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Stupefacenti, attenuante di lieve entità per un solo concorrente? (Cass. 27727/24)

11 luglio 2024, Cassazione penale

In tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti il medesimo fatto storico può configurare, in presenza dei diversi presupposti, nei confronti di un concorrente, il reato di spaccio di sostanza stupafecente non attenuato e nei confronti di altro concorrente il reato di spaccio di sostanza stupafecente attenuato dalla lieve entità cui all'art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R.

La giurisprudenza costituzionale propende per una responsabilità penale sempre più sviluppata in senso personalistico, al fine di ricondurre la condotta dei singoli al loro effettivo disvalore, ritenendo che ciò sia più conforme al modello costituzionale delineato dall'art. 27, primo comma, Cost.:  affinché la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili.

Il principio di colpevolezza non può essere sacrificato dal legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela penale di altri valori, ancorché essi pure di rango costituzionale, in quanto garanzia di libere scelte d'azione sulla base di una valutazione anticipata (calcolabilità) delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, cosicché"punire in difetto di colpevolezza, al fine di dissuadere i consociati dal porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale negativa) o di neutralizzare il reo (prevenzione speciale negativa), implicherebbe... una strumentalizzazione dell'essere umano per contingenti obiettivi di politica criminale, contrastante con il principio personalistico affermato dall'art. 2 Costituzione.

Nel giudizio di cassazione con trattazione orale non va disposta la condanna dell'imputato al rimborso delle spese processuali in favore della parte civile che non sia intervenuta nella discussione in pubblica udienza, ma si sia limitata a formulare la richiesta di condanna mediante il deposito di una memoria in cancelleria con l'allegazione di nota spese.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE PENALE

(data ud. 14/12/2023) 11/07/2024, n. 27727

Composta da

Dott. CASSANO Margherita - Presidente

Dott. PEZZELLA Vincenzo - Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da

1. A.A. nato a R il (Omissis)

2. B.B. nato a R il (Omissis)

3. C.C. nato a R il (Omissis)

avverso la sentenza del 19/07/2022 della Corte di appello di Roma

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal componente Vincenzo Pezzella;

udito il Pubblico ministero, in persona dell'Avvocato generale Pietro Gaeta, che ha concluso chiedendo il rigetto di tutti i ricorsi;

udito l'avv. EM in difesa della parte civile Roma Capitale che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, con la condanna degli imputati alla rifusione delle spese di parte civile come da nota scritta depositata in udienza;

uditi l'avv. CP in difesa di A.A., l'avv. GB in difesa di B.B. e C.C. e l'avv. GMM nell'interesse di C.C. che, illustrati i motivi, hanno insistito per l'accoglimento dei relativi ricorsi.

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza impugnata la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, in composizione collegiale, del 5 maggio 2021:

- ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di A.A. in ordine al reato ex artt. 377-bis cod. pen. e 416-bis.l cod. pen. commesso in C e R dal 10 febbraio 2013 al 19 settembre 2014 ascrittogli al capo E2) del primo decreto perché estinto per intervenuta prescrizione e ha rideterminato la pena in anni tredici e mesi sette di reclusione per le seguenti residue imputazioni: delitto di cui all'art. 74 commi 1, 2, 3 e 4, 80 comma 1 lett. b) e c) e comma 2 T.U. stup., art. 4 legge n. 146 del 2006, commesso in R in epoca antecedente al mese di giugno 2012 sino a tutt'oggi, di cui al capo F2) del primo decreto con il ruolo di partecipe; delitto di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73 T.U. stup. commesso in R il 17 giugno 2014 di cui al capo H3) del primo decreto; delitto di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73 T.U. stup., commesso in R dal 24 aprile 2018 al 16 giugno 2018 di cui ai capi Al), A6) e A14) del secondo decreto);

- ha assolto C.C. dal reato associativo ex art. 74 T.U. stup. ascrittogli al capo A) del secondo decreto perché il fatto non sussiste e, esclusa la recidiva, tenuto conto delle già riconosciute circostanze attenuanti generiche e della continuazione con i reati di cui alla sentenza del Tribunale di Roma del 28 novembre 2017 (irrevocabile il 20 dicembre 2017), ha rideterminato in complessivi anni sei di reclusione ed Euro 21.000 di multa la pena per i seguenti delitti: di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73 T.U. stup. commessi in R tra il 24 aprile 2018 e il 17 agosto 2018 di cui ai capi Al), A2), A3), A4), A6), A7), A9), Ali), A12), A13), A14) e A15) del secondo decreto;

- ritenuta la continuazione con i fatti di cui alla sentenza del Tribunale di Roma del 30 aprile 2013, parzialmente riformata in appello il 20 dicembre 2013, irrevocabile il 15 aprile 2014, ha rideterminato in complessivi anni tredici e mesi uno di reclusione la pena per B.B., già condannato in primo grado per il reato associativo ex art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 di cui al capo F2) del primo decreto con il ruolo di partecipe, nonché per i delitti ex artt. 110 cod. pen. e 73 T.U. stup. commessi in R tra l'1 e il 15 febbraio 2013 di cui ai capi U2), V2) e W2) di cui al primo decreto;

Il giudice di appello, quanto agli odierni ricorrenti, ha poi revocato le pene accessorie della interdizione perpetua dai pubblici uffici e della interdizione legale durante l'esecuzione della pena nei confronti di C.C. e gli ha applicato, in sostituzione, la interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque; ha ridotto la misura di sicurezza della libertà vigilata ad anni uno nei confronti di C.C. Ha revocato le statuizioni civili con riferimento agli imputati e per ciascuno dei capi per i quali è stata pronunciata assoluzione o sentenza di non doversi procedere. Ha condannato gli imputati ritenuti responsabili in ordine ai capi di imputazione per cui le parti civili sono rispettivamente costituite, come indicati nella sentenza di primo grado, e alla rifusione delle spese del grado di appello in favore delle parti civili stesse (Ambulatorio antiusura onlus, Associazione codici - Centro diritti del cittadino - Associazione sos impresa Lazio - Forum delle associazioni antiusura - Associazione nazionale per la lotta contro le illegalità e le mafie "Antonino Caponnetto" - Regione Lazio - Roma Capitale).

La Corte capitolina ha rigettato l'appello del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e ha confermato nel resto la sentenza impugnata.

2. Il presente processo, a carico, oltre che degli odierni ricorrenti, di altri 70 coimputati, ha visto all'udienza del 13 luglio 2020 la riunione ad un primo procedimento (R.G.N.R. 4194/12), di altro (R.G.N.R. 457/18) pendente a carico degli imputati D.D., E.E., F.F., A.A. e C.C. per fatti connessi.

Le vicende che vengono in rilievo in entrambi i procedimenti attengono a varie fattispecie di reato e traggono origine da indagini per traffici di droga che hanno coinvolto la famiglia (Omissis) a partire dal dicembre del 2012 e che si sono incentrate sul ruolo di D.D. nella borgata di (Omissis) in R. In tale ambito territoriale si accertava l'operatività di due diverse consorterie criminali, fra loro connesse e collegate, facenti capo al medesimo: da un lato l'associazione di cui all'art. 416 cod. pen. di cui al capo Al) del primo decreto, finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di reati (tra cui estorsione, usura, esercizio abusivo del credito, riciclaggio e reimpiego di capitali di provenienza illecita); dall'altro l'associazione ex art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti (capo F2). Per entrambe le associazioni venivano enucleati una serie di reati-fine che evidenziavano le concrete modalità operative dei sodalizi nonché l'eterogeneità degli ambiti economici attinti dalle attività illecite e la perduranza nel tempo delle condotte criminose.

Il compendio istruttorio è costituito dagli esiti delle attività di intercettazione telefoniche ed ambientali effettuate nei periodi di riferimento, dalle testimonianze degli operanti che hanno svolto le indagini e di alcune persone offese, nonché dai sequestri di sostanze stupefacenti.

3. Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma (limitatamente alle posizioni di G.G. e H.H.) e gli imputati, tra cui, A.A., C.C. e B.B., che hanno proposto, a mezzo dei rispettivi difensori, i motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.

3.1. A.A. ha articolato otto motivi di ricorso (erroneamente indicati in sette essendo stato ripetuto due volte il motivo n. 6). Con il primo, in relazione all'intervenuta condanna per il reato sub F2), lamenta violazione dell'art. 74 T.U. stup., contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova.

Osserva, in proposito, che la Corte territoriale avrebbe aderito acriticamente a quanto affermato dal primo giudice in relazione alla sussistenza del sodalizio criminoso valorizzando le conversazioni captate tra gli imputati e le immagini estrapolate dalle telecamere installate dalla p.g., nonché i servizi di osservazione e pedinamento ed avallando la tesi della sussistenza di due sottogruppi dediti allo spaccio (le c.d. "batterie"), coordinate l'una da I.I. e l'altra dai fratelli J.J. e B.B.

La Corte di appello avrebbe omesso di considerare che con i motivi di gravame nel merito era stato evidenziato come la mole di telefonate captate non desse conto minimamente di un rapporto costante e continuativo tra i due sottogruppi ed il vertice, né in termini di fornitura dello stupefacente e nemmeno di offerta e riscossione dei proventi dello stesso.

Deduce l'illogicità della motivazione del provvedimento impugnato laddove ha confutato i rilievi difensivi relativi all'assenza di una cassa comune e di modalità comuni di finanziamento del sodalizio e, in generale, alla mancanza di uno stabile vincolo associativo.

Con il secondo profilo di doglianza si lamentano violazione di legge, nonché carenza ed illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta adesione di A.A. all'associazione in contestazione, che, secondo la concorde valutazione dei giudici del merito, deriverebbe dalla presenza dello stesso presso il bar (Omissis) gestito da D.D. ed K.K., dalle risultanze dell'attività captativa e dalla partecipazione ad alcuni dei delitti-fine.

Non sarebbe stata fornita compiuta risposta ai rilievi difensivi relativi all'assenza di elementi obiettivi da cui inferire l'attività di spaccio in occasione delle presenze al bar.

La Corte territoriale avrebbe, inoltre, fornito una motivazione del tutto carente in punto di ritenuta adesione al sodalizio criminoso. L'affermazione che il ricorrente era un coordinatore del gruppo, secondo solo a D.D., sarebbe priva di ogni riscontro obiettivo, non potendo tale circostanza essere desunta dal contenuto delle intercettazioni. Le uniche condotte attenzionate direttamente riferibili all'imputato intervengono in un ristrettissimo periodo temporale e si collocano ed esauriscono nell'anno 2018, senza alcun coinvolgimento pregresso dello stesso nelle dinamiche del presunto gruppo apprezzabile in termini di stabilità. Infine, l'affermazione che l'imputato si sarebbe avvalso dell'opera di L.L. non risulterebbe in alcun modo suffragata da elementi di prova in tal senso.

Del tutto inconferente rispetto al tema di prova, vale a dire la stabile messa a disposizione in favore del gruppo, con attribuzione di ruolo operativo alla funzionalità dello stesso, risulterebbe il riferimento al dato che altri soggetti si riferissero al A.A. appellandolo come "lo zio" e trattandolo con rispetto.

Con il terzo motivo si lamentano violazione dell'art. 74, comma 6, T.U. stup. ed illogicità della motivazione laddove la Corte territoriale ha disatteso le richieste difensive di considerare, in ogni caso, il sodalizio criminoso di cui al capo F2) riconducibile, in ragione della struttura ridotta e del fatto che le cessioni avevano ad oggetto quantitativi di modestissima entità, all'ipotesi meno grave di cui al sesto comma della norma.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta erronea applicazione dell'art. 73 T.U. stup. e dell'art. 192 commi 1, 2 e 3 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione laddove è stata affermata la sua penale responsabilità per il reato di cui al capo H3) (detenzione, in concorso con altri individui, di 31,5 grammi lordi di cocaina che sarebbero stati occultati in Via (Omissis)). Ricorda in proposito che il Tribunale ha ritenuto l'ipotesi in contestazione integrata a carico del ricorrente, in base al contenuto di alcune immagini registrate dal sistema di videosorveglianza nell'area antistante il Bar (Omissis) ritenute dimostrative del fatto che A.A. fosse certamente a conoscenza dell'esistenza dello stupefacente occultato in Via (Omissis). Tale assunto, secondo il giudice di prime cure, avrebbe trovato conferma, da un lato, nel fatto che A.A. era transitato a bordo di un motociclo in Via (Omissis), senza però fermarsi, mentre M.M. - che nel frattempo si era allontanato da Via (Omissis) - vi era ritornato per eseguire ulteriori ricerche, e dall'altro, nella circostanza che N.N. e M.M., dopo le ripetute ricerche per il ritrovamento dello stupefacente, si erano diretti presso il bar per riferire l'accaduto ai capi dell'organizzazione malavitosa.

La difesa osserva che in sede di appello aveva sottolineato, da un lato, come il contenuto degli incontri, pur osservati, non fosse in alcun modo ricostruibile, poiché le uniche fonti dirette di prova (le videoriprese) risultano prive di audio, dall'altro perché la logica investigativa seguita (riproposta in dibattimento dal pubblico ministero e recepita in sentenza) era fondata su inferenze non corrette.

Rispetto a tutto quanto dedotto con i motivi di appello la Corte di secondo grado avrebbe offerto una motivazione assolutamente carente, pervenendo ad una apodittica, quanto illogica, affermazione di responsabilità in capo all'odierno ricorrente, recependo in toto acriticamente le affermazioni della sentenza di primo grado.

Con il quinto motivo lamenta erronea applicazione dell'art. 73 T.U. stup. e vizio di motivazione, nella forma della apparenza e delia manifesta illogicità, in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo Al), laddove A.A. è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 73 del T.U. stup. per avere il medesimo detenuto, in concorso con C.C. e E.E., un quantitativo imprecisato di sostanza stupefacente destinato allo spaccio al dettaglio.

Il ricorrente ricorda che con i motivi di appello aveva lamentato che il compendio probatorio, composto esclusivamente da intercettazioni telefoniche dal contenuto criptico, non aveva fornito elementi dimostrativi in ordine alla circostanza che si parlasse di sostanza stupefacente (apparendo in tal senso ambiguo il riferimento ad un "coso di carta" nascosto dal C.C. all'interno di una mattonella del (Omissis) che gli imputati A.A. e E.E. stavano, in quei frangenti, cercando). Aveva anche censurato come assolutamente generico il capo d'imputazione contenente il riferimento ad "un quantitativo imprecisato di sostanza stupefacente destinato allo spaccio al dettaglio". Ciò, però, sarebbe stato ignorato dalla Corte d'Appello, che sul punto sarebbe rimasta silente, limitandosi a recepire in toto le argomentazioni dei giudici di primo grado.

Con il sesto motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione nella forma dell'apparenza e della manifesta illogicità quanto all'affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capo A6) e A14) contestati nel secondo decreto di giudizio immediato, in relazione ai quali la Corte territoriale avrebbe omesso, in primo luogo, di rispondere alle censure difensive in punto di responsabilità dell'odierno ricorrente.

Il ricorrente ricorda che, al capo A6), si assume la partecipazione del A.A., in concorso con C.C., ad un'ulteriore ipotesi di cessione di sostanza stupefacente, mentre al capo A14) il ricorrente è chiamato a rispondere della cessione di stupefacente, in concorso con O.O. e C.C., a P.P.

Con l'atto di gravame nel merito, in relazione al capo A6) veniva dedotto come le relative fonti di prova si esaurissero nelle riprese della videosorveglianza e, con riguardo al capo 14), che la fonte di prova si fondasse solo su alcune captazioni telefoniche. Tuttavia, nessun servizio di osservazione e pedinamento aveva potuto effettivamente accertare le cessioni di stupefacente riportate nell'imputazione e nessun fotogramma ritraeva gli imputati nell'azione di cedere sostanza stupefacente, di talché le emergenze indiziarie acquisite non erano sufficienti a fondare un'affermazione di colpevolezza - oltre ogni ragionevole dubbio - nei confronti dell'imputato.

