20 piante di marijuana sono reato: solo ove si tratti di attività di coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica (intesa in senso antitetico a quella imprenditoriale) può escludersi l'applicazione della norma penale in quanto lo scarso numero di piante, le tecniche rudimentali utilizzate e l'assenza di ulteriori indici della sostanza prodotta nel mercato degli stupefacenti consenta di ritenere la coltivazione destinata in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.
Cassazione penale
sez. III, ud. 26 aprile 2021 (dep. 13 settembre 2021), n. 33797
Presidente Sarno – Relatore Galterio
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 13.10.2020 la Corte di Appello di Napoli ha confermato la penale responsabilità di G.B. per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4, per coltivazione sul terrazzo della propria abitazione di 20 piante di marijuana, pur riducendo la pena inflittale dal giudice di primo grado all'esito di giudizio abbreviato ad un anno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa.
2. Avverso il suddetto provvedimento l'imputata ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e al vizio motivazionale, l'affermazione di responsabilità basata esclusivamente sull'esiguo numero di piantine rinvenute nell'abitazione della prevenuta, senza l'integrazione di alcun elemento fattuale che consentisse di desumerne la destinazione allo spaccio. Lamenta il macroscopico errore in cui era incorsa la Corte di Appello considerata la possibilità concessa dall'ordinamento di eseguire coltivazioni domestiche per uso personale, purché in quantità esigua e con modalità rudimentali come affermato dalle Sezioni Unite con sentenza del 16.4.2020 n. 12348. Deduce che avendo la stessa imputata affermato di fare uso personale di marijuana in sede di interrogatorio, circostanza confermata dal marito sentito a s.i.t., la suddetta attività doveva ritenersi assoggettabile al più a sanzione amministrativa D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 75, proprio in ragione del ridotto numero delle piante coltivate, con conseguente travisamento del fatto.
2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e al vizio motivazionale, che la mancanza di allarme sociale, l'occasionalità della condotta priva di elementi che consentissero di riferirla ad una collaudata attività di spaccio imponevano la riqualificazione del fatto nell'ipotesi di lieve entità, la cui valutazione implica un apprezzamento globale delle componenti oggettive e soggettive che non può essere ancorata, come avevano invece fatto i giudici di appello, al solo dato quantitativo.
2.3. Con il terzo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 131 bis c.p. e al vizio motivazionale, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto per la cui applicabilità depongono tanto la mancanza di abitualità della condotta essendo l'imputata incensurata ed avendo mostrato un atteggiamento collaborativo con gli inquirenti, quanto l'esiguità del danno o del pericolo desumibile dal numero esiguo di piante coltivate e dalla destinazione al consumo personale.
Considerato in diritto
1. Muovendo dalla previsione normativa occorre evidenziare che la coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti risulta prevista e punita esclusivamente dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, senza che, a differenza di altre condotte che pure sono ivi contemplate, quali la detenzione, l'importazione, l'esportazione, l'acquisto e l'acquisizione a qualsiasi titolo, figuri inserita tra quelle derubricabili dal successivo art. 75, in presenza di uso personale, in illeciti amministrativi e prima ancora fra quelle di cui all'art. 73, comma 1-bis (poi dichiarato incostituzionale con sentenza n. 32/2014), per la cui punibilità era richiesta la destinazione ad uso non esclusivamente personale, da ciò derivandone la rilevanza penale indipendentemente dalla destinazione. Omissione questa che ha indotto l'interprete, muovendo dalla caratteristica che distingue la piantagione da altre forme di detenzione, ovverosia dalla sua suscettibilità ad immettere in circolazione quantitativi non preventivamente determinabili, in quanto legati al ciclo evolutivo della pianta, di sostanze psicotrope, a configurare la suddetta ipotesi delittuosa come reato di pericolo presunto in cui il bene giuridico protetto è costituito dalla salute pubblica, la cui particolare pregnanza quale valore costituzionale consente che la sua protezione sia anticipata ad un momento precedente a quello dell'effettiva lesione. È perciò sufficiente a tal fine che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza.
