Annullato il mancato riconoscimento dell'idem di una sentenza di condanna italiana rispetto ad una sentenza assolutoria greca: la nozione di «stessi fatti», richiamata dalle decisioni quadro sul reciproco riconoscimento nell'ambito dell'Unione europea, ai fini del il divieto del bis in idem, costituisce una nozione autonoma del diritto dell'Unione europea, in quanto non può essere lasciata alla discrezionalità delle autorità giudiziarie dei singoli Stati membri l'esegesi di tale concetto sulla base del loro diritto nazionale, occorrendo di esso garantire l'applicazione uniforme nel diritto dell'Unione europea.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE PENALE
Sentenza n. 36539-24 dd. 5 giugno 2024 – deposito 1 ottobre 2024
Composta da:
MONICA BONI - Presidente -
BARBARA CALASELICE - Relatore -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da: LS nata il */1980
avverso l'ordinanza del 23/01/2024 della CORTE ASSISE di ANCONA
udita la relazione svolta dal Consigliere BARBARA CALASELICE;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, E. Ceniccola, che ha chiesto il parziale annullamento con rinvio, con rigetto nel resto del ricorso;
letta la memoria, pervenuta con p.e.c. del 16 maggio 2024, con documentazione allegata, con la quale la difesa (Avv. Nicola Canestrini e Andrea Nobile) ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l'ordinanza impugnata, la Corte di assise di Ancona, in funzione di giudice dell'esecuzione, ha rigettato la richiesta, formulata da LS, volta ad ottenere la revoca delle sentenze emesse, tra gli altri, nei suoi confronti dalla Corte di assise di Ancona, il 23 novembre 2009, nonché dalla Corte di assise di appello di Ancona, il 30 novembre 2011, ritenendo non sussistente il divieto di precedente giudicato per i medesimi fatti, quanto alle sentenze emesse dalla Corte di assise di appello di Atene, n. 2990 del 2004 e n. 5190 del 2009, in relazione al divieto di bis in idem europeo previsto dagli artt. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione europea (cd. convenzione di Nizza) e 4, prot. 7 CEDU.
2. Avverso la descritta ordinanza ha proposto tempestivo ricorso per cassazione la condannata, per il tramite del difensore, devolvendo tre motivi, di seguito riassunti nei limiti necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 54 della convenzione di Schengen, 50 della cd. convenzione di Nizza e 4, prot. 7 CEDU, nonché dell'art 669 cod. proc. pen., in relazione alla medesimezza dei fatti in quanto le condotte contestate, nelle sentenze italiane e greche, al di là della loro qualificazione giuridica, sono le stesse.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per vizio di travisamento della prova anche per omissione, con riferimento agli atti processuali dell'Autorità giudiziaria greca indicati a p. 5 del ricorso (sentenza n. 5190 del 2009 della Corte di appello di Atene, ordinanza di rinvio a processo del Consiglio della corte di appello di Atene n. 2400/08 della 14 gennaio 2009, sentenza n. 2990 del 2004 della Corte di appello di Atene pubblicata il 20 novembre 2006).
Il Giudice dell'esecuzione assume che i procedimenti in questione intendendo evidentemente quelli nazionali e stranieri, si inseriscono in una vicenda unitaria attinente ad un'associazione per delinquere, composta da soggetti cinesi, operante in ambito internazionale.
Secondo la ricostruzione difensiva, dal provvedimento impugnato si trae che tale organismo, organizzava a fini di lucro l'immigrazione clandestina, in Italia e in altri paesi della Comunità europea, di cittadini cinesi, gestiti e trattati come prigionieri, fino a quando i loro familiari non provvedevano a saldare, per intero, il prezzo stabilito per il loro riscatto.
I procedimenti giudiziari celebrati in Grecia e i processi svolti in Italia, per la ricorrente, avevano ad oggetto la medesima vicenda relativa ad una associazione unitaria, così come si ricava dal fatto che l'Autorità giudiziaria ellenica, nel procedimento penale di cui alla sentenza n. 5190 del 2009, resa dalla Corte di appello di Atene, relativa a fatti commessi sino a settembre 2003, aveva deciso anche nei confronti della ricorrente con dispositivo che viene riportato a p. 5 e 6 del ricorso.
