’avviso di deposito presso la casa comunale, a norma dell’art. 157 c.p.p., comma 8.

5. Sulla scorta di tali considerazioni, il ricorso dev’essere accolto e l’ordinanza impugnata dev’essere annullata, poiché emessa in violazione di legge.
L’annullamento dev’essere esteso anche alla sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Roma nei confronti del ricorrente, nel processo illegittimamente svolto in sua assenza, con conseguente restituzione degli atti al medesimo Tribunale per la prosecuzione del giudizio.

Da tanto deriva altresì che, essendo quegli detenuto in esecuzione di quest’ultima sentenza, l’applicabilità della disciplina della sospensione dell’esecuzione impone anche in caso di rescissione del giudicato di disporre l’immediata scarcerazione dell’interessato, se non detenuto per altra causa (Sez. F, n. 35981 del 25/08/2015, Meoli, Rv. 264548).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e la sentenza n. 13819/2017 del 16/11/2017 del Tribunale di Roma.
Dispone l’immediata scarcerazione di C.S. se non ristretto per altra causa.
In data 24/06/2020 il Presidente del Collegio dispone trasmettersi gli atti del processo al Tribunale di Roma per la prosecuzione del giudizio.
Manda alla Cancelleria per i relativi adempimenti.