Ancorché, quindi, l'eccepita riconducibilità della condotta al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, sia priva di fondamento normativo non consentendo il legislatore di distinguere per l'attività di coltivazione, di per sé destinata ad accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente, tra uso personale e non, ciò non toglie che non si possa prescindere, in ossequio al principio di offensività nella sua accezione concreta, dalla verifica relativa all'idoneità della condotta astrattamente sussumibile nella fattispecie incriminatrice a porre effettivamente a repentaglio il bene giuridico tutelato, con conseguente inconfigurabilità del reato in contestazione per mancanza di tipicità della condotta di coltivazione allorquando, in ragione delle tecniche rudimentali utilizzate e dello scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto, possa desumersene la destinazione all'uso personale del prodotto in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale (Sez. U., Sentenza n. 12348 del 19/12/2019 - dep. 16/04/2020, Caruso, Rv. 278624).
Il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, inopinatamente invocato dalla difesa, sottolinea come la valutazione rimessa al giudice di merito a fronte dell'eccepito uso personale involga in prima battuta la verifica delle dimensioni della coltivazione e, solo ove si tratti di attività di coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica (intesa in senso antitetico a quella imprenditoriale), in tanto possa escludersi l'applicazione della norma penale in quanto lo scarso numero di piante, le tecniche rudimentali utilizzate e l'assenza di ulteriori indici della sostanza prodotta nel mercato degli stupefacenti consenta di ritenere la coltivazione destinata in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.
Quindi se dal punto di vista oggettivo, il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico presente in natura e la sua attitudine a giungere a maturazione, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché - come appena visto - la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale.
Ciò premesso l'esclusione ad opera della Corte partenopea di un numero esiguo di piante trattandosi di venti esemplari in fase avanzata di crescita, non consente alcun sindacato in questa sede di legittimità, posto che si verte nell'ambito di una valutazione naturalmente rimessa al giudice di merito scevra da vizi di manifesta illogicità, in linea con le acquisite risultanze istruttorie.
Il motivo in esame è pertanto inammissibile.
2. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche per il secondo motivo, in cui la difesa, adducendo fattori diversi da quelli messi in rilevo dai giudici del gravame, e comunque fondati su valutazioni personali, non si confronta con gli elementi specificamente enucleati dalla sentenza impugnata ritenuti preclusivi alla sussumibilità del fatto nell'ipotesi di lieve tenuità. Nell'evidenziare unitamente all'elemento quantitativo riferito al numero degli esemplari coltivati tale da ricavare un non modesto raccolto, le modalità della condotta rivelatrici di una clandestinità della piantagione, volutamente ubicata sul balcone della stanza dei bambini, così da porla al riparo da eventuali controlli e azioni repressive delle forze dell'ordine, la Corte distrettuale risulta aver fatto buon governo del principio univocamente affermato dalla giurisprudenza secondo il quale l'applicabilità del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, deve essere il frutto di una valutazione complessiva degli elementi fattuali selezionati dalla norma che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva, resistendo pertanto le argomentazioni addotte alle censure difensive, formulate in termini del tutto generici e assertivi.
3. Del pari, prettamente valutative e generiche risultano le doglianze sollevate in ordine al diniego della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Non si ravvisano, invero, nella motivazione resa dalla Corte partenopea, fratture o incongruenze argomentative, le quali soltanto consentirebbero l'intervento del giudice di legittimità e che comunque non risultano essere state neppure ventilate dalla difesa, nell'esplicitazione delle ragioni fondanti il diniego della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p., limitandosi il ricorso ad opporre un'antitetica valutazione dell'indice criterio della particolare tenuità del danno o del pericolo frutto di un mero apprezzamento personale, ribadendo anche in tale occasione l'esiguità del numero delle piante coltivate, a dispetto del rilievo conferito dalla Corte territoriale proprio al dato quantitativo.
Il ricorso deve in conclusione essere dichiarato inammissibile, seguendo a tale esito la condanna della ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e, non potendosi ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.