Si richiama, inoltre, l'ordinanza di rinvio a giudizio redatta dal Consiglio della Corte di appello di Atene n. 2400/08 del 14 gennaio 2009, nella quale vengono dettagliatamente indicate, nel capo di incolpazione, le condotte ascritte alla ricorrente, nei termini riportati a p. 7 del ricorso.
La sentenza n. 2990 del 2004, relativa a fatti commessi nel periodo di inizio 2003, sino all'arresto della ricorrente, del 27 giugno 2003, resa dalla Corte di assise di appello di Atene ha, poi, deciso con dispositivo che viene riportato a p. 8 e 9 del ricorso.
La difesa opera una comparazione tra le imputazioni dell'Autorità giudiziaria ellenica e quella italiana per le quali l'imputata è stata accusata e condannata dei reati di cui ai capi:
- D), artt. 110,630, 112 n. 1 cod. pen. e 7 legge n. 203 del 1991, in concorso con KJ, MY, J, DJ e con altre persone non identificate operanti nel territorio estero, Grecia Turchia e Cina, nei confronti delle due persone indicate nella imputazione che faceva giungere dalla Cina all'Italia, attraverso la Turchia e la Grecia, in stato di privazione della libertà personale al fine di ottenere dai parenti delle stesse un prezzo per la loro liberazione pari a circa 130.000 yen, con le aggravanti di aver commesso il fatto in cinque persone ed avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen.;
- E), artt. 110, 112 n. 1 cod. pen. e 12, comma 3, d. lgs. n. 286 del 1998, 7 legge n. 203 del 1991, perché in concorso tra le persone di cui al capo D e con altre persone non identificate, operanti anche in territorio estero, Grecia, Turchia e Cina, al fine di trarne profitto, anche indiretto, tenendo le condotte di cui al capo D, compiva atti diretti a favorire l'ingresso nel territorio dello Stato delle due persone di cui al capo D, in violazione delle norme vigenti con l'aggravante di aver commesso il fatto in cinque persone ed avvalendosi delle condizioni di cui all'art 416-bis cod. pen.;
- F), artt. 110, 600, 112 n. 1 cod. pen. 7 legge n. 203 del 1991 perché in concorso fra loro e con altre persone non identificate, operanti anche in territorio estero Grecia, Turchia e Cina, tenendo le condotte di cui ai precedenti capi D ed E, commettevano tratta delle due persone indicate al capo D che si trovavano nelle condizioni di cui all'art. 600 cod. pen. e, in particolare, in una situazione di inferiorità fisica e psichica e di necessità in quanto completamente assoggettate ai sequestratori, la cui appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso era nota essendo in stato di sequestro, prive di validi documenti, di den a
conoscenza della lingua italiana e di persone cui fare riferimento nel territorio nazionale, con l'aggravante di aver commesso il fatto in più di cinque persone, avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen., fatti accaduti nel mese di gennaio 2003, con ingresso in Italia avvenuto in stato di privazione della libertà personale dal porto di Ancona.
Secondo la ricorrente la comparazione operata dal giudicante giunge a concludere nel senso che, nei procedimenti penali greci, non è contestata, né sostanzialmente né formalmente, la condotta di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, a differenza di quanto avviene nelle imputazioni italiane.
Secondo la difesa si incorre in vizio di travisamento della prova anche per omissione perché non si tiene conto che le imputazioni, come formulate dalle autorità greche, facevano riferimento ai reati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, descrivendo condotte riconducibili a tale ipotesi di reato.
Questo, con particolare riferimento alla sentenza n. 2990 del 2004 della Corte di appello di Atene che, nell'imputazione, richiama comportamenti riconducibili alla fattispecie del favoreggiamento dell'immigrazione clandestina perché si fa riferimento al fatto che le persone venivano portate illegalmente in altri paesi europei, soprattutto passando dall'Italia (cfr. p. 34 della sentenza della Corte di appello di Atene del 2004).