Con i motivi di ricorso ci si duole che la Corte territoriale, a pag. 167, nel respingere le doglianze afferenti al capo A6), si limiti ad affermare come i movimenti e gli incontri reiterati con le stesse modalità "sottendono uno scambio di sostanza stupefacente, considerando che lo scambio avviene in luogo appartato, ma sempre in prossimità della birreria (Omissis).

La motivazione, così formulata, sarebbe del tutto assertiva, non risultando correlata a qualsivoglia elemento probatorio idoneo a supportare la responsabilità in ordine al reato contestatogli.

Con il settimo motivo (rubricato, erroneamente, come sesto) si lamentano violazione di legge ed illogicità della motivazione quanto al mancato riconoscimento della fattispecie della lieve entità di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup. relativamente ai capi di imputazione H3), Al), A6) e A14)

Il ricorrente fa presente che nei motivi di appello (in particolare nel quinto, nell'ottavo e nel decimo), si era segnalato come le condotte indicate in tali capi d'imputazione ben avrebbero potuto essere riqualificate ai sensi del quinto comma dell'art. 73 T.U. stup. Ciò in quanto il tenore delle conversazioni intercettate non consente una precisa comprensione del loro contenuto. Inoltre, la mancanza di riscontri pertinenti ed individualizzanti - ed in particolar modo l'assenza di sequestri - non permette di escludere che la detenzione di sostanza stupefacente avesse ad oggetto quantitativi minimi. Con i motivi di appello era stato anche evidenziato come, a tutto voler concedere, in applicazione del principio del favor rei, in assenza di sequestri della sostanza stupefacente, gli episodi in contestazione ai predetti capi avrebbero dovuto essere sussunti nell'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup., non essendo stato possibile accertare il principio attivo della stessa.

Sul punto, il ricorrente si duole che la sentenza impugnata si limiti a rilevare che "plurime sono a questo riguardo le compartecipazioni accertate a carico dell'imputato che, seppur aventi ad oggetto quantità non ingenti di sostanza stupefacente, non possono essere qualificate ai sensi comma V dell'art. 73 T.U. stup. come fatti di lieve entità, sia per il dato quali-quantitativo, sia perché trattasi di fatti riconducibili ad un gruppo associativo, sia perché comunque ascrivibili ad un livello mediamente organizzato ed in contatto con fornitori di primo livello capaci di assicurare una costante fornitura di quantitativi di droga pesante" (pag. 168 della sentenza impugnata).

Ad avviso del ricorrente la motivazione, così formulata, risulterebbe - da un lato - carente e - dall'altro - illogica. In primis, perché, secondo un consolidato insegnamento di legittimità, la configurabilità dell'ipotesi lieve non può essere esclusa sulla base di singoli parametri, quali la diversa tipologia delle sostanze cedute o lo svolgimento non occasionale dell'attività di spaccio, astraendo tali elementi dalla ricostruzione fattuale nella sua interezza, fondata su una razionale analisi riguardante la combinazione di tutte le specifiche circostanze (il richiamo è a Sez. 6, n. 1428 del 19/12/2017, dep. 2018, Ferretti, Rv. 271959-01). La sentenza, poi, risulterebbe illogica allorquando pretende di fondare il mancato riconoscimento dell'ipotesi della lieve entità sulla circostanza secondo cui si tratterebbe di un'associazione, capace di assicurare una costante fornitura di sostanza stupefacente, laddove, secondo un orientamento esegetico costante, la fattispecie di lieve entità non è di per sé incompatibile con lo svolgimento di attività di spaccio di stupefacenti non occasionale, ma inserita in un'attività criminale organizzata o professionale (il richiamo è a Sez. 6, n. 28251 del 09/02/2017, Mascali, Rv. 270397-01).

Con l'ottavo motivo (erroneamente rubricato quale settimo) il difensore ricorrente lamenta violazione degli artt. 62 cod. pen. e 133 cod. pen. e carenza di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, negate sulla scorta della sola ritenuta assenza di elementi positivi di valutazione, nonché in ordine alla lamentata eccessività degli aumenti per la continuazione.

Analoga carenza si ravviserebbe in relazione alla determinazione del trattamento sanzionatorio, nella misura in cui la sentenza impugnata - nel confermare la pena inflitta dal giudice di primo grado ad eccezione della rideterminazione imposta dal maturare della prescrizione per il capo E2) - non si confronterebbe con le doglianze difensive espresse in punto di dosimetria della pena, individuata in misura irragionevolmente e immotivatamente superiore al limite edittale.

Da ultimo, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso di confrontarsi adeguatamente con le censure difensive mosse a proposito degli aumenti per la continuazione, nonostante l'insegnamento giurisprudenziale per cui, in sede di commisurazione dei singoli aumenti per i reati satellite, il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., deve indicare espressamente l'entità di ogni singolo aumento e i criteri che hanno inciso sulla quantificazione, anche in rapporto alla ritenuta qualificazione giuridica dei diversi fatti unificati dal vincolo della continuazione (il richiamo è a Sez. 1, n. 18140 del 18/03/2014, Russelli, non mass.).

La rideterminazione del trattamento sanzionatorio, secondo il ricorrente, deve comportare la revoca della misura di sicurezza della libeità vigilata.

3.2. B.B. ha articolato tre motivi di ricorso.

Con il primo motivo lamenta violazione di legge in punto di ritenuta sussistenza dell'associazione ex art. 74 T.U. stup. di cui al capo F2).

Il ricorrente ricorda che con l'atto di appello aveva contestato non solo la prova posta a base della ritenuta esistenza di un'associazione dedita al narcotraffico radicata nel territorio di (Omissis), in R, con a capo i fratelli D.D. e A.A., ma altresì che B.B. ne avesse fatto parte, difettando i requisiti minimi di stabilità, organicità e condivisione di uno scopo comune. Era stata, altresì, contestata l'esistenza di una presunta "catena di comando" alla quale i fratelli B.B. e J.J. si sarebbero adattati e sottomessi quali spacciatori di strada interfacciandosi con i capi per il tramite di un referente che la Corte individua nel coimputato L.L. detto "il roscio".

Ebbene, quanto all'esistenza dell'associazione dedita al narcotraffico, il ricorrente ritiene illogica e contraddittoria, ed a tratti solo apparente, la motivazione con cui la Corte territoriale ha valorizzato due soli aspetti: l'individuazione quale base operativa del bar "(Omissis)" (detto anche "bar (Omissis)"), gestito di fatto dai fratelli D.D. e A.A., considerati promotori e finanziatori dell'associazione; il ritenuto modus operandi dell'associazione, articolata in due sottogruppi, coordinati l'una da I.I. e l'altro dai fratelli J.J. e B.B.

Con il ricorso per cassazione la difesa si sofferma sui vari elementi che la Corte territoriale ha ritenuto indicativi dell'esistenza del sodalizio, a cominciare dagli arresti di Q.Q., B.B. e R.R., e contesta che gli stessi, come ritenuto dalla Corte territoriale, siano "fondamentali per delineare l'esistenza ed il modus operandi del gruppo".

Sottolinea che dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali, operate nell'ambito di un'indagine riferita ad un'associazione che avrebbe operato per otto anni, emerge, in netto contrasto con i requisiti di stabilità e intraneità richiesti perché possa configurarsi un sodalizio ex art. 74 T.U. stup., un solo contatto tra J.J. (e non B.B.) e L.L. Inoltre, quanto alla conversazione ambientale del 29 ottobre 2012 tra I.I. e M.M. all'interno della Fiat 500 in uso al primo (che secondo la Corte territoriale proverebbe il rapporto piramidale che lega gli spacciatori con i capi, ed in particolare con il L.L.), il ricorrente evidenzia che dalla stessa si evince che i due interlocutori avevano intenzione di "investire insieme", senza il coinvolgimento di altri, e, soprattutto, che si sentivano assolutamente liberi di cambiare fornitore senza dover rendere conto a nessuno. Il che, ancora una volta, sarebbe in distonia con la ritenuta appartenenza ad un'associazione.

Il ricorrente lamenta che nelle poche pagine in cui tratta della ed. "batteria dei (Omissis)" (da pag. 113 a pag. 117) la Corte capitolina incorra nella violazione di legge per difetto assoluto di motivazione nella parte in cui affronta la specifica posizione di B.B., che viene solamente nominato, senza che a supporto del suo inserimento nell'associazione venga fornito il benché minimo riscontro.

La Corte territoriale - ci si duole - si limita ad indicare B.B. come un associato che "coadiuva il fratello J.J." nello spaccio da strada mediante un suo sottogruppo costituito dallo zio S.S. e dalla compagna T.T., in realtà entrambi assolti dal reato associativo e condannati per il solo capo V2). Inoltre, dagli esiti investigativi, non risulta mai accertata la sua presenza nel "bar (Omissis)", ma un solo incontro, in strada, con L.L., con il quale si era salutato a distanza a bordo del proprio scooter.

Il ricorrente, inoltre, evidenzia che dalla testimonianza dell'Ispettore U.U., si evince l'assenza di incontri nel bar tra i vertici ed i luogotenenti dell'associazione, con conseguente indebolimento della tesi accusatoria, in quanto l'asserita struttura verticistica del sodalizio avrebbe dovuto comportare una continua interazione tra vertici, gregari e spacciatori di strada. E, quanto ai sequestri di 346 grammi di cocaina del 19 aprile 2013 e dei 205 grammi di cocaina del 15 febbraio 2013, osserva che si tratterebbe di due casi isolati che si porrebbero in netta contrapposizione con il requisito della stabile partecipazione. Le prove acquisite sarebbero, al più, dimostrative di singoli casi di concorso di persone nel reato. I singoli reati-fine per i quali B.B. è stato condannato, non sono indicativi di alcun obiettivo comune superiore rispetto allo scopo tipico della sua attività di cessione svolta per soli interessi personali.

Con il secondo motivo si lamentano l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata riqualificazione giuridica delle condotte contestate sub U2) e V2) in quella di cui al quinto comma dell'art. 73 T.U. stup. e la conseguente mancata declaratoria di intervenuta prescrizione.

Il ricorrente, in particolare, ricorda che aveva eccepito una disparità di trattamento rispetto ai due coimputati X.X. e Y.Y. che, partecipi nella stessa condotta indicata ai capi U2) ("perché, in concorso tra loro, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 del medesimo testo normativo, cedevano gr. 6,3 lordi di cocaina a V.V.) e V2) ("perché cedeva gr. 6 circa di cocaina a V.V., per il tramite di tale W.W. non identificato), erano stati, invece, prosciolti per intervenuta prescrizione già in primo grado all'esito della diversa qualificazione giuridica della condotta in quella di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup.

Osserva che sul punto, la Corte territoriale, richiamando l'orientamento espresso da Sez. 3, n. 20234 del 04/02/2022, Marcarini, Rv. 283203-01, Sez. 3, n. 16598 del 20/02/2020, Graziani, Rv. 278945-01 e Sez. 6, n. 2157 del 09/11/2018, dep. 2019, Sarr, Rv. 274961-01, nel negare la riqualificazione del fatto lieve per il B.B., aveva argomentato che, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di stupefacenti, lo stesso fatto può essere ascritto a un concorrente ai sensi dell'art. 73, comma 1, T.U. stup. e all'altro ai sensi dell'art. 73, comma 5, del medesimo T.U., qualora il contesto complessivo nel quale si colloca la condanna assuma caratteri differenziali per ciascun correo. Ricorda, tuttavia, che a tale orientamento se ne contrappone un altro, altrettanto recente, espresso, tra l'altro, da Sez. 4, n. 30233 del 07/07/2021, D'Agostino, Rv. 281836-01 e Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Khess, Rv. 276676-02 a mente del quale, in tema di concorso di persone nel reato di detenzione o cessione di sostanze stupefacenti, il medesimo fatto storico non può essere qualificato ai sensi dell'art. 73, commi 1 o 4, T.U. stup. nei confronti di alcuni concorrenti e contemporaneamente ricondotto nell'ambito dell'art. 73, comma 5, nei confronti di altri, stante l'unicità del reato nel quale si concorre, che non può, quindi, atteggiarsi in modo diverso rispetto ai singoli concorrenti.

Il ricorrente censura, poi, il passaggio motivazionale! di pag. 142 del provvedimento impugnato, ove si nega la sussistenza dell'ipotesi di lieve entità sul rilievo che dall'esame delle conversazioni intercettate emergerebbero l'intensità del traffico di droga, la sussistenza di un'organizzazione criminale dedita all'immissione nel mercato di droga in favore di una vasta platea di acquirenti, il conseguimento di rilevanti illeciti profitti e, dunque, l'esistenza di un'organizzazione criminale, nel cui ambito B.B. consapevolmente si occupava dello spaccio di strada in un sottogruppo (la c.d. batteria) coordinato dal fratello J.J. e facente capo ad un'associazione dedita alla gestione di una vera e propria piazza di spaccio nel territorio romano di (Omissis). In ogni caso, reato associativo e piccolo spaccio non sono ontologicamente incompatibili, come invece ritenuto dalla Corte territoriale.

Con il terzo motivo si lamentano inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, con riferimento al mancato riconoscimento desle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis cod. pen., rispetto al cui diniego la Corte territoriale ritiene che venga meno ogni obbligo motivazionale per il solo fatto di avere ritenuto B.B. colpevole del reato associativo.

3.3. C.C. ha proposto due motivi di ricorso.

Con il primo motivo si lamentano erronea applicazione della legge penale nonché illogicità manifesta della motivazione con riferimento alle intervenute condanne per i reati di cui ai capi Al), A2), A3), A4), A6), A9), A12), A13) e A15). Ci si duole, in particolare, che il giudizio espresso nella sentenza impugnata con riferimento al significato emergente da talune conversazioni telefoniche intercettate non risulti affatto adeguato sul piano logico - quantomeno nei termini della rassicurante certezza che sempre dovrebbe sorreggere una pronuncia di condanna - a ritenere comprovate le ipotesi criminose sopra indicate. Ciò in quanto, seppur mostrando una parziale volontà critica con riferimento all'analisi dei singoli episodi di illecita detenzione, la Corte territoriale avrebbe di fatto recepito l'impostazione della pronuncia di primo grado, procedendo a interpretare tutte le conversazioni telefoniche captate come se il C.C. dovesse sempre e comunque fare riferimento a sostanza stupefacente.

Si sottolinea anche che in tutti gli episodi individuati a carico del C.C. non è mai stato effettuato alcun sequestro, e di conseguenza la stessa tipologia di sostanza stupefacente, asseritamente detenuta o ceduta, resta del tutto dubbia.

Con il secondo motivo si lamentano l'errata applicazione della legge penale nonché la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla mancata qualificazione dei fatti di cui ai capi da Al) ad A15) dell'imputazione nei termini di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup. Il ricorrente richiama il dictum di Sez. 6, n. 47523 del 29/10/2013, El Maddahi, Rv. 257836-01 evidenziando il mancato sequestro dello stupefacente oggetto della quasi totalità dei capi d'imputazione, che non consentirebbe di stimarne con certezza la qualità e i quantitativi. Si tratterebbe, peraltro, di attività di smercio al dettaglio, riconducibili all'ipotesi lieve, non ostandovi la pluralità degli episodi e l'abitualità. Ci si duole che manchi nella motivazione della sentenza impugnata la valutazione complessiva dei fatti richiesta da Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01.

4. Il ricorso è stato assegnato alla Quarta Sezione, le quale, in data 23 giugno 2023, ha disposto la separazione dal procedimento principale delle posizioni processuali di A.A., C.C. e B.B., disponendo con ordinanza la rimessione alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618, comma 1, cod. proc. pen., rilevando l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione della possibile differenziazione dei titoli di responsabilità tra concorrenti a fronte di un medesimo fatto di reato in materia di detenzione e traffico di sostanze stupefacenti. Nella stessa udienza, con la sentenza n. 39528 del 23/6/2023, ha deciso quanto alle posizioni dei coimputati e al ricorso del Procuratore generale.