Inoltre, l'ordinanza fa riferimento al fatto che, a differenza del favoreggiamento dell'immigrazione clandestina in Grecia, in merito al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, ritenuto nelle sentenze italiane, può identificarsi una formale sovrapponibilità con il reato di estorsione preso in esame dalla sentenza n. 5190 del 2009.
Tuttavia, si tratta di condotte fattuali contestate dai giudici greci che, per la specifica posizione di LS, il provvedimento impugnato ha escluso essere totalmente coincidenti, in violazione dell'art. 54 della convenzione di Schengen, nonché degli artt. 50 della carta dei diritti fondamentali dell'unione europea e 4, prot 7 CEDU.
Il Giudice dell'esecuzione motiva ritenendo l'imputazione greca non descrivente le singole condotte ascritte agli imputati, con procedimento che riguarda anche coimputati ulteriori rispetto a quelli giudicati in Italia. Si ritiene, inoltre, che l'accertamento giudiziale greco sarebbe focalizzato solo su fatti verificatisi in Grecia e l'assoluzione fonderebbe sull'assunto che le vittime avevano dichiarato di essere state prelevate e trasferite al porto di Patrasso, dirette ad Ancona, senza subire violenza o minacce.
Inoltre, la sentenza non contiene alcuna valutazione di eventuali condotte delittuose ascritte a LS, indicando peraltro come coimputati soggetti diversi da quelli individuati nel capo di imputazione italiano.
Si evidenzia che il giudice dell'esecuzione ha preso in considerazione soltanto la sentenza n. 5190 del 2009 e l'ordinanza di rinvio a processo n. 2400 del 2008 del consiglio della Corte di appello di Atene, incorrendo in travisamento degli atti.
Entrambi i fatti ascrivono all'imputata l'apporto materiale che si sarebbe concretizzato nell'agevolare la liberazione di due concittadine per, poi, consegnarle nelle mani di alcuni sequestratori facenti parte di un sodalizio.
Si tratta di condotte, per la difesa, certamente ricomprese nel giudizio greco tenuto conto che le stesse vittime vengono citate nei capi di imputazione ellenici. Il giudice di esecuzione ha svolto osservazioni non già sul fatto dedotto ma sulle modalità di accertamento dello stesso, senza disporre del materiale per poter compiere valutazioni circa la bontà delle sentenze straniere. Anzi, si osserva che anche nelle imputazioni italiane il ruolo della ricorrente è relativo a condotte perpetrate in suolo greco e non italiano.
A p. 15 e ss. del ricorso si indicano tutti i punti rispetto ai quali il giudice dell'esecuzione sarebbe in corso in travisamento per omissione.
In primo luogo, si sottolinea che nella sentenza n. 2990 del 2004 della Corte di appello di Atene si contesta anche che gli imputati facevano arrivare in Grecia, illegalmente, loro connazionali cinesi e clandestini attraverso la Turchia ed altri paesi e che li tenevano segregati in Grecia.
Anche la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal Consiglio con un'accusa del tutto sovrapponibile al reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, precisava che essendo membri dell'associazione a delinquere in oggetto, l'intesa con i complici di identità sconosciuta, agenti in Cina Turchia Italia e Francia, prelevavano loro connazionali che i membri dell'associazione a delinquere avevano, in precedenza, provveduto a trasportare illegalmente in Grecia dietro laute somme di danaro.
Quindi, venivano chiusi in appartamenti affittati in Atene, in regime di privazione della libertà di movimento e con minacce alla loro incolumità trasferendoli in altri paesi, tra cui l'Italia dove venivano liberati solo quando veniva pagato per intero il prezzo (accusa che vede la LS assolta con sentenza n. 5190 della Corte di appello di Atene).
In secondo luogo, si evidenzia che le sentenze italiane attengono a fatti accaduti nel mese di gennaio del 2003 e che quelle greche attengono a fatti commessi nel periodo tra settembre 2002 e inizio 2003 e, anzi, fino all'arresto del 27 giugno 2003.
Ancora, si rimarca il travisamento in cui sarebbe incorso il Giudice dell'esecuzione nella parte in cui non ha tenuto conto che la ricorrente veniva accusata dell'appartenenza ad un'associazione criminale che aveva posto in essere una pluralità di condotte, tra cui rientrano anche quelle per cui quest'ultima era stata condannata in Italia.
Gli imputati, secondo la sentenza greca, in concorso con altri di identità sconosciuta, formarono un'associazione a delinquere di tipo mafioso, strutturata e duratura, allo scopo di commettere vari reati come indicato nella richiesta di rinvio a giudizio, formulata dal Consiglio della Corte di appello di Atene, con contestazione riportata nelle sentenze.
Non si sarebbe, poi, valutata la circostanza che le vittime dei reati contestati alla ricorrente sono le stesse sia dei provvedimenti italiani che di quelli greci (si parla di wo-wo e di una ragazza a nome Xiao Shi Wei, come si legge nella sentenza n. 5190 del 2009).
Si contesta, da ultimo, che gli accertamenti giudiziali greci si sarebbero focalizzati su fatti verificatesi in Grecia, come assunto dal giudice dell'esecuzione e che i coimputati della ricorrente, in Grecia, sarebbero diversi da quelli di cui al capo di imputazione italiano.
Il ricorso, invece, sostiene che tutte le imputazioni fanno riferimento anche a reati perfezionati in Italia.
Specularmente le imputazioni italiane hanno come oggetto pressoché esclusivo condotte realizzate in Grecia. Si evidenzia, infine, che le autorità greche non sono riuscite a individuare tutti i soggetti coinvolti nella organizzazione criminale come si evince dalla lettura della sentenza n. 5190 del 2009, di qui la spiegazione della non perfetta coincidenza dei concorrenti nel reato.
2.3. Con il terzo motivo si denuncia mancanza, contraddittorietà o manifesta e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione dell'identità del fatto ai sensi degli artt. 669 cod. proc. pen. e 54 convenzione di Schengen.
Si richiama giurisprudenza che ha avuto modo di esprimersi nel senso che la nozione di "stessi fatti" richiamata dalle decisioni quadro sul reciproco riconoscimento nell'ambito della Unione Europea, ai fini del divieto del bis in idem, costituisce nozione autonoma del diritto dell'Unione europea e che non può essere rimessa alla discrezionalità della autorità giudiziaria dei singoli Stati membri l'esegesi di tale concetto sulla base del singolo diritto nazionale.
In base all'interpretazione fornita dalla Corte Ue, la nozione di stessi fatti ricomprende fatti inscindibilmente collegati tra loro, indipendentemente dalla qualificazione giuridica dei medesimi e dell'interesse giuridico tutelato (Grande Sezione Corte UE 16.11.2010, Mantello).
La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di evidenziare in tema di mandato di arresto europeo che, ai fini della configurabilità del motivo ostativo del divieto del bis in idem, occorre avere riguardo al criterio dell'identità sostanziale dei fatti oggetto dei relativi procedimenti, a prescindere dalla diversa qualificazione giuridica attribuita all'episodio dalle autorità dello Stato richiedente di quello richiesto e a prescindere, nel caso in cui la condotta arrechi danno ad una pluralità di vittime, anche dall'identità di queste (Sez. 6, n. 5092 del 2014).
Anche la Corte di giustizia dell'Unione europea si è espressa nel senso che una qualificazione giuridica divergente dei medesimi fatti, in due Stati contraenti diversi, non osta all'applicazione dell'art. 54 della Convenzione di Schengen.
Quindi, per determinare se esista o meno un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro, i giudici nazionali competenti devono accertare se i fatti materiali dei due procedimenti costituiscono un insieme di fatti collegati nel tempo nello spazio e per oggetto.