5. Con provvedimento del 1 agosto 2023 la Prima Presidente, preso atto dell'esistenza e della rilevanza ai fini della decisione del contrasto giurisprudenziale ravvisato dall'ordinanza di rimessione, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando l'odierna udienza per la trattazione. Successivamente, in data 20 settembre 2023, in accoglimento delle richieste dell'Avv. Giacomo Balzarelli per il ricorrente B.B. e dell'Avv. Cesare Placanica per A.A., ha disposto la trattazione orale.

Il 28 novembre 2023 sono state depositate conclusioni scritte e nota spese per la parte civile "Associazione Codici Centro per i Diritti del Cittadino", che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi, con condanna degli imputati alla rifusione delle spese di assistenza e di rappresentanza nel grado.

L'1 dicembre 2023 il Procuratore generale ha fatto pervenire una memoria ex art. 611 cod. proc. pen. con cui ha anticipato le proprie conclusioni.

Le parti hanno concluso in pubblica udienza come riportato in epigrafe.
Motivi della decisione
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: "Se, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti, il medesimo fatto storico possa essere ascritto a un concorrente a norma dell'art. 73, comma 1, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e a un altro concorrente a norma dell'art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R.".

2. Il tema della possibile differenziazione dei titoli di responsabilità tra concorrenti, a fronte di un medesimo fatto di reato in materia di detenzione e traffico di sostanze stupefacenti, affonda le sue radici nella ricostruzione dogmatica dell'istituto del concorso di persone nel reato, nonché nella natura, unitaria o differenziata, del fatto di reato realizzato plurisoggettivamente.

L'ordinanza di rimessione ha illustrato i due orientamenti che si contrappongono nella più recente giurisprudenza di legittimità, non prima di avere evidenziato che "la trasformazione della fattispecie del quinto comma da circostanza attenuante speciale ad effetto speciale a titolo autonomo di reato operata dal legislatore del 2013 sembrerebbe maggiormente calibrata sull'ipotesi della realizzazione monosoggettiva che non sulla eventualità che la condotta tipica sia frutto di un'attività in concorso ponendo, pertanto, problemi di compatibilità con la disciplina del concorso di persone nel reato".

2.1. Secondo la prima opzione interpretativa, che richiama a sostegno una parte della dottrina e della giurisprudenza, il medesimo fatto storico non può essere qualificato in termini diversi nei confronti dei coimputati, stante l'unicità del reato nel quale si concorre: in questi termini si sono pronunciate Sez. 4, n. 37732 del 05/05/2022, D'Aiello, non mass.; Sez. 4, n. 7098 del 27/01/2022, Pace, non mass.; Sez. 3, n. 3327 del 16/12/2021, dep. 2022, Farka, non mass.; Sez. 4, n. 30233 del 07/07/2021, D'Agostino, Rv. 281836-01; Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Khess, Rv. 276676-02. È quella che in dottrina viene definita "concezione monistica del reato concorsuale", in ragione della quale Sez. 4, n. 30233 del 07/07/2021, D'Agostino, cit., ha ritenuto che non sia consentita una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto storico sul mero presupposto che, in relazione a taluni coimputati, il singolo episodio si iscriva come reato-fine in un programma criminoso di stampo associativo.

In base a tale orientamento, a favore di detta interpretazione militerebbero il dato letterale dell'art. 110 cod. pen., la volontà chiaramente espressa dal legislatore, di cui vi è traccia nella Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo del codice Rocco, nonché l'interpretazione sistematica delle regole sulla compartecipazione criminosa quali desumibili dagli artt. 116 e 117 cod. pen.

Nel caso di cui all'art. 116 cod. pen. il legislatore prescrive espressamente che il correo che non abbia avuto di mira né abbia materialmente perpetrato il reato più grave deve comunque risponderne, non potendosi consentire una differenziazione dei titoli di responsabilità tra i diversi compartecipi. L'art. 117 cod. pen., a sua volta, prevede che anche l'extraneus che non si sia prospettato la possibilità di perpetrare il reato "proprio" debba, comunque, risponderne.

Pertanto, secondo tale primo orientamento, in caso di concorso in un medesimo episodio di detenzione o cessione illecita di sostanza stupefacente, identificata l'unica condotta tipica ascritta a più persone, la relativa qualificazione non potrebbe essere diversa per i concorrenti; in altri termini, lo stesso fatto non potrebbe essere qualificato ai sensi dell'art. 73, commi 1 o 4, T.U. stup. nei confronti di alcuni concorrenti e contemporaneamente ricondotto nell'ambito dell'art. 73, comma 5, del medesimo T.U. nei confronti di altri (così Sez. 4, n.37732 del 05/05/2022, D'Aiello, non mass.; Sez. 4, n.7098 de 27/01/2022, Pace, non mass.).

Nel medesimo solco ermeneutico viene sottolineato che la lieve entità caratterizza in modo oggettivo e globale la fattispecie, sicché tale qualifica non può dipendere da peculiarità soggettive di uno dei concorrenti, né configurarsi in modo frammentario rispetto soltanto ad alcuni di essi, salva la diversa determinazione del trattamento sanzionatorio per il singolo sulla base dei criteri dettati dall'art. 133 cod. pen., dall'art. 114 cod. pen. o dalle disposizioni in materia di recidiva (Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Khess, cit.).

Gli stessi sostenitori della teoria monistica, tra l'altro, pongono in rilievo come una diversa qualificazione giuridica del fatto sarebbe preclusa non solo dal principio dell'unità del reato concorsuale, ma anche dalle stesse caratteristiche della fattispecie descritta nel quinto comma nell'articolo 73 T U. stup. che, secondo la giurisprudenza di legittimità - e, in primis, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Muralo, Rv. 274076-01 - richiede al giudice una valutazione unitaria e globale nella quale confluiscano tutte le caratteristiche del fatto atte ad identificarne il disvalore oggettivo. Di tal che, proprio perché alla realizzazione del fatto contribuirebbe ciascuno dei concorrenti con la propria condotta, sarebbe necessario che il giudizio di lieve entità fosse il medesimo per tutti.

2.2. Accanto a questo primo indirizzo ed in contrapposizione dialettica con il medesimo, come ricorda ancora l'ordinanza di rimessione, se n'è formato un altro, che pure ha trovato conforto in una parte della dottrina, secondo cui dalla combinazione delle norme di parte speciale con quelle sul concorso di persone nel reato discendono tante fattispecie plurisoggettive differenziate quanti sono i concorrenti, che avrebbero in comune il medesimo nucleo ai accadimento materiale, ma si distinguerebbero tra loro per l'atteggiamento psichico dell'autore (per ciascuna di esse, quello proprio del compartecipe interessato) e per taluni dati esteriori inerenti soltanto alla condotta, dell'uno o dell'altro compartecipe; di conseguenza, sarebbe ammissibile anche l'affermazione di responsabilità a diverso titolo per due o più dei diversi concorrenti.

È quella che la dottrina definisce "teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale o differenziata", o concezione pluralistica del reato concorsuale, che avrebbe il pregio di essere calibrata sulla persona dell'autore piuttosto che sul fatto tipico di concorso.

Tale orientamento è stato sostenuto da Sez. 3, n. 20234 del 04/02/2022, Marcarini, Rv. 283203-01, Sez. 3, n. 16598 del 20/02/2020, Graziani, Rv. 27894501 e Sez. 6, n. 2157 del 09/11/2018, dep. 2019, Sarr, Rv. 274961-01, che hanno concordemente statuito che lo stesso fatto storico può essere ascritto a titolo diverso ai diversi concorrenti, qualora le condotte assumano connotazioni peculiari per ciascun correo: dunque, l'art. 110 cod. pen. avrebbe la funzione di disciplinare il fenomeno concorsuale rendendo applicabile ai concorrenti il regime delle circostanze del concorso e quello dell'estensione delle cause di giustificazione, essendo le condotte di alcuni partecipi già di per sé tipiche.

A favore di questo indirizzo interpretativo viene richiamato, tra gli altri, l'art. 112, ultimo comma, cod. pen., in base al quale le circostanze aggravanti previste dai numeri 1), 2) e 3) del primo comma del medesimo articolo "si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile". Si è osservato che tale norma, non specificando le ragioni per cui taluno dei concorrenti non sia imputabile o punibile, sembrerebbe ammettere la configurabilità del concorso di persone anche nel caso della non punibilità relativa e di una punibilità per un titolo diverso di reato che, unendosi a quello degli altri concorrenti, contribuisca alla produzione della medesima offesa tipica (Sez. 6, n. 2157 del 09/11/2018, dep. 2019, Dia, non mass).

Secondo i fautori di tale tesi la configurabilità di diversi titoli di responsabilità per i diversi concorrenti può trovare ulteriore conferma muovendo da implicazioni desumibili dai medesimi artt. 116 e 117 cod. pen. invocati da chi propende per la concezione monistica. Ed invero, quanto all'art. 116 cod. pen., tale orientamento individua nell'ipotesi ivi prevista una smentita del dogma dell'unitarietà del reato concorsuale, rilevando che la norma in questione introduce una ipotesi di carattere eccezionale per raggiungere un risultato che, ove dovesse trovare applicazione la generale disciplina del concorso di persone nel reato, non potrebbe essere raggiunto. Ciò perché, in assenza dell'art. 116 cod. pen., il concorrente c.d. anomalo dovrebbe essere chiamato a rispondere del diverso delitto per colpa, ovviamente nella sola ipotesi in cui si tratti di fatto previsto dalla legge come delitto colposo: si avrebbe, così, l'imputazione del medesimo fatto ai coimputati sulla base di titoli di reato diversi. Dunque, in tale ottica, la disciplina de! concorso c.d. anomalo, lungi dall'essere riprova dell'esistenza di una generale regola di imputazione necessariamente unitaria del fatto concorsuale, introduce un'eccezione alla regola generale: regola generale che, contrariamente a quanto sostenuto dalla dottrina tradizionale, ed in armonia con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, vuole che ai diversi coimputati, in presenza di aspetti peculiari che ne abbiano caratterizzato il contributo dal punto di vista dell'elemento materiale o di quello soggettivo, possano essere contestati diversi titoli di reato. Quanto all'art. 117 cod. pen., si sottolinea che la giurisprudenza ha più volte evidenziato che la parificazione prevista da tale norma - applicabile solo quando il concorrente c.d. extraneus non abbia consapevolezza delle condizioni o delle qualità personali del concorrente c.d. intraneus, o dei rapporti fra questi e l'offeso, in presenza delle quali o dei quali muta il titolo di reato, perché altrimenti sarebbe configurabile il concorso per entrambi a norma dell'art. 110 cod. pen. - trova fondamento nella necessità di evitare che alcuni concorrenti siano puniti per un reato e altri per un diverso titolo unicamente perché hanno interferito particolari qualità di uno di essi o particolari rapporti di costui con la persona offesa (così, ad esempio, sin da epoche risalenti, Sez. 1, n. 7624 del 09/06/1981, Cerentino, Rv. 153500-01 e Sez. 3, n. 3557 del 22/12/1965, dep. 1966, Pugnoli, Rv. 100336-01). Di conseguenza, quando il mutamento del reato è determinato da circostanze diverse da quelle costituite dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l'offeso, e il soggetto a carico del quale è configurabile la responsabilità per la fattispecie meno grave non ha consapevolezza degli elementi qualificanti la vicenda in modo deteriore per l'altro concorrente, la "parificazione" del titolo di responsabilità non può verificarsi a norma dell'art. 110 cod. pen., né ex art. 117 cod. pen.; sarà semmai applicabile la disciplina di cui all'art. 116 cod.

pen., sempre che ne sussistano i necessari presupposti, anche con riferimento al profilo soggettivo.

In tale ottica, l'inapplicabilità della disciplina di cui agli artt. 116 e 117 cod. pen., che ha la funzione di "aggravare" la responsabilità per uno o più dei concorrenti anche in deroga agli ordinari principi in tema di colpevolezza, non potrebbe, salvo l'ipotesi di diversa indicazione normativa, comportare addirittura una "parificazione" in mitius a vantaggio di uno o più di essi.

Le due disposizioni appena citate risulterebbero escludere, in linea generale, che l'istituto del concorso di persone nel reato possa dare luogo ad una mitigazione della responsabilità penale, e renderebbero, quindi, ragionevole, in caso di loro inapplicabilità, correlare il titolo della stessa, per ciascun agente, al fatto al medesimo riferibile oggettivamente e soggettivamente, nel rispetto del principio di cui all'art. 27, primo comma, Cost.

In base a tale orientamento, quindi, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di stupefacenti, il medesimo fatto storico può essere ascritto a un imputato ai sensi dell'art. 73, comma 1, T.U. stup. e a un altro a norma dell'art. 73, comma 5, del medesimo T.U., qualora il contesto complessivo nel quale si colloca la condotta assuma caratteri differenti per ciascun coimputato (Sez. 3, n. 16598 del 20/02/2020, Graziani, Rv. 278945-01 e Sez. 6, n. 2157 del 09/11/2018, dep. 2019, Sarr, Rv. 274961-01).

Aderendo a tale impostazione Sez. 3, n. 20234 del 04/02/2022, Marcarmi, Rv. 283203-01, ha di recente affermato che il medesimo fatto storico può, dunque, essere ascritto a titolo diverso, qualora, tenendo conto della quantità di stupefacente trattato, nonché dei mezzi, delle modalità e delle circostanze dell'azione, la condotta assuma caratteri differenti per ciascun correo.

Il medesimo fatto di spaccio o di detenzione, dunque, si presta, in tale prospettiva, a essere qualificato diversamente per ciascun concorrente nel caso in cui le condotte di ogni partecipe siano apprezzabili in termini differenti. E in tal caso l'art. 110 cod. pen. ha la funzione di disciplina del fenomeno concorsuale, rendendo applicabile ai concorrenti il regime delle circostanze del concorso e quello dell'estensione delle cause di giustificazione, essendo le condotte di alcuni partecipi già di per sé tipiche.

A favore di tale conclusione deporrebbe il consolidato orientamento di legittimità che, in tema di riciclaggio, riconosce la configurabiiità di responsabilità a diverso titolo tra più concorrenti in relazione al medesimo fatto storico, rilevando che il soggetto non concorrente nel reato presupposto, il quale contribuisca alla realizzazione, da parte dell'autore di quest'ultimo, di condotte di autoriciclaggio, risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio (Sez. 2, n. 17245 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272652-01).

3. Così sinteticamente ricostruiti i due indirizzi esegetici, il Collegio rileva che i lavori preparatori del codice penale (ove può leggersi che "per aversi l'istituto del concorso, è necessario che tutti rispondano dello stesso reato") e il tenore letterale dell'art. 110 ss. cod. pen., secondo cui si concorre "nel medesimo reato", costituiscono altrettanti indici indicativi dell'adesione legislativa ad una concezione monistica del reato concorsuale. Il "concorso" non è una nozione in sé conclusa dal punto di vista logico, ma è un concetto di relazione che ha bisogno di essere integrato da un preciso termine di riferimento, individuato dal legislatore nel reato, al quale fanno riferimento le più significative disposizioni comprese nel capo terzo del titolo quarto della parte generale del codice penale (non solo l'art. 110 cod. pen., del quale si è appena detto, ma anche le norme successive, laddove si parla di determinazione "a commettere un reato", di "cooperazione nel delitto", di istigazione "a commettere un reato", di "reato commesso", e così via).

Tuttavia, tali norme vanno lette e interpretate alla luce della giurisprudenza costituzionale che, come ricorda il più recente dibattito penalistico, propende per una responsabilità penale sempre più sviluppata in senso personalistico, al fine di ricondurre la condotta dei singoli al loro effettivo disvalore, ritenendo che ciò sia più conforme al modello costituzionale delineato dall'art. 27, primo comma, Cost.