Sicché è necessario prendere in considerazione globalmente comportamenti illeciti concreti che hanno dato luogo al procedimento penale davanti a due diversi Stati contraenti.
La nozione di identità del fatto è stata quindi costantemente intesa quale coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta oggetto dei due processi, onde il medesimo fatto ai fini della preclusione sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato (si richiama sul punto Sez. U n. 34655 del 2005).
In questo stesso solco si pone l'interpretazione fornita dalla Cedu che privilegia, nella sua più recente elaborazione, il criterio dell'identità dei fatti materiali assumendo quali parametri di riferimento l'insieme delle circostanze fattuali concrete, relative allo stesso autore, indissolubilmente legate fra loro nel tempo e nello spazio.
Né rileva che la vittima sia la stessa come, a mero titolo esemplificativo, può accadere nelle ipotesi in cui il reo con la propria condotta arrechi danno a una pluralità di persone e venga perciò condannato pur non interferendo in alcun modo tale evenienza con la possibilità, per il danneggiato che non abbia preso parte al processo penale, di promuovere l'azione per chiedere il risarcimento del danno di davanti al giudice civile.
La motivazione dell'ordinanza impugnata, per la difesa ricorrente, è contraddittoria perché, da un lato, vengono enunciati i criteri di disamina dei fatti in linea con la più evoluta giurisprudenza nazionale ed europea; dall'altro, la mancata previsione del delitto di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina nelle sentenze greche è stata erroneamente fondata sulla mancata formale contestazione del delitto che, però, nelle sentenze straniere, risulta enunciata nella parte descrittiva della condotta incriminata riguardante il trasporto di soggetti in Italia illegalmente. Dal punto di vista formale, poi, è stata ritenuta la mancata enunciazione in forma analitica delle condotte ascritte all'imputata e la previsione di coimputati non coincidenti con quelli italiani anche se i fatti sono temporalmente, soggettivamente, oggettivamente connessi dunque in innegabilmente identici.
3. II Sostituto Procuratore generale, E. Ceniccola, ha concluso facendo pervenire memoria, chiedendo l'annullamento con rinvio limitatamente alla condotta di estorsione e associazione a delinquere, con rigetto nel resto del ricorso.
La difesa ha fatto pervenire memoria con p.e.c. del 16 maggio 2024 con allegata documentazione, ulteriormente argomentando i motivi di ricorso e chiedendone l'accoglimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
l.II ricorso è parzialmente fondato, nei limiti di seguito indicati.
2. Va premesso che, secondo il condivisibile indirizzo di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, Rv. 268931 - 01), nell'ambito dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, il principio del ne bis in idem, sancito dall'art. 50 della Carta di Nizza, si configura come garanzia generale da invocare nello spazio giuridico europeo, anche nei confronti di uno Stato non appartenente alla UE, ogni qual volta si sia formato un giudicato penale su un medesimo fatto nei confronti della stessa persona, a prescindere dalla sua cittadinanza europea (nel caso del precedente citato, questa Corte ha ritenuto rilevante, ai fini della sussistenza del ne bis in idem, che la sentenza definitiva sia stata emessa da uno Stato appartenente all'Unione Europea - Germania - benché terzo rispetto alla procedura, in materie che abbiano un collegamento con quelle di competenza del diritto dell'Unione, e ha negato, nei confronti del soggetto già condannato definitivamente, l'estradizione richiesta dalla Turchia all'Italia per il reato di traffico di stupefacenti, materia espressamente prevista dall'art. 83, par. 1, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea).
Va, poi, osservato, in linea generale, che la costante giurisprudenza di legittimità, cui il Collegio intende dare continuità, afferma che per avere identità del fatto, ai fini della preclusione connessa al rispetto del principio del ne bis in idem, deve esserci corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Rv. 231799 - 01; Sez. 5, n. 28548 del 01/07/2010, Rv. 247895; Sez. 4, n. 15578 del 20/02/2006, Rv. 233959).
La nozione di «stessi fatti», richiamata dalle decisioni quadro sul reciproco riconoscimento nell'ambito dell'Unione europea, ai fini del il divieto del bis in idem, costituisce una nozione autonoma del diritto dell'Unione europea (Grande Sezione, Corte U.E. 16 novembre 2010, Mantello, § 38), in quanto non può essere lasciata alla discrezionalità delle autorità giudiziarie dei singoli Stati membri l'esegesi di tale concetto sulla base del loro diritto nazionale, occorrendo di esso garantire l'applicazione uniforme nel diritto dell'Unione europea. Tale nozione, come ha affermato la Corte UE, trova quindi fondamento nell'art. 54 della Convenzione di Schengen, secondo cui "una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per medesimi fatti in un'altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita", che a sua volta è da ritenersi compatibile con il principio del ne bis in idem enunciato dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali («Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge») (Grande Sezione, Corte U.E. 27 maggio 2014, Spasic, § 59).
La nozione di «stessi fatti» ricomprende un insieme di fatti "inscindibilmente collegati tra loro", indipendentemente dalla qualificazione giuridica dei fatti medesimi 3 dall'interesse giuridico tutelato (Grande Sezione, Corte U.E. 16 novembre 2010, Mantello, § 39).
Secondo il Giudice europeo, fatti differenti non devono essere considerati «medesimi fatti», ai sensi dell'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen, per la sola circostanza che il giudice nazionale competente abbia constatato che essi siano collegati dallo stesso disegno criminoso, dovendo in ogni caso il criterio esegetico far leva sull'identità dei fatti materiali, inteso come esistenza di un insieme di fatti inscindibilmente collegati tra loro (Corte U.E. del 18 luglio 2007, Norma Kraaijenbrink), § 36). Pertanto, il nesso soggettivo tra fatti che hanno dato luogo a un procedimento penale in due Stati contraenti diversi non implica necessariamente l'esistenza di un nesso oggettivo tra i fatti materiali di cui è causa, i quali, di conseguenza, possono essere diversi dal punto di vista temporale e spaziale, nonché per la loro natura.
Inoltre, va rilevato che, secondo l'orientamento espresso da questa Corte (Sez. 3, n. 17197 del 10/03/2016, Andreini, Rv. 266582 - 01) in tema di esecuzione, il disposto di cui all'art. 669, comma 8, cod. proc. pen., relativo al caso che vi sia stata pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona, può trovare applicazione qualora la questione del ne bis in idem sia stata risolta, solo in via incidentale, negativamente da parte del giudice della cognizione, non assumendo tale decisione efficacia formale di giudicato (questa Corte ha annullato, con rinvio, l'ordinanza con cui il giudice dell'esecuzione aveva ritenuto non più deducibile davanti a sé, perché coperta da giudicato, la questione del ne bis in idem relativa alla pronuncia del giudice della cognizione che aveva, solo incidentalmente, affermato che il decreto di archiviazione per prescrizione non poteva essere considerato irrevocabile ai sensi e per gli effetti dell'art. 649 cod. proc. pen.).
2.1. Ciò premesso, si deve rilevare che la ricorrente è stata condannata, in Italia, con sentenza della Corte di assise di appello, del 30 novembre 2011, divenuta irrevocabile il 24 aprile 2012, alla pena di anni trenta di reclusione per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione.e, per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, condotte contestate come aggravate anche ai sensi dell'art. 7 legge n. 203 del 1991.
La difesa richiama anche la contestazione del reato di tratta (capo F dell'imputazione) che tuttavia, è stata esclusa in sede di cognizione (per tale fatto la ricorrente è stata assolta perché il fatto non sussiste: dispositivo della sentenza emessa dalla Corte di assise di Ancona in data 23 novembre 2009 allegata dalla difesa come documento alla memoria del 16 maggio 2024).