Si tratta di un percorso ermeneutico inaugurato con la sentenza n. 42 del 1965 della Corte costituzionale che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 116 cod. pen., in riferimento all'art. 27, primo comma, Cost., ebbe ad affermare come base della responsabilità ex art. 116 cod. pen. la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più grave commesso dal concorrente deve potersi rappresentare alla psiche dell'agente, nell'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto. Si affermò in tal modo la necessità anche di un coefficiente di colpevolezza. Per tale motivo ebbe ad escludere "che l'art. 116 del codice penale importi una violazione del principio della personalità della responsabilità penale: principio che nella partecipazione psichica dell'agente al fatto trova la sua massima affermazione".

Tali principi sono stati successivamente ribaditi ccn la sentenza n. 364 del 1988 cod. pen. laddove si è affermata la centralità e la insostituibilità del principio della colpevolezza che richiede come "essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione" uno specifico rapporto tra soggetto e fatto considerato nel suo integrale disvalore antigiuridico. Tale pronuncia ha riconosciuto la costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, ponendone in primo piano la funzione di garanzia delle libere scelte d'azione, ed ha evidenziato che esso "più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio di legalità".

La sentenza della Corte costituzionale n. 1085 del 1988, nello stesso solco, ha affermato che, affinché "la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili".

La recente pronuncia della Corte costituzionale n. 322 del 2007 pone in rilievo, a sua volta, che "il principio di colpevolezza non può essere sacrificato dal legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela penale di altri valori, ancorché essi pure di rango costituzionale", in quanto garanzia di "libere scelte d'azione sulla base di una valutazione anticipata (calcolabilità) delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta", cosicché "punire in difetto di colpevolezza, al fine di dissuadere i consociati dal porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale negativa) o di neutralizzare il reo (prevenzione speciale negativa), implicherebbe... una strumentalizzazione dell'essere umano per contingenti obiettivi di politica criminale, contrastante con il principio personalistico affermato dall'art. 2 Cost.".

4. I principi generali sinora illustrati devono essere calati nel contesto della normativa in tema di stupefacenti, che ha subito nel tempo significativi mutamenti anche per quanto riguarda l'ipotesi disciplinata dall'art. 73, comma 5, che assume specifico rilievo in relazione al quesito sottoposto alle Sezioni Unite.

4.1. Con la legge 18 febbraio 1923, n. 396 recante "Provvedimenti per la repressione dell'abusivo commercio di sostanze velenose avente azione stupefacente" il legislatore inserì nell'ordinamento le disposizioni contenute nella Convenzione dell'Aja del 1912 (ratificata e posta in esecuzione dall'Italia con r.d. 9 febbraio 1922, n. 355). Poiché il bene giuridico tutelato era l'ordine sociale, non veniva sanzionato penalmente il mero uso di sostanze stupefacenti, e il consumatore di droga veniva sanzionato solo se avesse "preso parte 3 convegni in fumisterie". Il regolamento di esecuzione varato con il r.d. 11 aprile 1929, n. 1086 definì più specificamente le varie ipotesi concernenti il commercio abusivo, inscrivendo nell'area sanzionatoria, oltre alla vendita vera e propria, l'importazione, l'esportazione, la fabbricazione e la ricezione in transito di sostanze stupefacenti.

4.2. Nel 1930, alle disposizioni già vigenti in forza della legge n. 396 del 1923 ne vennero affiancate altre quattro, inserite nel Codice Rocco: l'art. 446 cod. pen. puniva il commercio clandestino o fraudolento di sostanze stupefacenti; l'art. 447 cod. pen. l'agevolazione dolosa dell'uso di stupefacenti; l'art. 729 cod. pen. l'abuso delle sostanze stupefacenti, qualora il consumatore fosse stato colto a partecipare "a convegni in fumisterie" o in luoghi pubblici o equiparati in stato di grave alterazione psichica cagionata dall'uso di sostanze stupefacenti; l'art. 730 cod. pen., infine, sanzionava la somministrazione a minori di anni sedici di sostanze droganti o velenose da parte di soggetti non autorizzati alla vendita o al commercio di medicinali. Gli aspetti non penali rimanevano regolati dal Testo Unico delle leggi sanitarie, approvato con r.d. 27 luglio 1934 n. 1265.

Vennero, quindi, emanati il r.D.L. 15 gennaio 1934, n. 151, convertito dalla legge 7 giugno 1934, n. 1145 (che abrogò la legge n. 396 del 1923, ma non il relativo regolamento del 1929) e il Testo Unico delle leggi sanitarie (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265), che regolò aspetti sottratti alla sanzione penale, per la quale, quindi restarono a regolare la materia le sopra indicate norme del codice penale.

4.3. Con la legge 22 ottobre 1954 n. 1041 vennero introdotte nuove figure di reato e la condotta del consumatore di droga venne equiparata a quella dello spacciatore. La normativa in questione prevedeva che sulla produzione, sul commercio e in relazione all'impiego delle sostanze e preparati ad azione stupefacente fosse esercitato un ampio ed approfondito controllo da parte dell'Alto Commissariato per l'igiene e la sanità (che sarebbe poi divenuto Ministero della sanità), oltre che a mezzo di un Ufficio centrale (che aveva per altro il compito di compilare ed aggiornare l'elenco delle sostanze stupefacenti previa pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) e degli organi periferici quali i prefetti, le capitanerie di porto e i comandi di aeroporto. Le diverse fattispecie ("l'acquisto, la vendita, la cessione, l'esportazione, l'importazione, il passaggio in transito, il procurare ad altri, l'impiego o comunque la detenzione di uno dei preparati inclusi nel suddetto elenco") venivano sanzionate ai sensi dell'articolo 6 senza distinzione tra qualità della sostanza e quantità della stessa.

4.4. Il legislatore rimise mano alla materia, con la legge 22 dicembre 1975, n. 685, connotata da maggiore organicità e completezza.

La nuova legge, superando la discussa equiparazione tra consumatore e spacciatore, dichiarò non punibile il consumatore o l'utilizzatore di droghe a fini terapeutici e non. L'art. 80 previde, infatti, che: "Non è punibile chi illecitamente acquista o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle prime quattro tabelle dell'articolo 12, allo scopo di farne uso personale terapeutico, purché la quantità delle sostanze non ecceda in modo apprezzabile le necessità della cura, in relazione alle particolari condizioni del soggetto. Del pari non è punibile chi illecitamente acquista o comunque detiene modiche quantità delle sostanze innanzi indicate per farne uso personale non terapeutico, o chi abbia a qualsiasi titolo detenuto le sostanze medesime di cui abbia fatto uso esclusivamente personale. Tuttavia, nel caso indicato dal primo comma, le quantità di sostanze eccedenti le immediate necessità curative debbono essere sequestrate e confiscate. Sono sempre soggette a sequestro ed a confisca le sostanze, nel caso indicato nel secondo comma".

Con specifico riguardo alle attività di traffico di sostanze stupefacenti l'intervento legislativo s'incentrò sugli artt. 71 e 72.

Il primo puniva "chiunque, senza autorizzazione, produce, fabbrica, estrae, offre, pone in vendita, distribuisce, acquista, cede o riceve a qualsiasi titolo, procura ad altri, trasporta, importa, esporta, passa in transito o illecitamente detiene, fuori delle ipotesi previste dagli articoli 72 e 80". Differenziava le sanzioni in base alle tabelle di classificazione delle sostanze stupefacenti (tabelle I e III dell'art. 12 per le c.d. droghe pesanti, tabella IV dell'art. 12 per quelle c.d. leggere). Il secondo e il terzo comma dell'art. 71 equiparavano le sanzioni per "chiunque, essendo munito dell'autorizzazione di cui all'articolo 15, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nel precedente comma" e "chiunque fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione".

L'articolo 72 prevedeva, a sua volta, un trattamento sanzionatorio meno severo, sempre differenziata tra "droghe pesanti" e "droghe leggere" nei confronti di: "Chiunque, fuori dalle ipotesi previste dall'articolo 80, senza autorizzazione o comunque illecitamente, detiene, trasporta, offre, acquista, pone in vendita, vende, distribuisce o cede, a qualsiasi titolo, anche gratuito, modiche quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope...".

4.5. L'indeterminatezza della nozione di modica quantità e i significativi spazi di discrezionalità attribuiti all'interprete motivarono l'ulteriore intervento normativo ad opera della legge 26 giugno 1990, n. 162 che apportò sensibili mutamenti alla legge n. 685 del 1975 e, preso atto della molteplicità delle fonti normative e animata dall'intento di delineare un assetto organico e coordinato della disciplina in materia di stupefacenti, previde la delega al Governo per l'elaborazione di un testo unico, compendiato nel D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

Nel nuovo testo unico le sostanze stupefacenti furono divise in quattro tabelle, previste agli artt. 13 e 14, che classificavano le c.d. droghe leggere (tabelle II e IV) e le c.d. droghe pesanti (tabelle I e III). Anche il regime sanzionatorio previsto era differente a seconda del tipo di droga: per le droghe c.d. pesanti erano prevista la reclusione da otto a venti anni e la multa da cinquanta a cinquecento milioni di lire; per le droghe c.d. leggere, invece, la reclusione era da due a sei anni e la multa da dieci a centocinquanta milioni di lire.

La più importante novità della novella legislativa del 1990 fu l'eliminazione della nozione di "modica quantità" e la sua sostituzione con quella di "dose media giornaliera" (art. 73), quale criterio distintivo tra le condotte penalmente rilevanti e quelle idonee ad integrare soltanto un illecito amministrativo (art. 75). La "dose media giornaliera" venne individuata in un quantitativo variabile a seconda della natura e della tipologia di sostanza stupefacente oggetto dell'attività criminosa.

Le condotte, in precedenza disciplinate dagli artt. 71 e 72, vennero ricomprese in un'unica disposizione (l'art. 73) che sanzionava "chiunque senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dagli articoli 75 e 76, sostanze stupefacenti o psicotrope". Il primo comma della citata disposizione prevedeva una sanzione maggiormente afflittiva per le c.d. droghe pesanti di cui alle tabelle I e III ed il quarto comma una più lieve per le c.d. droghe leggere di cui alle tabelle II e IV. Il quinto comma prevedeva una circostanza attenuante, comportante una pena ancora una volta differenziata in relazione alla diversa tipologia delle sostanze stupefacenti, quando "per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze" i fatti previsti fossero "di lieve entità".

Il concetto di dose media giornaliera fu, da subito, oggetto di vivaci critiche in sede dottrinaria, attesa la presunzione assoluta di detenzione ai fini di spaccio, in caso di superamento del limite tabellare.

Il criterio della dose media giornaliera, tuttavia, fu ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale che lo definì "utile strumento di contrasto al traffico illecito di stupefacenti, idoneo quantomeno a rallentarlo se non a paralizzarlo" (Corte cost. sent. n. 133 del 1992).

La disciplina introdotta nel 1990 fu oggetto di un referendum abrogativo di iniziativa popolare, i cui esiti furono recepiti con il successivo D.P.R. 5 giugno 1993, n. 71 che eliminò la nozione di "dose media giornaliera", rimettendo all'interprete la valutazione circa la destinazione all'uso personale oppure alla cessione a terzi del quantitativo di droga detenuto.

La giurisprudenza elaborò gli indici sintomatici alla cui stregua effettuare la valutazione prognostica della destinazione della sostanza alla cessione a terzi.

Sez. U, n. 4 del 28/05/1997, Iacolare, Rv. 208217-01, preso atto che, per effetto dell'esito referendario (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171), era caduta "qualsiasi limitazione quantitativa come distinzione tra l'ambito penale e quello amministrativo per le ipotesi di importazione, acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale" chiarirono che la valutazione prognostica della destinazione della sostanza, ogni qual volta la condotta non fosse correlabile al consumo in termini di immediatezza, dovesse essere effettuata dal giudice "tenendo conto di tutte le circostanze soggettive ed oggettive del fatto, cori apprezzamento di merito sindacabile in sede di legittimità solo in rapporto ai vizi di cui alla lett. e) dell'art. 606 cod. proc. pen".

Nell'affermare detto principio Sez. U. Iacolare precisarono che indici sintomatici della finalità di spaccio - da apprezzarsi parimenti sia nella detenzione individuale che in quella di gruppo - potevano essere rappresentati dalla quantità, qualità e composizione della sostanza, anche in relazione alle condizioni di reddito del detentore e del suo nucleo familiare, nonché dalla disponibilità da parte dell'agente di attrezzature per la pesatura o di mezzi per il confezionamento delle dosi.

4.6. Con il successivo D.L. 30 dicembre 2005 n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, che novellò gli artt. 73 e 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, vennero nuovamente ridefiniti gli elementi costitutivi del delitto di cui all'art. 73, inasprite le sanzioni relative alle condotte di produzione, traffico, detenzione illecita ed uso di sostanze stupefacenti e fu abolita la distinzione tra le c.d. droghe pesanti e le c.d. droghe leggere, equiparate quanto a trattamento sanzionatorio.

Tale equiparazione comportò un severo inasprimento ex lege per le condotte illecite aventi ad oggetto le c.d. droghe leggere, punite con la pena della reclusione ricompresa tra un minimo di sei anni ed un massimo di venti, oltre che con la multa da 26.000 a 260.000 euro; viceversa, le condotte aventi ad oggetto le c.d. droghe pesanti subirono un'attenuazione del trattamento sanzionatorio, passando da un minimo di otto anni ed un massimo di venti anni di reclusione, oltre la multa da 25.822 a 309.874 euro, ad una pena edittale minima di sei anni e massima di venti anni di reclusione, oltre la multa da 26.000 a 260.000 euro.

La legge n. 49 del 2006 introdusse la distinzione tra condotte la cui rilevanza penale prescindeva da ogni considerazione finalistica della condotta stessa (coltivazione, produzione, estrazione, fabbricazione, raffinazione, vendita, offerta, messa in vendita, cessione, distribuzione, commercializzazione, trasporto, procacciamento ad altri, invio, consegna, passaggio, spedizione in transito: art. 73, comma 1), e condotte c.d. neutre (in primis, la detenzione di stupefacente oltre un determinato quantitativo, parametrato ex lege al principio attivo), in cui il fatto veniva ritenuto penalmente rilevante solo se lo stupefacente non fosse destinato esclusivamente ad uso personale, e per le quali, necessitava la prova concreta della destinazione, almeno in parte, a terzi (art. 73, comma 1 -bis).

Con la nuova disciplina si assistette alla normativizzazione (art. 73, comma 1 lett. a)) dei criteri già in precedenza utilizzati dalla giurisprudenza per discernere le finalità illecite di una detenzione "destinata ad un uso non esclusivamente personale": la quantità della sostanza (con particolare riferimento al peso complessivo), le modalità di confezionamento della stessa e il frazionamento in dosi e tutte le circostanze dell'azione. Tra queste, pacificamente, venivano valutate anche quelle di natura soggettiva, quali, ad esempio, le condizioni economiche dell'imputato o la sua tossicodipendenza (cfr. ex multis Sez. 4 n. 22643 del 21/05/2008, Frazzitta, Rv. 240854-01; Sez. 6, n. 17899 del 29/01/2008, Cortucci, Rv. 23993201).

4.7. La riforma del 2006, con la discussa equiparazione in termini di sanzione tra ed. droghe pesanti e c.d. droghe leggere, sollevò unanimi critiche da gran parte della dottrina che la ritenne confliggente con il diritto dell'Unione europea. In particolare, se ne sottolineò la distonia con la Decisione Quadro 2004/757/GAI del Consiglio europeo del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, che suggeriva il rispetto della proporzionalità delle pene (art. 4) che comportava un trattamento sanzionatorio più severo solo per le condotte illecite aventi ad oggetto grandi quantitativi di stupefacenti o connotate dall'utilizzo di sostanze particolarmente dannose per la salute.