Con sentenza n. 2990 del 16 novembre del 2004, la ricorrente è stata assolta dal reato di associazione per delinquere, possesso di documenti contraffatti e armi dalla Corte di assise di appello di Atene e con successiva sentenza n. 5190 del 15 dicembre 2009, resa dalla Corte di assise di appello di Atene, la predetta è stata assolta dal reato di associazione per delinquere e concorso in estorsione, come da imputazione descritta nella richiesta di rinvio a giudizio allegata dalla difesa (cfr. sentenze prodotte, in allegato alla memoria del 16 maggio 2024).
2.2. Tutti i descritti procedimenti, secondo lo stesso Giudice dell'esecuzione che ha rigettato la richiesta, si inseriscono in una vicenda unitaria concernente l'associazione per delinquere composta da cittadini cinesi, operante in ambito internazionale, organismo che organizzava l'immigrazione clandestina in Italia e in altri paesi della Comunità europea di connazionali, gestiti e trattati come prigionieri, fino a quando i loro familiari non provvedevano a saldare, per intero, il prezzo stabilito per il loro riscatto.
Nel procedimento italiano, secondo il Giudice dell'esecuzione, si contesta alla ricorrente, tra l'altro, di avere, in concorso con altre persone alcune identificate altre da identificare, privato della libertà personale due cittadine cinesi (Wo Wo alias Wa Wa Yu Juju e Xiao Shi Wei), che venivano fatte giungere in Italia dalla Cina, attraverso la Turchia e la Grecia, in stato di privazione della libertà personale al fine di ottenere dai parenti delle stesse il prezzo per la loro liberazione.
Alla ricorrente si attribuisce il ruolo di essersi raccordata, dopo aver pagato la cauzione per la liberazione di quattro clandestini arrestati dalla polizia greca, con la concorrente nel reato Ma Yin, per consegnarle le due vittime indicate nel capo di imputazione; tale condotta viene ascritta anche a titolo di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, fatti che sono stati accertati come commessi nel mese di gennaio del 2003.
Nel procedimento greco non viene contestato, formalmente, il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, come indicato nell'ordinanza impugnata, condotta ascritta, invece, alla condannata dall'Autorità giudiziaria in Italia e per la quale questa ha riportato condanna definitiva.
3. Tanto premesso, si osserva che il primo e secondo motivo sono fondati nei limiti appresso indicati.
Invero, quanto dedotto dalla ricorrente con l'istanza originaria, non è specificamente confutato dal Giudice dell'esecuzione, con riferimento alla condotta di estorsione.
Dalla sentenza n. 2990 (cfr. p. 23 e p. 38) risulta che, dinanzi all'Autorità ellenica, si procedeva anche per la contestata partecipazione della ricorrente odierna a una associazione (la donna è indicata come fidanzata di un coimputato, il quale gestiva un bar luogo di ritrovo della "banda") che si occupava di sequestro di persona ed estorsione e che faceva arrivare, illegalmente, connazionali cinesi clandestini, attraverso la Turchia e altri paesi, tra cui principalmente l'Italia.
Quindi, l'organizzazione descritta nella sentenza straniera indicata, si occupava anche di traffico di clandestini dalla Cina, con destinazione soprattutto italiana.
La motivazione del Giudice dell'esecuzione ove esclude l'identità del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione rispetto a quello di estorsione preso in esame dalla Corte di assise greca, nel procedimento n. 5190 del 2009 è insufficiente.
Non si riconosce l'identità del fatto per la riscontrata mancanza di identità di concorrenti nel reato (l'imputazione formulata nel procedimento greco riguarda sei persone, indicate come concorrenti nel reato) e per la carente specificazione della condotta ascritta ai singoli partecipi.
Invece, su tale punto appare dedotta, da parte della ricorrente, con allegata documentazione l'identità del fatto pur se attribuito a soggetti solo parzialmente coincidenti.
Dalla lettura della motivazione della sentenza greca e anche delle deduzioni difensive riportate che hanno condotto all'assoluzione dell'imputata si evince che l'accertamento, in quella sede, era focalizzato su fatti avvenuti in Grecia e che il dubbio sulla sussistenza del reato che ha condotto all'assoluzione, era fondato sull'assunto che le vittime avevano dichiarato di essere state prelevate e trasferite al porto di Patrasso, dirette ad Ancona, senza subire violenze o minacce.