La legge n. 49 del 2006 venne dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale (sentenza n. 32 del 2014) che ritenne gli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49. in contrasto con l'art. 77, secondo comma, Cost., in quanto la nuova disciplina era stata introdotta nell'ambito di un provvedimento normativo riguardante la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi. Fu, quindi, ritenuta palese la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle citate nuove norme introdotte in sede di conversione. La Corte rilevò, infatti, che "nel caso di specie, l'unica previsione del decreto-legge alla quale potrebbero riferirsi le disposizioni impugnate introdotte dalla legge di conversione, è l'art. 4, che mira a impedire l'interruzione del programma di recupero di determinate categorie di tossicodipendenti recidivi". Evidenziò, tuttavia, che "l'art. 4 contiene norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l'interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza", mentre "non così 'e impugnate disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 4-vicies ter, introdotte dalla legge di conversione, le quali invece riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente... sono norme a connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano la disciplina dei reati in materia di stupefacenti". La conclusione fu, dunque, che si trattava "di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite".

La Corte costituzionale, in termini espliciti, indicò che, una volta dichiarata l'illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, tornava ad applicarsi la disciplina in materia di stupefacenti contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, non essendosi validamente verificato l'effetto abrogativo.

In tal modo si profilava, però, un inasprimento di pena per le c.d. droghe pesanti, in quanto la disposizione contenuta nella legge del 1990 prevedeva per tali fattispecie la reclusione da otto a venti anni (oltre la multa), mentre la disposizione contenuta nella legge del 2006 dichiarata incostituzionale) prevedeva la reclusione da sei a venti anni (oltre la multa).

La Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 32 del 2014, ribadì in proposito che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l'esame nel merito della normativa impugnata. Con riguardo agli effetti sui singoli imputati, evidenziò che spettava al giudice comune, quale interprete delle leggi, "impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale andasse a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l'applicazione della norma penale più favorevole al reo".

Con la successiva sentenza n. 40 del 2019, la Corte costituzionale dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 73, comma 1, T.U. stup. nella parte in cui in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni. Il giudice delle leggi osservò che era "rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi".

5. Per quello che rileva in questa sede, occorre, a questo punto, soffermarsi sul "fatto di lieve entità", introdotto, come detto, nell'ordinamento dal legislatore del 1990, all'art. 73, comma 5, T.U. stup., quale circostanza attenuante ad effetto speciale (Sez. U., n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 207917-01; Sez. 4 n. 4240 del 16/04/1997, Bettoschi, Rv. 207917-01).

Nella originaria formulazione (legge n. 162 del 1990) la norma prevedeva anche per i casi in cui "per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità o quantità delle sostanze" i fatti previsti dall'art. 73 T.U. stup. fossero "di lieve entità" una diversificazione di pena tra ed. droghe leggere e c.d. droghe pesanti, stabilendo la reclusione da uno a sei anni e la multa da cinque a centocinquanta milioni di Lire per le prime e da sei mesi a quattro anni e da due a venti milioni di Lire per le seconde.

Anche per il "fatto lieve" tale distinzione fu superata dal D.L. 30 dicembre 2005 n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 che previde un'unica sanzione, indipendente dal tipo di sostanze stupefacenti, da uno a sei anni di reclusione e da 3.000 a 26.000 Euro di multa.

L'articolo 73, comma 5, T.U. stup. fu trasformato in ipotesi autonoma di reato dall'art. 2 D.L. 24 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, che incise anche sui limiti edittali massimi (ridotti da sei a cinque anni di reclusione), lasciando inalterata sia la pena detentiva minima (un anno di reclusione) che quella pecuniaria.

Tale intervento normativo si rese necessario per adempiere all'obbligo - prescritto dalla sentenza della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiai e altri c. Italia - di adottare incisive riforme per ridurre la presenza, fra la popolazione carceraria, dei soggetti tossicodipendenti, assai spesso detenuti a seguito della commissione di reati in materia di stupefacenti di contenuta gravità e assicurare migliori condizioni di vita penitenziaria.

La natura di reato autonomo della fattispecie è desumibile: 1) dalla Relazione di accompagnamento alla legge di conversione, ove si legge che "a fronte di ipotesi di allarme sociale generalmente contenuto, quali, a titolo esemplificativo, quelle riconducibili al cosiddetto 'piccolo spaccio di strada', che, in base all'esperienza giudiziaria, nella maggior parte dei casi è praticato dagli stessi consumatori, si ritiene ragionevole e conforme al principio di proporzionalità della pena, prevedere una fattispecie di reato con una disciplina sanzionatoria autonoma rispetto alle ipotesi tipizzate nei primi quattro commi dell'art. 73 del Testo Unico"; 2) dalla rubrica dell'art. 2 del D.L. n. 146 del 2013 ("delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità"); 3) dalla clausola di riserva contenuta nel quinto comma, che, facendo riferimento ad un "più grave reato", presuppone che il fatto di lieve entità sia esso stesso un reato; 4) dalla tecnica di formulazione della norma, che, prevedendo un soggetto attivo ("chiunque") ed una condotta ("commette"), mutua il lessico proprio delle disposizioni autonomamente incriminatrici; 5) dall'intervenuta modifica, in sede di conversione del decreto legge, di alcune norme richiamanti quella novellata (ad esempio, l'art. 380, comma 2, lett. h), cod. proc. pen., nel quale l'inciso "salvo che ricorra la circostanza prevista dal comma 5 del medesimo articolo" è stato sostituito dall'inciso "salvo che per il caso dei delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo").

La giurisprudenza di questa Corte, sulla base degli argomenti in precedenza riassunti, ritiene pacificamente che, dopo la novella del 2013, l'art. 73, comma 5, T.U. stup. costituisca una figura autonoma di reato (cfr. ex multis Sez. 4, n. 36078

del 06/07/2017, Dubini, Rv. 270806-01; Sez. 4, n. 7363 del 09/01/2014, Fazio, Rv. 259280-01).

Come rilevano in motivazione Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01 la norma in argomento è divenuta fondamentale "strumento di 'riequilibrio' e 'riproporzionamento' del sistema sanzionatorio in materia di stupefacenti in relazione a casi concreti nei quali, per la complessiva non gravità della condotta, il principio di offensività verrebbe sostanzialmente 'tradito' applicando le più severe pene previste per le ipotesi diverse dal comma 5 dello stesso art. 73 T.U. stup.".

L'avvenuta trasformazione da circostanza attenuante ad ipotesi autonoma di reato non ha comportato alcun mutamento nei caratteri costitutivi del fatto di lieve entità, che continua ad essere configurabile nelle ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell'azione).

Sottraendo il fatto di lieve entità al giudizio di comparazione il legislatore ha voluto assicurare all'imputato che la cornice edittale di partenza, sulla quale operare aumenti e/o diminuzioni per aggravanti, attenuanti e riti speciali, sia sempre e comunque quella del quinto comma della norma incriminatrice, oltre che preservare la possibilità di ottenere - ricorrendone i presupposti - la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità.

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del marzo 2014, di poco successiva alla novella di cui alla legge n. 10 del 201-1, ci si era domandati se anche il "fatto lieve" di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup. potesse essere interessato dalla pronuncia del giudice delle leggi, in considerazione della sua sopravvenuta disomogeneità rispetto alle condotte previste nei commi precedenti: mentre, infatti, le prime si basano nuovamente sulla distinzione tra droghe c.d. leggere e droghe c.d. pesanti e prevedono un trattamento sanzionatorio fortemente differenziato sulla base di questo presupposto, il nuovo quinto comma ignora tale distinzione, uniformando il trattamento sanzionatorio per tutte le condotte.

La lettura delle motivazioni della sentenza n. 32 del 2014 ha consentito, tuttavia, di fugare ogni dubbio, imponendo di concludere per la sopravvivenza di tale disposizione. Secondo la Corte costituzionale, infatti, le norme successive alla legge n. 49 del 2006 destinate a cadere per effetto della dichiarazione di illegittimità sono solo quelle che siano "divenute prive del loro oggetto, in quanto rinviano a disposizioni caducate". E tale non è stato ritenuto il quinto comma, per il quale manca quel carattere di dipendenza dalla norma dichiarata incostituzionale, che il giudice delle leggi pone a base dell'effetto di "caducazione a cascata". Ciò viene affermato espressamente dalla Corte costituzionale, che nella sentenza n. 32 del 2014 argomenta che "gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto legge n. 146 del 2013... in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest'ultima".

Il D.L. 16 maggio 2014, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79 ha successivamente ridotto per l'art. 73, comma 5, T.U. stup. sia la pena detentiva (prevedendo una pena da sei mesi a quattro anni di reclusione) che quella pecuniaria (con una pena da 1.032 a 10.329 euro).

Il D.L. 15 settembre 2023, n. 123, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2023, n. 159, è intervenuto, infine, sulla pena detentiva edittale massima, ricondotta al medesimo livello (cinque anni di reclusione) già previsto dal D.L. n. 146 del 2013, ed ha aggiunto un periodo finale al testo della disposizione, che prevede un trattamento sanzionatorio più grave per le condotte "non occasionali".

Il testo attualmente vigente dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. è, pertanto, il seguente: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a cinque anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 10.329. Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da Euro 2.500 a Euro 10.329, quando la condotta assuma caratteri di non occasionalità".

Nessuna delle descritte novelle ha inciso sui presupposti applicativi dell'istituto, rimasti inalterati fin dalla originaria formulazione della norma: i parametri che l'art. 73, comma 5, T.U. stup. considera sintomatici di un'offesa attenuata agli interessi protetti dalla norma, ovvero la salute collettiva e l'ordine e la sicurezza pubblici, continuano, così, a riguardare, per un verso, l'oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze), e, per altro verso, l'azione, e dunque i mezzi, le modalità e le altre circostanze della stessa.

La scelta del reato autonomo si è palesata come irreversibile con il D.L. n. 123 del 2023, cit., che ha inteso ritagliare all'interno della fattispecie (autonoma) di lieve entità una fattispecie circostanziata di reato nel "fatto lieve non occasionale", in quanto, a fronte dell'identica descrizione del fatto, sostanzialmente operata per relationem, unico elemento circostanziale è appunto la non occasionalità della condotta (dei criteri adottati da giurisprudenza e dottrina per accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva di una fattispecie, quando essa non sia espressamente manifestata, danno conto Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi, Rv. 221663-01, sub par. 7 della motivazione).

Peraltro, secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi in epoca precedente la modifica del 2023, la non occasionalità non è ostativa alla qualificazione del fatto ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup., come desumibile anche - in presenza di tutti i presupposti - dalla previsione di cui all'art. 74, comma 6, T.U. stup. (si vedano la recente Sez. 6, n. 11896 del 20/2/2023, Bile, non mass.; Sez. 3, n. 14017 del 20/02/2018, Caltabiano, Rv. 272706-01 che ha affermato che il fatto di lieve entità non è in astratto incompatibile con lo svolgimento di attività di spaccio non occasionale e continuativa; Sez. 6, n. 46627 del 20/10/2016, Bare, non mass.; Sez. 3 n. 20410 del 27/03/2015, Marangione, non mass, che ha chiarito che la minima attività rudimentale sinonimo di una non occasionalità della condotta di spaccio o detenzione dello stupefacente non è di per sé ostativa ad una valutazione del fatto in termini di minima offensività).

Deve essere evidenziato che la previsione di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup. quale reato autonomo costituisce un unicum rispetto ad un sistema di diritto penale sostanziale in cui tutte le altre fattispecie di lieve entità del fatto (si pensi all'art. 648, comma 4, cod. pen. in materia di ricettazione; all'art. 5 legge 2 ottobre 1967, n. 895 in materia di armi; all'art. 609-bis comma 3 cod. pen. in tema di violenza sessuale; all'art. 311 cod. pen. in materia di delitti contro la personalità dello Stato; all'art. 323-bis cod. pen. in materia di reati contro la pubblica amministrazione) sono costruite come ipotesi circostanziali.

Con gli interventi susseguitisi a partire dal 2013 il legislatore ha creato una peculiare ipotesi di reato autonomo, che vive di elementi accessori circostanziali. Mentre il primo e il quarto comma dell'art. 73 hanno un nucleo comune attinente alla violazione più grave, il quinto comma della medesima disposizione individua una serie di elementi secondari e accidentali (qualità e quantità delle sostanze, mezzi, modalità, circostanze dell'azione) che, come osservato da una parte della dottrina, non definiscono normalmente la struttura del reato.

È stata, dunque, la trasformazione dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. da circostanza in ipotesi autonoma di reato a rendere necessaria ìa rielaborazione dei principi tradizionalmente affermati in materia di condotte concorsuali aventi ad oggetto sostanze stupefacenti. Prima di quel momento, si era ritenuto possibile riconoscere la circostanza attenuante del fatto lieve solo ad alcuni dei concorrenti nel medesimo reato, in applicazione del principio consolidato (cfr. Sez. 1, n. 10233 del 18/12/1987, dep. 1988, Berardi; Rv. 179471-01; Sez. 2, ordinanza n. 3866 del 29/11/1977, dep. 1978, Betti, Rv. 138014-01) in base al quale attenuanti e diminuenti possono avere riconoscimento differenziato tra coimputati a seconda della specifica posizione personale, senza determinare alcuna disparità di trattamento, spettando al giudice verificare la sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge e riconoscerle, in presenza dei relativi presupposti, in favore della persona che le invoca.

La nuova natura dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. ha, quindi, portato giurisprudenza e dottrina ad interrogarsi sulla possibilità che, in caso di realizzazione plurisoggettiva del delitto contemplato da tale norma, il fatto possa essere ritenuto "lieve" soltanto nei confronti di alcuni concorrenti.

6. La soluzione della questione controversa deve tenere conto dei caratteri strutturali dell'art. 73 T.U. stup. che disciplina ben ventidue diverse condotte, tra loro alternative, come univocamente sostenuto da dottrina e giurisprudenza, e come ribadito da Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01.

Non si tratta di una disposizione a più norme, in quanto, come affermato da Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, cit. "ognuno dei primi cinque commi contiene... una norma a più fattispecie, atteso che negli stessi vengono tipizzate modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato, come pacificamente riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude la configu-rabilità di una pluralità di reati nel caso di realizzazione da parte dello stesso agente, nel medesimo contesto e con riguardo allo stesso oggetto materiale, di più condotte tra quelle descritte dalle singole disposizioni".

Sez. U, Murolo, indipendentemente dalla realizzazione mono o plurisoggettiva, hanno, quindi, precisato che "non è dubbio che condotte consumate in contesti diversi - e che non abbiano ad oggetto il medesimo quantitativo di stupefacente o una sua partizione - realizzano fatti autonomi e che, qualora uno di essi possa essere qualificato di lieve entità, i reati rispettivamente integrati concorrono e, sussistendone i presupposti, possono essere unificati ai fini ed ai sensi dell'art. 81, secondo comma, cod. pen., anche a prescindere dalla omogeneità od eterogeneità delle sostanze che ne costituiscono l'oggetto". Hanno, altresì, chiarito che: "La consumazione in tempi diversi ma in unico contesto di più condotte tipiche (inevitabilmente diverse tra loro) in riferimento al medesimo oggetto materiale (inteso nella sua identità naturalistica) integra... un unico fatto di reato, atteso che... quelle contenute nei commi 1 e 4 dell'art. 73 T.U. stup. sono norme miste alternative. La loro eventuale convergenza con la disposizione del comma 5 sull'unico fatto configurabile determina poi un concorso apparente tra norme incriminatrici che, come pure si è già illustrato, deve essere risolto in favore di quest'ultimo qualora il fatto medesimo venga ritenuto di lieve entità".

Dunque, tenuto fermo il principio che in caso di realizzazione da parte dello stesso soggetto di più condotte tra quelle alternativamente delineate dall'art. 73 T.U. stup. prevale quella che contiene logicamente le altre, a diverse conclusioni si deve pervenire allorquando le diverse ed alternative condotte siano poste in essere da plurimi soggetti concorrenti.

Sul punto la giurisprudenza consolidata di questa Corte riconosce la possibilità di una diversa qualificazione giuridica delle condotte dei concorrenti: "Soccorre la natura di reato a più condotte tipiche in cui si sostanzia l'ipotesi delittuosa disciplinata dall'art. 73 T.U. stup., cosicché si può ritenere possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale. Solo in questo caso sarà possibile attribuire alle condotte poste in essere dai coimputati nell'ambito di un medesimo contesto una diversa qualificazione giuridica" (Sez. 4, n. 30233 del 07/07/2021, D'Agostino, Rv. 281836-01). E, nello stesso solco, Sez. 4, n. 6648 del 26/01/2022, Pintore, non mass., afferma che "è possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale". Conseguenzialmente, come afferma Sez. 4, n. 22212 del 03/03/2021, Comes, non mass, "la condotta del venditore, soggetto dotato di maggiori contatti e canali di approvvigionamento, il quale svolge professionalmente e reiteratamente la sua attività, può essere ritenuta più grave, mentre quella dell'acquirente, in quanto limitata a quantitativi singoli, più sporadica nel tempo e sganciata da stabili rapporti con i grandi canali di approvvigionamento della criminalità organizzata, può essere qualificata di minore gravità".

7. Il reale perimetro del contrasto concerne, invece, quelle ipotesi - come quella in esame - in cui la contestazione ponga a carico dei concorrenti, spesso in termini generici, la medesima condotta tipica. È il caso dei capi d'imputazione Al), A14) e U2) nei quali, agli imputati si contesta di avere, in concorso tra loro, rispettivamente detenuto un imprecisato quantitativo e tipo di stupefacente destinato allo spaccio al dettaglio (Al), ceduto del non meglio precisato stupefacente a P.P. (A14), ceduto 6,3 grammi lordi di cocaina a V.V. (U2).

A giudizio delle Sezioni Unite, in relazione al delitto di cui all'art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., il medesimo fatto ascritto a diversi imputati può essere contestualmente suscettibile di qualificazioni giuridiche diverse, quando, all'esito di una valutazione complessiva, emerga che le condotte di alcuni compartecipi esprimono un diverso grado di disvalore oggettivo e soggettivo. Dunque, quando il contributo fornito da uno dei coimputati si caratterizzi per mezzi, modalità e/o altre circostanze rivelatore di un più tenue livello di offesa ai beni giuridici protetti, per lui solo potrà intervenire la derubricazione del fatto nell'ipotesi lieve di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup.

Tale conclusione non mette in discussione la persistente validità, in termini sistematici generali, della concezione unitaria del reato concorsuale, in quanto le norme di cui al primo e al quarto comma, da un lato, e quella di cui al quinto comma dell'art. 73, dall'altro, si pongono tra loro in rapporto di specialità ai sensi dell'art. 15 cod. pen., nel senso che le prime due hanno carattere di norma generale e la terza di norma speciale.

La norma speciale è concordemente individuata in "quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale" (Sez. U, n. 22225 del 19/01/2012, Micheli, Rv. 252453-05; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 24886401).

Tuttavia, nel tempo la giurisprudenza di questa Corte ha differenziato i criteri alla cui stregua effettuare la preliminare operazione di raffronto tra le norme onde ricavare, o meno, appunto, la "ricomprensione" dell'una nell'altra. In alcune iniziali pronunce si è fatto riferimento alla necessità di guardare alla identità del bene giuridico tutelato (Sez. U, n. 9568 del 21/04/1995, La Spina, Rv. 202011-01), mentre successivamente si è affermata la necessità di avere riguardo al confronto tra le fattispecie astratte.

Secondo gli approdi da considerare ormai stabilizzati e reiteratamente espressi dalle Sezioni Unite, il criterio di specialità è da intendersi in senso logico formale: il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizione prevalente, può ritenersi integrato "solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse" (Sez. U. n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668-01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano; Sez. 5, n. 2121 del 17/11/2023, Sioli, Rv. 285843-01; Sez. 1, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, Rv. 284504-01).

Anche la Corte costituzionale, in più occasioni, ha affermato la natura strutturale del principio di specialità ex art. 15 cod. pen., che implica la "convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una soia è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse", dovendosi confrontare "le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico" (Corte cost., sent. n. 97 del 1987). I giudici delle leggi hanno poi aggiunto che "per aversi rapporto di specialità

ex art. 15 cod. pen. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all'altra" (Corte cost., ord. n. 174 del 1994).

La giurisprudenza di questa Corte ha altresì stabilito che l'art. 15 cod. pen. si riferisce alla sola "specialità unilaterale", giacché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la "specialità reciproca" o "bilaterale", non evidenziano alcun rapporto di genus a speciem (tra le tante, Sez. 4, n. 21522 del 02/03/2021, Bossi, non mass, sul punto; Sez. 5, n. 27949 del 18/09/2020, Di Gisi, non mass, sul punto; Sez. 4, n. 29920 del 17/01/2019, Padricelli, Rv. 276583-01, tutte ricollegabili al dictum di Sez. U, n. 41588 del 22/06/ 2017, La Marca, non mass, sul punto). Ha, poi, sottolineato la eccentricità dei criteri di "sussidiarietà", "assorbimento" e "consunzione", suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti, e la loro estraneità all'unico criterio legale previsto, ovvero quello di specialità positivizzato dall'art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, cit., non. mass, sul punto; Sez. 1, n. 12340 del 15/11/ 2022, dep. 2023, Baldassarre, cit.). Sez. U. n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, cit. hanno espresso in proposito il condivisibile principio secondo cui: "Nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri diversi da quelli stabiliti all'art. 15 cod. pen., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra norme, effettuata dal legislatore".

In applicazione di tali principi, l'art. 73, comma 5, T.U. stup. è, dunque, da ritenersi norma speciale, in quanto contiene, da un lato, tutti gli elementi costitutivi dell'art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., che hanno valenza di norme generali, e presenta, dall'altro, quali requisiti propri e caratteristici, con funzione specializzante, i "mezzi, modalità o circostanze dell'azione" ovvero la "qualità e quantità delle sostanze", che portano a ritenere il fatto di lieve entità.

Non osta a tale ricostruzione la clausola di riserva iniziale del comma 5 ("salvo che il fatto costituisca più grave reato"), che sembrerebbe configurare un'ipotesi sussidiaria e sovvertire il criterio della prevalenza della fattispecie unilateralmente speciale. In proposito, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, cit., hanno evidenziato come un'interpretazione in tal senso apparirebbe irragionevole ed incompatibile con la volontà del legislatore e con la stessa scelta di trasformare la fattispecie da circostanza attenuante in reato autonomo. Hanno, poi, significativamente chiarito che, al fine di rispettare la chiara intenzione del legislatore, deve ritenersi che la clausola di riserva espressa sia stata introdotta "per disciplinare l'eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell'art. 73 T.U. stup., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie" (così in motivazione, a pag. 11).

Va, inoltre, significativamente sottolineato che proprio tale ultima affermazione, pur resa in un contesto che non richiedeva in que! momento alcuna analisi della questione oggi all'esame delle Sezioni Unite, già prefigurava nella specialità il rapporto intercorrente tra le fattispecie dei commi primo e quarto, da un lato, e la fattispecie del quinto comma, dall'altro.

Dunque, qualora il medesimo fatto, contestato a diversi imputati in concorso tra loro, contenga elementi tali da fare ritenere integrata solo per taluni la fattispecie di cui all'art. 73 comma 5, T.U. stup. e per altri quella di cui all'art. 73, comma 1, T.U. stup., si versa al di fuori di un'ipotesi di concorso nel medesimo reato, essendosi in presenza di due reati diversi legati tra loro da un rapporto di specialità nei termini appena ricordati.

Deve aggiungersi come, in prospettiva, una tale configurazione del rapporto tra dette fattispecie possa anche riverberarsi sulla stessa formulazione dei capi d'imputazione, laddove, a fronte dei presupposti fattuali, sia già possibile distinguere, in nuce, tra le condotte dei "concorrenti", quelle connotate da lieve entità.

8. Tale conclusione si presenta coerente tanto con la ratio che ha ispirato il legislatore nel 2013 che con il quadro costituzionale di riferimento.

Ed invero, ai fini di una corretta ermeneusi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup., costituzionalmente orientata, si deve tenere conto, primariamente, delle ragioni che hanno indotto il legislatore del 2013 a trasformare la norma in ipotesi di reato autonomo. In primis, sussisteva la ricordata necessità - per evitare possibili censure sotto il profilo della compatibilità con i principi della personalità della responsabilità penale o della proporzionalità della pena - di sottrarne l'applicazione al giudizio di comparazione tra circostanze. A fronte, infatti, di prevalenza o equivalenza di concorrenti circostanze aggravanti o della recidiva, un imputato resosi responsabile di fatti di lieve entità sarebbe stato assoggettato alle più severe pene previste per il primo o per il quarto comma. In secondo luogo, si poneva l'esigenza di recuperare in prospettiva costituzionale la personale imputabilità all'agente di comportamenti realmente espressivi di un suo atto di determinazione.

La possibilità o meno per taluno dei concorrenti di vedere ricondotta la propria azione delittuosa alla previsione di cui all'art. 73 comma 5 T.U. stup., piuttosto che a quelle di cui all'art. 73, commi 1 e 4, del medesimo T.U., deve discendere, in altri termini, da comportamenti a lui direttamente riconducibili e al coefficiente psicologico rispetto alla fattispecie criminosa posta in essere.

Proprio in considerazione del fatto che la norma del comma 5 dell'art. 73 è speciale, il giudice, nell'ambito della valutazione complessiva della condotta e selezionando tutti gli indicatori previsti da tale disposizione (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01) deve considerare gli elementi che "accomunano" il singolo agli altri correi e, contestualmente, quelli solo a lui strettamente pertinenti che, nella struttura della norma speciale, esprimono il necessario quid pluris rispetto alla norma generale.

9. Occorre, allora, verificare, in concreto, quali tra gli elementi tipici specializzanti presenti nella fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup., pur nel contesto della valutazione complessiva richiesta da Sez. U. Murolo, possono essere valutati in senso diversificato per i concorrenti nel medesimo fatto.

Non paiono valorizzabili in tal senso "quantità e qualità delle sostanze", cui si riferisce la norma, di regola uguali per tutti i concorrenti (se fossero diversificate si avrebbero già, ab origine, come detto sopra, singoli e diversi reati ascrivibili a ciascuno).

Vengono in rilievo, invece, "mezzi, modalità e circostanze dell'azione", aspetti per i quali, tuttavia, s'impone una chiarificazione della portata applicativa.

Con riguardo alle circostanze dell'azione, va ricordato che Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, cit., hanno ricompreso tra le "circostanze dell'azione" anche le "circostanze soggettive tutte". Tale principio, pur se affermato in un momento in cui la norma del quinto comma era ancora di previsione circostanziale, mantiene intatta la sua validità, attesa, come visto, la invariata struttura morfologica della fattispecie al di là del nomen iuris ad essa oggi attribuibi e per effetto della riforma del 2013.

Sotto tale profilo la Corte ha, del resto, nel tempo affermato che potranno essere valorizzate le finalità dell'attività delittuosa (si pensi al caso di una cessione occasionale), ovvero lo stato di tossicodipendenza del reo (che è, naturalmente, onere dell'imputato provare: come recentemente ribadito da Sez. 3, n. 23082 del 22/02/2022, Radicchi, Rv. 283235-01), che si ponga in "rapporto diretto" con la condotta, come quando, ad esempio, si accerti che l'imputato ha svolto una piccola attività di spaccio al fine di destinarne i proventi "all'acquisto di droga per uso personale" (Sez. 3, n. 32695 del 27/03/2015, Genco, Rv. 264490-01). Al contrario, l'aspetto relativo alla tossicodipendenza non dovrebbe assumere pregnante rilievo in presenza di sistematiche cessioni operate in favore di un indiscriminato novero di acquirenti (Sez. 3, n. 16028 del 15/02/2018, Huillca, non mass., secondo cui "lo stato di tossicodipendente può rilevare sole se si accerti che lo spaccio non ha dimensioni ragguardevoli, sì da fare apparire verosimile che l'imputato ne destini i proventi all'acquisto di droga per uso personale"; Sez. 6, n. 44697 del 08/10/2013, Rizza, non mass.).

Sono stati, invece, ritenuti del tutto irrilevanti e non valorizzabili l'eventuale comportamento collaborativo serbato post delictum (Sez. 6, n. 3616 del 15/11/2018, dep. 2019, Capurso, Rv. 275044-01) ed i precedenti penali dell'imputato, che, a rigore, non afferiscono all'azione la cui "lievità" si intende apprezzare (Sez. 3, n. 13120 del 06/02/2020, Ilardi, Rv. 279233-01), a meno che non si evidenzi un collegamento oggettivo tra i fatti criminosi per i quali la persona è già stata condannata con sentenza irrevocabile e quelli oggetto del nuovo giudizio.

Potrà e dovrà essere valutato, come avvenuto nel presente processo per la posizione di B.B., se l'attività di spaccio sia stata svolta in un contesto di tipo organizzato.

A diverse conclusioni, come motivatamente avvenuto nel processo che ci occupa per i coimputati di B.B., A.A. e C.C., si dovrà e si potrà pervenire in relazione a quei soggetti che, pur consapevoli della natura organizzata dell'attività delittuosa, non abbiano fatto parte dell'associazione ex art. 74 T.U. stup., tenuto anche conto del numero di volte in cui ciascun imputato ha partecipato a tali condotte.

10. In risposta al quesito rivolto alle Sezioni Unite va dunque affermato il principio di diritto per cui: "In tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti il medesimo fatto storico può configurare, in presenza dei diversi presupposti, nei confronti di un concorrente, il reato di cui all'art. 73, comma 1 ovvero comma 4, del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 e nei confronti di altro concorrente il reato di cui all'art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R.".

11. Va evidenziato che la risposta al quesito sottoposto al Collegio finisce per influire unicamente in relazione alla posizione dell'imputato B.B. ed al solo reato di cui al capo U2), per il quale lo stesso aveva eccepito sin dall'atto di appello una disparità di trattamento rispetto ai due coimputati X.X. e Y.Y. che, partecipi nella stessa condotta indicata nell'editto accusatorio ("in concorso tra loro, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 del medesimo testo normativo, cedevano gr. 6,3 lordi di cocaina a V.V."), erano stati, invece, prosciolti per intervenuta prescrizione già in primo grado all'esito della diversa qualificazione giuridica della condotta in quella di cui all'art. 73, comma 5 T.U. stup. Per B.B., invece, come si legge a pag. 489 della sentenza di primo grado e a pag. 141 di quella impugnata, i medesimi fatti sono stati qualificati ai sensi dell'art. 73, comma 1, T.U. stup., quindi non sono stati ritenuti prescritti.

B.B. invoca la medesima disparità di trattamento anche per il reato sub V2), ma si tratta di una doglianza del tutto infondata in quelito l'imputazione in questione ("perché cedeva gr. 6 circa di cocaina a V.V., per il tramite di tale W.W. non identificato") è ascritta soltanto a lui. Si tratta, infatti, di un reato commesso nel medesimo giorno rispetto a quello sub U2), ma del tutto distinto, ontologicamente e cronologicamente, da quello. Ed invero, come ricostruito concordemente dai giudici di merito, in data 1 febbraio 2013, dopo che l'acquirente V.V. era stato controllato dalle forze dell'ordine, lo stesso aveva nuovamente contattato B.B. per poterlo incontrare un'altra volta e procedere all'acquisto di un quantitativo di stupefacente pari a quello poco prima sequestratogli.

Quanto ai ricorrenti A.A. e C.C. il Collegio ha ritenuto di separarne le posizioni per l'analoga situazione registratasi, per entrambi, in relazione ai reati di cui ai capi Al) e A14) che pongono la medesima questione di diritto oggetto di esame da parte delle Sezioni Unite.

Per il primo reato, contestato ai due ricorrenti in concorso con E.E. ("perché, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 e fuori dall'ipotesi dell'art. 75 del citato D.P.R., in concorso tra loro detenevano un imprecisato quantitativo di stupefacente destinato allo spaccio al dettaglio"), la riqualificazione ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. è intervenuta solo per quest'ultima, sul rilievo dell'"uni-cità dell'episodio di spaccio al dettaglio" (pag. 199). Per il secondo reato, contestato a A.A. e a C.C. in concorso con F.F. ("in concorso tra loro cedevano dello stupefacente a P.P."), la fattispecie è stata riqualificata solo per quest'ultima ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. sin dal giudizio di primo grado (pag. 628).

La sentenza impugnata, diversamente che per il B.B., non ha tuttavia affrontato il tema della disparità di trattamento rispetto a F.F., in quanto devoluto con i motivi di appello né dalla difesa di A.A. e nemmeno da quella di C.C. (cfr. gli atti di appello del 6/10/2021 a firma dell'Avv. Cesare Placanica per A.A. e del 6/10/2021 a firma dell'Avv. Giuseppe Maria Moliterni per B.B.).

Peraltro, le difese dei due ricorrenti sopra indicati nemmeno hanno posto tale questione con gli odierni ricorsi per il capo Al) con riferimento alla diversità di trattamento tra i loro assistiti e E.E., la cui condotta è stata oggetto di rivalutazione ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. da parte del giudice di appello.

Pertanto, per A.A. e C.C., va scrutinata la sola congruità della risposta in motivazione circa il tema - quello sì coltivato in tutte le impugnazioni - della mancata qualificazione dei fatti ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup., ma non circa la disparità di trattamento con le coimputate F.F. e E.E.

11.1. Ebbene, in ragione delle sopra esposte considerazioni, è infondato il secondo motivo posto dall'imputato B.B. in relazione alla disparità di trattamento rispetto ai coimputati X.X. e Y.Y. quanto al reato sub U2).

Il diniego dell'ipotesi attenuata è stato, infatti, correttamente motivato secondo i principi sopra ricordati affermati da Sez. U, Muralo, in quanto i giudici di merito hanno ricostruito le condotte dei singoli concorrenti ritenendo che, esaminato il contesto complessivo nel quale esse si collocano, nonché il grado di offensività concreta da esse apprezzabile, le stesse rivelassero in capo a B.B., da un lato, e a X.X. e Y.Y., dall'altro, inequivoci caratteri differenziali. Ciò in quanto per B.B. l'episodio di spaccio sub U2) costituisce un'ulteriore manifestazione della sua perdurante e continua attività di smercio di stupefacente per conto dell'associazione, anche alla luce della ripetizione e pervicacia manifestata con l'episodio di cui al capo V2). Un diverso ragionamento è stato, invece, effettuato per i correi X.X. e Y.Y., per i quali i giudici di merito, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, hanno ritenuto la sussistenza dell'unico reato di cui all'imputazione, qualificato ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup, sulla base delle intercettazioni e dei servizi di osservazione evidenzianti un ruolo di meri spacciatori al dettaglio. La riqualificazione, tenuto conto dell'epoca di commissione del fatto, ha comportato sin dal primo grado la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

12. Infondati sono anche il settimo motivo di ricorso proposto nell'interesse di A.A. (che ripropone il quinto, l'ottavo e il decimo motivo di appello) relativo al mancato riconoscimento dell'ipotesi lieve di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup. relativamente ai reati di cui ai capi H3), Al), A6) e A14) e il secondo motivo di ricorso nell'interesse di C.C. che, come già fatto con il terzo motivo di appello, lamenta analogo diniego per i reati di cui ai capi da Al) ad A15).

Per entrambi gli imputati, con motivazione logica e congrua, oltre che corretta in punto di diritto, i giudici di appello (pag. 168 per A.A. e pag. 198 per C.C.) rilevano che i fatti, seppur aventi ad oggetto quantità non ingenti di sostanza stupefacente, non possono essere qualificati ai sensi del dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. come fatti di lieve entità.

In particolare, per il primo ritengono che vada esclusa l'ipotesi lieve in ragione dell'"evidente intraneità di A.A. al gruppo associativo nel quale svolge la importante funzione del coordinamento del settore dell'attività di spaccio", delle plurime compartecipazioni accertate a carico dell'imputato (capo H3) nel periodo della prima indagine, e capi Al), A6), A14) nel periodo della seconda indagine), del dato quali-quantitativo (capo H3) riguardando il sequestro di 31,5 grammi di cocaina), della circostanza che si tratta di fatti riconducibili ad un gruppo associativo e comunque "ascrivibili ad un livello mediamente organizzato" da parte di un soggetto "in contatto con fornitori di primo livello capaci di assicurare una costante fornitura di quantitativi rilevanti di droga pesante".

Per entrambi gli imputati si sottolinea come, dell'esame delle conversazioni intercettate nell'anno 2013, vengono in rilievo - con riferimento ai vari episodi coinvolgenti i diversi sodali - l'intensità del traffico di droga, la sussistenza di una organizzazione criminale, la numerosa clientela ed anche, in determinati periodi, l'entità degli incassi. Anche con riferimento ai fatti del 2018, la sentenza impugnata osserva che dalle intercettazioni emergono chiaramente l'intensità del traffico di droga (eloquente in tal senso è stata ritenuta la circostanza che C.C. avesse rivelato a D.D. di non riuscire a soddisfare tutte le richieste e di trovarsi in forte difficoltà nel dovere, di volta in volta, provvedere a custodire lo stupefacente in luogo sicuro per poi prelevarlo in vista dello smercio, tanto da ricevere assicurazione dal A.A. della messa a disposizione di un collaboratore), la sussistenza di comprovate complicità (A.A., C.C., F.F. e E.E.), la disponibilità di copertura criminale da parte di D.D., la vastità del mercato degli acquirenti e la rilevanza degli incassi.

Le vicende illecite - secondo la logica conclusione dei giudici di appello - restituiscono un quadro nel quale C.C., coordinato da A.A., si occupava dello spaccio da strada nell'ambito di una vera e propria piazza di spaccio nella borgata romana di (Omissis). In particolare, quanto all'intensità dei traffici, a pag. 197 la Corte territoriale ricorda che a C.C. vengono imputati dodici fatti di reato ex art. 73 T.U. stup. in un arco di quattro mesi e, quanto alle modalità degli stessi, viene sottolineata la disponibilità del deposito dello stupefacente.

Sul punto la Corte territoriale richiama e fa corretta applicazione dei precedenti giurisprudenziali che hanno sottolineato come sia legittima la mancata qualificazione ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. allorché le cessioni costituiscano "manifestazione effettiva di una più ampia e comprovata capacità dell'autore di diffondere in modo non episodico, né occasionale, sostanza stupefacente, non potendo la valutazione della offensività della condotta essere ancorata al solo dato statico della quantità volta per volta ceduta, ma dovendo essere frutto di un giudizio più ampio che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva" (il riferimento è alle sentenze e Sez. 4, n. 40720 del 26/04/2017, Nafia, Rv. 270767-01 e Sez. 3, n. 6871 del 08/07/2016, dep. 2017, Bandera, Rv. 269149-01).

13. Venendo ora all'esame degli ulteriori motivi proposti dai ricorrenti, non attinenti all'art. 73, comma 5, T.U. stup., il Collegio osserva che gli stessi appaiono manifestamente infondati in quanto sollecitano una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità oppure propongono censure alla motivazione del provvedimento impugnato che non trovano riscontro. L'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità.

Inoltre, i giudici di secondo grado hanno pronunciato una sentenza conforme ai consolidati orientamenti di legittimità in materia di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti ex art. 74 T.U. stup. e di riconoscimento o meno delle fattispecie meno gravi di cui all'art. 74, comma 6, e all'art. 73, comma 5, del medesimo T.U., pervenendo alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e, perciò, insindacabili in sede di legittimità.

13.1. Quanto all'esistenza del sodalizio criminoso (Ji cui al capo F2), capeggiato da D.D., di cui al primo motivo di ricorso di A.A. e B.B., meramente ripropositivi dei rispettivi motivi di appello sul punto, alle pagg. 113 ss., i giudici del gravame del merto danno conto delle acquisizioni probatorie e a pagg. 114, in particolare, delle conversazioni intercettate dopo l'arresto di Q.Q. A pag. 116 della sentenza impugnata si delineano le gerarchie del gruppo, su cui già il primo giudice si era ampiamente soffermato, e si dà conto dei servizi di osservazione e pedinamento effettuati.

Tale compendio probatorio - secondo la concorde valutazione dei giudici di merito - consente di provare l'esistenza di un gruppo associativo finalizzato allo spaccio di sostanze stupefacenti articolato in due sottogruppi (le c.d. "batterie"), nonché di individuare la piazza dedicata allo spaccio e la base operativa nel "bar (Omissis)".

La sentenza impugnata evidenzia come, a delineare il contesto associativo, ed in particolare il settore facente capo al I.I., siano state decisive le conversazioni successive all'arresto di Q.Q., soggetto deputato alla custodia dello stupefacente.

Il provvedimento della Corte territoriale fa buon governo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità circa gli elementi che caratterizzano l'associazione di cui all'art. 74 T.U. stup., per la configurabilità della quale non è richiesta la presenza di una complessa ed articolata organizzazione, dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l'esistenza di una struttura, anche rudimentale, desumibile dalla predisposizione di mezzi e dalla suddivisione dei ruoli, per il perseguimento del fine comune, idonea a costituire un supporto stabile e duraturo alla realizzazione delle singole attività delittuose (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 19146 del 20/02/2019, Di Pisa, Rv. 275583 - 01; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258165 - 01; Sez. 1, n. 30463 del 07/07/2011, Cali, Rv. 251011-01; Sez. 1, n. 4967 del 22/12/2009, dep. 2010, Galioto, Rv. 246112-01). In proposito Sez. 6, n. 2394 del 12/10/2021, dep. 2022, Napoli Rv. 282677-01 ha precisato che l'assenza di una c.d. "cassa comune" non è ostativa al riconoscimento dell'associazione, essendo sufficiente, anche nell'ipotesi di una gestione degli utili non paritaria né condivisa tra i vari sodali, che tra questi sussista un comune e durevole interesse ad immettere nel mercato sostanza stupefacente, nella consapevolezza della dimensione collettiva dell'attività e dell'esistenza di una sia pur minima organizzazione. Non è neppure necessaria l'esistenza di una struttura gerarchica con specifici ruoli direttivi e la dotazione di disponibilità finanziarie e strumentali per un'estesa attività di commercio di stupefacenti, ma è sufficiente anche un'elementare predisposizione di mezzi, sempre che gli stessi siano in concreto idonei a realizzare in modo permanente il programma delinquenziale oggetto del vincolo associativo (Sez. 3, n. 9457 del 06/11/2015, dep. 2016, Salvatori, Rv. 266286-01; Sez. 6, n. 25454 del 13/02/2009, Mammoliti e altri, Rv. 244520).

L'elemento aggiuntivo e distintivo del reato associativo rispetto alla contigua fattispecie del concorso di persone nel reato continuato (di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti) è stato correttamente ravvisato nel carattere dell'accordo criminoso che contempla la commissione di una serie non previamente determinata di delitti, con permanenza del vincolo associativo tra i partecipanti che, anche al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmati, assicurano la propria disponibilità duratura e indefinita nel tempo al perseguimento del programma criminoso proprio del sodalizio (in tal senso ex multis Sez. 6, n. 28252 del 06/04/2017, Di Palma, Rv. 270564-01; Sez. 4, n. 51716 del 16/10/2013, Amodio, Rv. 257906-01; Sez. 5, n. 42635 del 04/10/2004, Collodo ed altri, Rv. 229906-01).

Ai fini della configurabilità di un'associazione finalizzata al narcotraffico, è dunque necessario che: a) almeno tre persone siano tra loro vincolate da un patto associativo (sorto anche in modo informale e non contestuale) avente ad oggetto un programma criminoso nel settore degli stupefacenti, da realizzare attraverso il coordinamento degli apporti personali; b) il sodalizio abbia a disposizione, con sufficiente stabilità, risorse umane e materiali adeguate per l'attuazione del programma associativo; c) ciascun associato sia a conoscenza, quanto meno, dei tratti essenziali del sodalizio, e si metta stabilmente a disposizione di quest'ultimo (in tali termini, ex multis, Sez. 4, n. 39022 del 28/09/2022, Castoro, non mass.; Sez. 4, n. 34754 del 20/11/2020, Abbate, Rv. 280244-02, non mass, sul punto Sez. 6, n. 7387 del 03/12/2013 dep. 2014, Y.Y., Rv. 258796-01).

Le argomentazioni spese sul punto dalla Corte territoriale sono complete, non contraddittorie né manifestamente illogiche, conformi ai principi di diritto illustrati e, pertanto, idonee a resistere ai rilievi dei ricorrenti.

Dai colloqui intercorsi tra gli associati, soprattutto successivamente agli arresti, dalle testimonianze e dalle immagini videoregistrate, dalla ripetitività degli episodi criminosi di cui si dà conto alle pagg. 113 ss. la Corte territoriale desume coerentemente la sussistenza di una struttura organizzata, con una serie di sodali costantemente a disposizione del gruppo associativo, con una capacità di rifornimento continuo della piazza di spaccio, avendo a disposizione le necessarie risorse umane e materiali.

13.2. Manifestamente infondati sono i motivi di ricorso (rispettivamente il secondo ed il primo) afferenti alla partecipazione degli odierni ricorrenti A.A. e B.B. al sodalizio criminoso di cui al capo F2).

Quanto a A.A., si tratta di un motivo meramente propositivo del secondo motivo di appello, che non si confronta con la sentenza impugnata, che alle pagg. 117-118, dà conto della continuità della sua gestione dell'attività di spaccio, che emerge anche dalle intercettazioni eseguite nell'anno 2018, in relazione in quel caso all'attività di cessione al dettaglio operata da C.C.

In sentenza si dà conto, come aveva già fatto il giudice di primo grado, della sua costante presenza nel "bar (Omissis)" e della sua partecipazione a numerosi reati-fine. Si ricorda che nelle intercettazioni, quando i sodali si riferiscono a D.D. e A.A. parlano con rispetto degli "zii", di cui A.A. è quello "più giovane" e D.D. è quello "più vecchio".

Il compendio probatorio delinea, secondo la concorde valutazione dei giudici del merito, una gerarchia dell'organizzazione in cui A.A. rappresentava il coordinatore dell'intera attività di spaccio, secondo solo a D.D., e si avvaleva dell'opera di L.L., soprannominato "il roscio", che coordinava due sottosezioni da strada (le c.d. "batterie": quella gestita da I.I. e quella gestita dai fratelli B.B. ed J.J.).

La Corte territoriale evidenzia che A.A. era gerarchicamente sovraordinato rispetto a L.L. ma, pur svolgendo un'attività di coordinamento, non si sottraeva, quando lo riteneva necessario, a forma di intervento diretto "su strada".

Come si ricorda a pag. 125 del provvedimento impugnato, a sottolineare la piena intraneità al gruppo di A.A., dalle intercettazioni ne emergono i continui interventi a coordinare l'attività criminosa degli uomini più direttamente "sul campo", come quando rimprovera a M.M. la poca accortezza e prudenza nella gestione dei nascondigli.

Sul ruolo di A.A. nell'ambito del sodalizio criminoso, peraltro, in ragione di quanto emerso dalle intercettazioni anche di un'utenza cellulare a lui intestata, si era peraltro ampiamente spesa, alle pagg. 522 ss., la motivazione del giudice di primo grado, che, trattandosi di doppia conforme affermazione di responsabilità, va a saldarsi con quella del provvedimento impugnato. In quella era stato anche sottolineato come il legame familiare con D.D. conferiva a A.A. una grande autorevolezza nei confronti degli altri associati, che, come emerso dalle intercettazioni, da lui ricevevano direttive di comando.

Quanto a B.B., la sentenza impugnata dà conto, alle pagg. 113 ss., nel delineare la struttura complessiva dell'associazione di cui al capo F2), del suo importante ruolo di collaborazione con il fratello J.J. nel dirigere ed organizzare lo spaccio al dettaglio operato di uno dei due sottogruppi (le c.d. "batterie"). È stato evidenziato come, a sua volta, sia emerso che B.B. talvolta era supportato da altri soggetti, da parte di alcuni stabilmente (la compagna R.R.) e da altri saltuariamente (T.T. e S.S., i quali, proprio in ragione della occasionalità del loro contributo, non sono stati ritenuti intranei all'associazione).

Anche per B.B. già il giudice di primo grado, con una motivazione logica e corretta in punto di diritto che va legittimamente a saldarsi con quella del provvedimento impugnato e con la quale il ricorrente non pare confrontarsi, aveva alle pagg. 473 ss. dato conto delle emergenze delle captazioni ambientali sulle autovetture sua e del fratello, che ne delineavano il ruolo di cogestore dello spaccio. Dalle emergenze istruttorie di cui danno concordemente atto i giudici del merito è emerso che B.B. e il fratello J.J. facevano entrambi riferimento, a loro volta, a L.L., uomo di D.D.. Già il giudice di primo grado aveva, inoltre, ricordato la vicenda relativa ai capi X2) e Y2), che aveva avuto origine con l'arresto di R.R., e come le intercettazioni e quanto osservato dagli operanti avessero consentito di appurare l'esistenza di una "batteria" di spacciatori che per stabilità di relazioni, presenza sui luoghi nevralgici dello spaccio di (Omissis), frequenza dei reati-fine commessi e palesata consapevolezza reciproca dei ruoli e delle finalità dell'organizzazione, apparivano in essa pienamente inseriti.

Nello stesso solco, a fronte di emergenze in fatto non contestate in sede di impugnazione nel merito, la sentenza impugnata, al fine di illustrare l'intraneità di B.B. al sodalizio criminoso, ha posto in rilievo i servizi di osservazione e pedinamento che hanno consentito di ricostruire, tra gli altri, i suoi movimenti e i frequenti incontri con L.L., che, come detto, era colui che sovrintendeva alle due "batterie" e che si rapportava a A.A. e D.D.

La sentenza impugnata, come già il giudice di primo grado, ricorda poi come le emergenze delle intercettazioni e delle videoregistrazioni abbiano trovato riscontro nei sequestri di sostanze stupefacenti avvenuti in danno di B.B. in data 15 febbraio 2013 e 19 aprile 2013 e nelle circostanze che hanno portato al suo arresto, e al sequestro presso la sua abitazione di 46 grammi di cocaina, insieme alla coimputata R.R. di cui si dà conto alle pagg. 116 ss. del provvedimento impugnato.

Come ricorda la Corte territoriale i controlli GPS e di polizia e le captazioni ambientali hanno mostrato, a riscontro delle intercettazioni telefoniche, una costante interazione di B.B. con il fratello J.J. nella gestione dell'attività di spaccio e i suoi contatti con L.L. ed i suoi movimenti sul territorio danno conto di un suo pieno e consapevole coinvolgimento nell'attività dell'organizzazione criminosa, pienamente coerente con i principi giuridici sopra ricordati.

13.3. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso di A.A., con cui si censura il provvedimento impugnato laddove non ha ritenuto l'associazione ex art. 74 T.U. stup. di cui al capo F2) riconducibile all'ipotesi meno grave contemplata dalla norma al sesto comma.

Ed invero, costituisce ius receptum che la fattispecie associativa prevista dall'art. 74, comma 6, T.U. stup., è configurabile a condizione che i sodali abbiano programmato esclusivamente la commissione di fatti di lieve entità, predisponendo modalità strutturali e operative incompatibili con fatti di maggiore gravità e che, in concreto, l'attività associativa si sia manifestata con condotte tutte rientranti nella previsione dell'art. 73, comma 5, T.U. stup. (Sez. 6, n. 1642 del 09/10/2019, dep. 2020, Degli Angioli, Rv. 278098-01).

Si è anche precisato che, ai fini della configurabilità del reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti di lieve entità, non è sufficiente considerare la natura dei singoli episodi di cessione accertati in concreto, ma occorre valutare il momento genetico dell'associazione, nel senso che essa deve essere stata costituita per commettere cessioni di stupefacente di lieve entità, e le potenzialità dell'organizzazione, con riferimento ai quantitativi di sostanze che il gruppo è in grado di procurarsi (Sez. 3, n. 44837 del 06/02/2018, Caprioli, Rv. 274696-01).

Ebbene, nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza di legittimità enucleando puntualmente una pluralità di elementi ritenuti ostativi all'inquadramento della fattispecie nei termini richiesti ovvero: 1) il dato ponderale rilevante in vari episodi accertati di detenzione a fini di spaccio; 2) la reiterazione delle condotte di spaccio; 3) l'esistenza di una cassa comune; 4) l'utilizzo di peculiari modalità idonee ad evitare possibili controlli; 5) la disponibilità di canali di sicuro approvvigionamento; 6) la gestione di una piazza di spaccio implicante il controllo del territorio. Sulla base di tali elementi ha, pertanto, concluso che si deve escludere che l'associazione in esame, sul piano programmatico e progettuale, fosse stata concepita solo per la commissione di fatti di lieve entità.

In particolare, alle pagg. 122 ss. il provvedimento impugnato si sofferma analiticamente sull'articolazione della consorteria e sulle notevoli quantità di sostanze stupefacenti movimentate.

Per contro, le censure proposte in ricorso sul punto omettono un reale confronto critico con la complessiva motivazione del provvedimento impugnato.

13.4. Manifestamente infondato è anche il quarto motivo di ricorso proposto nell'interesse di A.A. ed afferente alla responsabilità per il reato sub H3) riguardante la detenzione, in concorso con altri individui, di 31,5 grammi lordi di cocaina che sarebbero stati occultati in Via (Omissis).

Il ricorrente, riproponendo pedissequamente il quinto motivo di appello, continua a contestare la valenza probatoria dei video, ma di fatto non si confronta criticamente con la motivazione della Corte territoriale che, alle pagg. 165-166, ha posto l'accento sul fatto che è rimasto provato che il sodalizio criminoso avesse deciso di nascondere, ai bordi di un tratto di strada non eccessivamente frequentato e controllato dai sodali, involucri contenenti cocaina, in modo tale da evitare che la droga fosse rinvenuta nella materiale disponibilità di qualcuno degli associati e si potesse così risalire all'organizzazione, e provocare gli arresti degli aderenti, tecnica suggerita - come emerso dalle intercettazioni - da D.D. a I.I. il 18 settembre 2012. La Corte d'Appello argomenta poi che, sulla base delle testimonianze rese in dibattimento dai militari che eseguirono le indagini, delle immagini della telecamera che lo riprende mentre esegue un sopralluogo a bordo di un motociclo, seguito alcuni minuti dopo da nuove ricerche da parte di M.M., evidentemente sollecitato in proposito dallo stesso A.A., è possibile affermare che A.A. fosse il referente dello spaccio.

13.5. Manifestamente infondato è anche il quinto motivo proposto nell'interesse di A.A., meramente ripropositivo del quinto motivo di appello e riguardante la responsabilità per il reato ex art. 73 T.U. stup. di cui al capo Al), a fronte di una motivazione della sentenza impugnata che anche sul punto si palesa immune dalle proposte - e peraltro generiche - censure di legittimità. Ed invero, alle pagg. 166 e 167, il giudice del gravame del merito dà conto delle chiare conversazioni intercorse tra C.C., E.E. e A.A. È la donna - come si legge in sentenza - a chiedere insistentemente a C.C. di recarsi da lei per recuperare lo stupefacente dal nascondiglio in cui C.C. lo ha riposto, a lei sconosciuto, rappresentando a più riprese l'urgenza perché vi erano otto tossicodipendenti in attesa. Il provvedimento impugnato sottolinea sul punto che, di fronte alle resistenze di C.C., secondo cui il nascondiglio era facilmente individuabile, senza che fosse necessaria la sua presenza, la E.E. fece presente che la situazione stava innervosendo A.A., il che indusse C.C. a fornire indicazioni più chiare a A.A. stesso.

I giudici di merito hanno concordemente ritenuto che ciò convalidasse la tesi accusatoria che voleva A.A. posto in posizione sovraordinata rispetto a C.C. e E.E. nella gestione dello stupefacente.

13.6. Manifestamente infondato è anche il sesto motivo proposto nell'interesse di A.A., in punto di responsabilità per i reati di cui ai capi A6) e A14), ripropositivo del nono motivo di appello, che è stato già confutato dalla Corte territoriale, a pag. 167, con una motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto con cui il ricorrente non si confronta.

La Corte territoriale ricorda che, anche con riferimento al capo A6), le immagini del sistema di videosorveglianza immortalano movimenti di C.C. e A.A. comprovanti un episodio di cessione di sostanza stupefacente. Si tratta - come si legge in sentenza - di movimenti e di incontri (che si svolgevano sempre in prossimità della birreria "(Omissis)" dove A.A. e C.C. erano soliti operare e dove era anche nota ai tossicodipendenti la disponibilità di stupefacente) che costantemente si ripetevano, con le stesse modalità, ovvero lo scambio in un luogo appartato.

Quanto al capo A14), i giudici del gravame del merito rilevano, con motivazione priva di vizi logici, che la vicenda prende le mosse da una chiara richiesta di stupefacente avanzata da P.P. a C.C. per il tramite di F.F., che chiama C.C. e gli chiede di recarsi da loro.

13.7. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso proposto da C.C., con cui si lamenta l'erronea applicazione della legge penale nonché l'illogicità manifesta della motivazione del provvedimento impugnato con riferimento alle intervenute condanne per i reati di cui ai capi Al), A2), A3), A4), A6), A9), A12), A13) e A15), censura in tutto ripropositiva del secondo motivo di appello, che già, peraltro, era del tutto generico.

Anche l'odierna impugnazione si caratterizza per la sua aspecificità e per l'essersi sottratta al confronto critico con il provvedimento impugnato, a fronte di questioni che la Corte territoriale ha già motivatamente confutato alle pagg. 195197 della sentenza impugnata, ove si dà conto, capo per capo, delle copiose intercettazioni e delle immagini riprese dai sistemi di videosorveglianza.

Quanto alle doglianze che investono l'interpretazione che i giudici del merito hanno dato al linguaggio criptico utilizzato nelle intercettazioni, le stesse si caratterizzano per la loro assoluta genericità, senza l'indicazione specifica di alcun travisamento, contestando l'intero compendio intercettivo e non singole conversazioni. Per contro, la Corte territoriale si muove nel solco della pronuncia di Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715-01, che hanno affrontato il tema dell'interpretazione dei risultati delle captazioni, strettamente legato a quello del valore probatorio delle stesse, ed hanno chiarito che l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, rappresenta una questione di fatto rimessa all'apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità se la valutazione risulta logica in base alle massime di esperienza utilizzate (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 28233701; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389-01). È stato anche sottolineato che il giudice di merito, in tali casi, è libero di ritenere che l'espressione adoperata assuma un significato criptico, specie allorché non abbia alcun senso logico nel contesto espressivo in cui è utilizzata ovvero quando emerge, dalla valutazione di tutto il complesso probatorio, che un determinato termine viene utilizzato per indicare altro, anche tenuto conto del contesto ambientale in cui la conversazione avviene (Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, Folino, Rv. 267650-01).

13.8. Manifestamente infondati sono i motivi inerenti al trattamento sanzio-natorio (ottavo motivo nell'interesse di A.A. e terzo motivo di B.B.).

Quanto al ricorso di A.A., non ne appare vera la premessa, secondo la quale non vi sarebbe motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Ed invero, a pag. 169, la Corte territoriale dà atto di avere valutato non solo l'insussistenza di elementi positivi tali da indurre alla concessione del beneficio, ma, al contrario, di ritenervi ostativi la gravità dei fatti e la personalità dell'imputato, gravato da precedenti penali in materia di falso e di reati predatori.

Per B.B., parimenti, a pag. 143, i giudici di appello danno conto di avere ritenuto ostative al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non solo l'assenza di elementi positivi di valutazione, ma anche la gravità dei fatti, in relazione al suo inserimento in un contesto associativo dedito ai traffici di sostanze stupefacenti.

Sul punto il provvedimento impugnato appare, pertanto, collocarsi nell'alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità, che ha più volte chiarito che, ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri (ex multis Sez. 3, n. 2233 del 17/06/2021, dep. 2022, Bianchi, Rv. 282693-01; Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013, Banic e altro, Rv. 256172-01).

Quanto alla dosimetria della pena la Corte capitolina offre una motivazione esente da vizi laddove dà conto di avere valutato congrua l'individuazione di una pena base superiore al minimo edittale, ma comunque "in una fascia bassa non superiore al primo settimo della forbice edittale" in ragione della gravità dei fatti contestati e della personalità del A.A., facendo corretta applicazione dei precedenti giurisprudenziali (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288-01; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243-01; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283-01).

Con motivazione priva di vizi logici e giuridici in sentenza si dà altresì conto che anche gli aumenti, peraltro contenuti, per l'aggravante contestata e per la continuazione tra il reato associativo e i reati satellite sono stati operati avendo come riferimento i parametri di cui all'art. 133 cod. pen.

14. Al rigetto dei ricorsi consegue ex lege la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione alla costituita parte civile "Roma Capitale" delle spese di assistenza e di rappresentanza in questo giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo.

14.1. Si ritiene, invece, che non vadano liquidate le spese in favore della parte civile "Codici Centro Diritti del Cittadino", il cui difensore ha fatto pervenire conclusioni scritte e note spese in data 28 novembre 2023, senza poi comparire alla odierna pubblica udienza.

Ciò conformemente al dictum - che le Sezioni Unite intendono ribadire - secondo cui nel giudizio di cassazione con trattazione orale non va disposta la condanna dell'imputato al rimborso delle spese processuali in favore della parte civile che non sia intervenuta nella discussione in pubblica udienza, ma si sia limitata a formulare la richiesta di condanna mediante il deposito di una memoria in cancelleria con l'allegazione di nota spese (Sez. 6, n. 28615 del 28/04/2022, Landi, Rv. 283608-02; Sez. 5, n. 19177 del 31/01/2022, dep. 2022, Musso, Rv. 28311801; Sez. 2, n. 36512 del 16/07/2019, Serio, Rv. 277011-01; Sez. 6, n. 9430 del 20/02/2019, S., Rv. 275882-02).

Il principio è stato recentemente affermato anche per il giudizio di appello laddove si è precisato che, in tema di condanna al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, nel caso in cui il giudizio in grado di appello si sia svolto con contraddittorio reale e non cartolare, è necessario che la parte richiedente abbia partecipato effettivamente all'udienza di discussione ovvero abbia esercitato in concreto le facoltà difensive previste dal codice, non essendo sufficiente per far maturare il diritto alla liquidazione la mera presentazione di conclusioni scritte fuori udienza (Sez. 2, n. 22937 del 13/04/2023, Cirignotta, Rv. 284725-01).

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Roma Capitale che liquida in complessivi Euro quattromila, oltre che accessori di legge.
Conclusione
Così deciso in Roma il 14 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria l'11 luglio 2024.