La motivazione svolta sul punto è, però, del tutto generica, con riferimento al delitto di sequestro di persona, tenuto conto che la contestazione di cui alla sentenza di assoluzione da parte dell'Autorità giudiziaria greca, per tale titolo di reato, coincide con quella del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, oggetto della pronuncia dell'Autorità giudiziaria italiana, con riferimento alle due persone offese (vittime n. 7 e 8 della contestazione greca: cfr. p. 8 della sentenza n. 5190 del 2009, riguardante 13 sequestri di cittadine cinesi), al pagamento della somma per il rilascio, allo stato di privazione della libertà personale fino al territorio italiano.
Del resto, la contestazione nel procedimento celebrato in Italia attiene al concorso con plurimi concorrenti nel reato, quattro dei quali coincidenti con quelli indicati nella sentenza n. 5190 del 2009, nella quale si dà atto dell'esistenza di altri concorrenti non identificati.
Dunque, il Giudice dell'esecuzione non chiarisce le specifiche ragioni della esclusione della identità del fatto, stante la riscontrata parziale coincidenza dei concorrenti nel reato.
Infine, va sottolineato che per tutti i fatti giudicati nel procedimento italiano, è stata contestata e riconosciuta dalla Corte di assise la circostanza aggravante speciale di cui all'art. 7 legge n. 203 del 1991, consistente nell'essersi l'imputata avvalsa dei metodi di cui all'art. 416-bis cod. pen., condanna confermata in sede di appello.
Il sodalizio descritto nel provvedimento greco, secondo il Giudice dell'esecuzione, realizzava lo scopo, avvalendosi della forza di intimidazione scaturente dal vincolo associativo, concretizzato attraverso la rappresentazione alle vittime e ai loro familiari che esistevano organizzazioni internazionali e strutturate, dotate di mezzi economici di rilievo avente possibilità di aggressione fisica verso i familiari, onde porre i soggetti in condizioni di assoggettamento e di omertà.
Va, dunque, da parte del giudice del rinvio verificato se la condotta accertata nel procedimento italiano, risultata aggravata ai sensi dell'art. 7 legge n. 203 del 1991, rispetto ai fatti accertati in Grecia, anche con riferimento al reato di estorsione sia specializzante e diversa rispetto a quella descritta ed accertata di cui ai capi di imputazione greci. Tanto, indipendentemente dalla
contestazione ma tenendo conto della complessiva connotazione del fatto commesso con i metodi di cui all'art. 416-bis cod. pen.
3.2.11 terzo motivo è infondato.
Quanto dedotto dallz ricorrente non convince in relazione alla sentenza n. 5190 del 2009 perché, in tale provvedimento, si descrive la condotta contestata relativa all'ingresso illegale delle persone che venivano fatte arrivare in Italia, ma non si fa, in alcuna parte, riferimento a una condotta favoreggiatrice propria della odierna ricorrente. Si tratta, peraltro, di condotta tipica, diversa e specifica, rispetto al fatto che le cittadine cinesi, introdotte soprattutto in Italia, transitassero illegalmente nel territorio nazionale, come risulta contestato nel capo di imputazione greco della sentenza n. 5190 citata.
Sicché sotto tale profilo, la motivazione offerta dalla Corte di assise quale giudice dell'esecuzione appare nella sostanza, giungere a conclusione ineccepibile, seppure attraverso un argomento non condivisibile, cioè quello della carenza di contestazione formale del reato di favoreggiamento che, come detto al § 2., non è risolutiva ai fini di escludere il bis in idem europeo.
4. Deriva da quanto sin qui esposto, l'annullamento dell'ordinanza impugnata perché il giudice del rinvio svolga, n piena autonomia quanto all'esito, nuovo esame in paticoalre in ordine alla condotta di estorsione commessa ai danni delle due cittadine cinesi indicate al § 3.
P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di assise di Ancona.
Così deciso, il 5 giugno 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente