l proprietario o anche solo detentore di un’animale risponde di lesioni colpose cagionate dall’animale a terzi anche qualora ne abbia affidato la custodia a una persona inidonea a controllarlo.
La posizione di garanzia assunta dal detentore di un cane impone l’obbligo di controllare e di custodire l’animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi anche all’interno dell’abitazione,
E' irrilevante il dato formale relativo alla registrazione dell’animale all’anagrafe canina o all’apposizione di un microchip di identificazione.
In caso di custodia di animali, al fine di escludere l’elemento della colpa, rappresentato dalla mancata adozione delle debite cautele nella custodia dell’animale pericoloso, non basta peraltro che questo si trovi in un luogo privato o recintato, ma è necessario che in tale luogo non possano introdursi persone estranee; un cartello "ATTENTI AL CANE" ben in vista al cancello d’ingresso della villetta non basta, da solo, ad escludere la responsabilità del padrone per il comportamento violento del cane che aveva aggredito e cagionato lesioni ad un postino, in quanto egli dovesse comunque provvedere ad un’adeguata custodia, così da evitare la possibilità di danni alle persone.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 17 ottobre – 10 novembre 2017, n. 51448
Presidente/Relatore Pezzella
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Latina, ex sezione distaccata di Terracina, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente, P.C. , con sentenza del 31/3/2014, confermava la sentenza del Giudice di Pace di Fondi, emessa in data 7/3/2011, con condanna al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile costituita.
Il giudice di primo grado aveva dichiarato P.C. responsabile del delitto previsto e punito dall’art. 590 cod. pen. perché, omettendo di controllare il proprio cane pastore tedesco, faceva sì che questo aggredisse mordendogli la gamba, F.V. , che riportava lesioni personali consistite in "triplice ferita lc gamba sn". In (omissis) .
L’imputato veniva condannato alla pena di 250,00 Euro di multa, oltre al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile da liquidarsi in sede civile ed al pagamento delle spese processuali.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei propri difensori di fiducia, il P. , deducendo, i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
a. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale ed in particolare degli artt. 157 e ss. cod. pen., per intervenuta prescrizione e conseguente estinzione del reato prima della sentenza impugnata.
Il ricorrente eccepisce la mancata pronuncia di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, alla data del 29/12/2013, prima della pronuncia del giudice di appello avvenuta in data 31/3/2014.
b. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale ed in particolare dell’art. 590 cod. pen., nonché illogicità e mancanza della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato.
Il ricorrente deduce l’insussistenza degli elementi costitutivi del reato di lesioni personali per difetto dell’elemento oggettivo del reato e del nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del soggetto agente e l’evento lesivo accaduto al Fo. . L’imputato, infatti, non sarebbe stato né proprietario del cane né detentore dello stesso, trattandosi di un cucciolo randagio di pastore tedesco.
Il difensore ricorrente evidenzia che i testi dell’accusa hanno riferito in dibattimento che si trattava di un cane visto a passeggio solo in un’occasione con i figli dell’imputato, qualche giorno prima del fatto, mentre se fosse stato il P. il vero proprietario quantomeno ne avrebbero notato un rapporto stabile con l’animale, che invece non hanno mai visto in sua compagnia o al suo guinzaglio.
Se ne desumerebbe che il P. non avesse alcun obbligo di custodia dello stesso, tenuto anche conto che sia la persona offesa, che il fratello e la madre, hanno ricordato che l’imputato era contrario al fatto che i figli si intrattenessero con il cane in questione, per cui non vi sarebbe stata alcuna tolleranza da parte dell’imputato in merito al fatto che l’animale si aggirasse dinanzi la propria abitazione. Né alcuna prova di segno contrario potrebbe essere dedotta dalla foto depositata nel fascicolo d’ufficio dal difensore della persona offesa, in cui si vede il cane legato ad una catena, in un area demaniale situata nei pressi della proprietà del P. . Si fa presente in ricorso, infatti, che, a seguito dell’infortunio, era stato lo stesso F.V. , persona offesa, a chiedere ai vicini di aiutarlo ad incatenare il cane al fine poter effettuare degli accertamenti sanitari sull’animale. Di conseguenza, trattandosi di cane randagio, veniva informata la ASL competente, che effettuava accertamenti sanitari sull’animale, il quale, peraltro, non risultava affetto da patologie contagiose né dannose per la pubblica incolumità.
Il difensore ricorrente lamenta, inoltre, che, nella fattispecie in esame, difetterebbe totalmente l’elemento soggettivo del reato, ossia la colpa, in quanto non sarebbero addebitabili all’imputato né l’omessa custodia e nemmeno l’omessa cautela nel vigilare sul cane, trattandosi di cane randagio, visto in qualche sporadica occasione giocare con i suoi figli in un area pubblica.
Viene ricordato in ricorso che il teste Pedone abbia riferito come l’animale si aggirasse spesso nei pressi di un campo di calcetto derivandone che la responsabilità della mancata custodia e vigilanza del cucciolo andrebbe addebitata al Comune ed alla ASL competente, unici soggetti titolari del relativo obbligo di custodia.
Dunque, nel caso di specie, ad avviso del ricorrente, mancherebbero tutti gli elementi costitutivi del reato contestato. Viene richiamato sul punto il dictum di una risalente sentenza di questa Corte di legittimità 14 novembre 1961, Laggada (CPMA 62, 210) secondo cui deve ritenersi vagante un cane trovato libero sulla pubblica strada anche se ad un metro dall’abitazione del proprietario. E, a corroborare ancora di più la tesi per cui il P. doveva andare esente da penale responsabilità, vengono richiamati due ulteriori (e risalenti) sentenze di questa Corte (13 aprile 1951, Cammarota, GP 51, II, 1061, nt. Grieco; 27 marzo 1952, Godani, G3 52, I, 606, 1600) secondo cui il possesso dell’animale non va confuso con la semplice detenzione momentanea e, pertanto, deve ritenersi possessore dell’animale il proprietario, anche se momentaneamente non ne sia il detentore, sicché a lui spetta l’adozione delle cautele del caso. Di conseguenza, prosegue il ricorso, dovendosi escludere la responsabilità penale del P. , verrebbe a mancare altresì il presupposto per una condanna dello stesso al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, in quanto solo il proprietario di un cane risponde in relazione agli obblighi che derivano dall’essere lui solo la persona che dispone dell’animale e che può controllare le sue reazioni.
Viene anche ricordata la pronuncia Sez. 5 n. 34589/2008 secondo cui, anche nel caso in cui l’animale venga condotto da terzi a rispondere per eventuali danni provocati dall’animale è sempre il proprietario, in quanto l’obbligo di controllo del cane incombe di diritto sempre su quest’ultimo, al quale spetta anche l’obbligo di impedire che persona inidonea a contenere e controllare le reazioni dell’animale lo porti a spasso, ovvero di verificare che l’uscita avvenga con l’adozione delle prescritte cautele. E anche la pronuncia 1485/1958 secondo cui, inoltre, la possibilità di, sfruttamento dell’animale e la correlativa responsabilità manca, evidentemente, allorché l’animale segua una persona amica del proprio padrone e, in tale occasione, arrechi danni a terzi.
Alla luce di quanto sopra, la mancata custodia sarebbe eventualmente da addebitarsi al Comune o alla ASL, trattandosi di un cane che girovagava nei pressi di un campo di calcio. Pertanto, conclude il ricorrente, la motivazione dell’impugnata sentenza, sul punto, sarebbe illogica e carente.
c. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale, in particolare per mancata derubricazione del reato nella fattispecie di cui all’art. 672 cod. pen..
Il ricorrente, in via subordinata, eccepisce la mancata derubricazione del reato di cui all’art. 590 del codice penale nella fattispecie di cui all’art. 672 del codice penale e la conseguente applicazione di una sanzione meno afflittiva, trattandosi di reato depenalizzato oggi punito con una sanzione amministrativa.
Chiede, pertanto, la cassazione della sentenza impugnata.
Considerato in diritto
1. I motivi sopra illustrati sono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. In primis, va rilevato che, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente -e da qui la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso- alla data in cui veniva emanata la sentenza oggi impugnata (31/3/2014) non era ancora decorso il termine massimo di prescrizione.
Ciò in quanto occorreva tenere conto delle sospensioni della prescrizione determinate dai rinvii delle udienze su istanza del difensore e non determinate da esigenze di acquisizione della prova, a cominciare da quello dell’udienza del 9/2/2009, in primo grado, in cui i difensori delle parti - come si evince dal relativo verbale cui questa Corte di legittimità ha ritenuto di accedere in ragione della natura della doglianza proposta - dichiaravano essere in corso trattative di bonario componimento e chiedevano congiuntamente un rinvio per cui, nulla osservando il PM, il giudice disponeva in conformità.
Va ricordato, sul punto, che questa Corte di legittimità ha chiarito in più occasioni - e va qui ribadito - che la sospensione della prescrizione opera in tali casi ex lege e non occorre alcun provvedimento dichiarativo del giudice.
Già all’inizio degli anni Duemila le Sezioni Unite ebbero a precisare che, in tema di prescrizione del reato, la sospensione del procedimento e il rinvio o la sospensione del dibattimento comportano l’automatica sospensione dei relativi termini ogni qualvolta siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta e sempre che l’una o l’altro non siano determinati da esigenze di acquisizione della prova o dal riconoscimento di un termine a difesa (così Sez. Un. n. 1021 del 28/11/2001 dep. il 2002, Cremonese, Rv. 220509, che, in applicazione di tale principio, ritennero che plurimi rinvii del dibattimento disposti in un procedimento per lesioni colpose, a seguito dell’adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria, comportassero la sospensione del corso della prescrizione per tutto il periodo complessivo della durata dei rinvii predetti). E due anni più tardi ribadirono che il corso della prescrizione del reato è sospeso nei periodi durante i quali il dibattimento è rinviato per impedimento o su richiesta dell’imputato o del difensore (Sez. Un., n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226075).
Nel 2015, poi Sez. Un. n. 4909 del 18/12/2014 dep. il 2015, Torchio, Rv. 262913 hanno precisato ulteriormente che il rinvio dell’udienza per impedimento legittimo del difensore per contemporaneo impegno professionale determina la sospensione del corso della prescrizione fino ad un termine massimo di sessanta giorni a far capo dalla cessazione dell’impedimento stesso, dovendosi applicare in tal caso la disposizione di cui all’art. 159, comma primo, n. 3, cod. pen., nel testo introdotto dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251. Viceversa, qualora il giudice, su richiesta del difensore, accordi un rinvio della udienza, pur in mancanza delle condizioni che integrano un legittimo impedimento per concorrente impegno professionale del difensore, il corso della prescrizione è sospeso per tutta la durata del differimento, discrezionalmente determinato dal giudice avuto riguardo alle esigenze organizzative dell’ufficio giudiziario, ai diritti e alle facoltà delle parti coinvolte nel processo e ai principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della giurisdizione.
Ancora di recente, poi, si è condivisibilmente ribadito che il provvedimento di rinvio del processo disposto dal giudice su istanza e per esigenze della parte richiedente, dà sempre luogo alla sospensione dei termini di prescrizione per l’intera durata del rinvio, a prescindere dalle ragioni poste a fondamento della richiesta, salvo che esse consistano in un legittimo impedimento della parte o del suo difensore, poiché, in tal caso, la sospensione ha una durata massima di sessanta giorni (Sez. 7, Ord. n. 8124 del 25/1/2016, Nascio ed altro, Rv. 266469 in una fattispecie relativa a richiesta di rinvio per concessione di termini a difesa per discussione).
4. Nel valutare situazioni speculari rispetto a quella che ci occupa, questa Corte di legittimità ha anche precisato - e va qui ribadito - che il rinvio del processo disposto sull’accordo delle parti comporta la sospensione del termine di prescrizione, ai sensi dell’art. 159, comma primo n. 3), cod. proc. pen., anche nel caso in cui l’accoglimento della richiesta di rinvio non sia imposto da una particolare disposizione di legge (così Sez. 5, n. 25444 del 23/5/2014, Zandomenighi e altri, Rv. 260414 nel giudicare proprio il caso di un rinvio del processo disposto in adesione alla richiesta formulata dai difensori in ragione della prospettata esigenza di attendere l’esito delle trattative intraprese dall’imputato con la curatela fallimentare al fine di giungere ad un accordo transattivo con questa). E il principio che il rinvio del processo disposto sull’accordo delle parti comporta la sospensione del termine di prescrizione per l’intera durata del rinvio, ai sensi dell’art. 159, comma primo n. 3), cod. proc. pen.. è stato ulteriormente ribadito qualche mese or sono (Sez. 5, n. 26449 del 13/4/2017, Flammia ed altro, Rv. 270539 in relazione ad un di rinvio anche in quel caso disposto in adesione alla richiesta dei difensori motivata dall’esigenza di giungere ad un accordo transattivo con la parte civile).
Diverso sarebbe stato, invece, se la richiesta di rinvio fosse stata avanzata dalla sola parte civile. In tal caso, infatti, il Collegio condivide quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ritiene che il rinvio del dibattimento richiesto dalla sola parte civile non costituisce causa di sospensione del corso della prescrizione qualora la difesa dell’imputato non vi abbia espressamente acconsentito, limitandosi soltanto a "nulla opporre" alla richiesta stessa (così Sez. 2, n. 11100 del 14/02/2017, Monni, Rv. 269687 in un caso in cui il rinvio era stato chiesto dalla parte civile per assumere l’esame delle persone offese non presenti; conf. Sez. 4, n. 7071 del 31/1/2014, Mariotti, Rv. 259326 in un caso in cui la difesa dell’imputato, sulla richiesta di rinvio avanzata dalla parte civile, non aveva espressamente prestato il consenso ma si era limitata a "rimettersi" al giudice). Va tuttavia segnalato che è stato affermato anche che il rinvio del dibattimento per legittimo impedimento riguardante la parte civile dà luogo a sospensione dei termini di prescrizione del reato, quando la difesa dell’imputato abbia aderito, anche solo tacitamente o implicitamente, alla relativa richiesta, non opponendosi all’istanza di rinvio (così Sez. 6, n. 17683 del 7/4/2016, V., Rv. 267188).
5. Appare, dunque, fuori discussione, ad avviso del Collegio, la rilevanza del rinvio "sull’accordo delle parti" ai fini della sospensione della prescrizione, ricorrendo l’ipotesi espressamente disciplinata dall’art. 159, comma 1, n. 3), cod. pen. che per l’appunto considera il rinvio del procedimento generato dalla richiesta dell’imputato o del suo difensore come fattispecie autonoma rispetto a quella del rinvio determinato dal legittimo impedimento dei medesimi (in tal senso ex multis le ricordate sentenze delle Sezioni Unite Cremonese del 2002 e Petrella del 2003). Il chiaro senso del dettato normativo, il quale prescinde dal fatto che l’accoglimento della richiesta di parte sia imposto da una particolare disposizione di legge (condizione che caratterizza, invece, la previsione della prima parte dell’art. 159, comma 1, cod. pen.), non consente dunque di ritenere che la sospensione del termine di prescrizione disposta dal giudice su accordo delle parti, ma fuori dai casi previsti dalla legge, possa essere priva di effetti.
Va dato atto anche in questo caso, per completezza espositiva, dell’esistenza di un precedente di segno contrario (Sez. 2, n. 28081 del 12/6/2015, Corvo, Rv. 264288), rimasto tuttavia isolato, che esclude dal novero delle cause di sospensione l’ipotesi del rinvio su richiesta congiunta delle difese, poiché l’art. 159, comma 1, n. 3 cod. pen., limita la sospensione alla sola richiesta che provenga dall’imputato o dal suo difensore.
Il Collegio ha ritenuto, invece, come detto, di aderire all’orientamento prevalente, poiché la richiesta congiunta o quella alla quale aderisca l’imputato o il suo difensore devono ritenersi del tutto equivalenti alla richiesta formulata dal solo imputato o dal suo difensore.
Già quei tre mesi e 16 giorni di sospensione della prescrizione a seguito del rinvio della prima udienza del 9/2/2009 spostavano, perciò, il termine massimo della stessa ad una data successiva a quella della sentenza oggi impugnata. Seguivano peraltro due ulteriori rinvii, il 14/12/2009 e il 18/10/2010, su richiesta della difesa.
Né può porsi in questa sede la questione di un’eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffo-ni, Rv. 256463).
6. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Il motivo in questione, in punto di responsabilità, si palesa, infatti, assolutamente privo di specificità in tutte le sue articolazioni e del tutto assertivo, in quanto il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione del giudice di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità.
Ricorda correttamente il giudice del gravame del merito, richiamando conferentemente Sez. 2 n. 15115/2012, come, per costante orientamento giurisprudenziale, si possa pervenire all’affermazione di penale responsabilità di un imputato anche sulla base di meri indizi senza che necessariamente debbano trovare riscontro in altri elementi esterni, allorché gli stessi siano gravi, ovvero attendibili e convincenti, precisi e non equivoci, tali da esprimere l’elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, in cui si identifica il tema di prova, ovvero non suscettibili di altra interpretazione altrettanto verosimile, nonché concordanti, ovvero non contrastanti tra loro ed anche con altri da-unti elementi certi.
Va ricordato, peraltro, che Sez. Un. n. 42979 del 26.6.2014, Squicciarino, Rv. 260018, hanno chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente nella sua valenza qualitativa, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito, invece, dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, confluendo in un medesimo contesto dimostrativo, sicché l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, e l’insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto (Sez. Un. n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678; Sez. Un. n. 6682 del 4/2/992, Musumeci, Rv. 191231).
Ebbene, in applicazione di tali principi, il giudice del gravame del merito ha dato articolatamente conto degli elementi di prova in ordine alla responsabilità del prevenuto, ed in particolare, preso atto dell’essere incontestato e del non essere oggetto del gravame di merito il fatto storico, nella sua materialità, ovvero l’aggressione subita la notte del 29/6/2006 da F.V. , dinanzi al cancello della propria abitazione (e quindi anche nei pressi dell’abitazione del P. , suo vicino di casa), da parte di un pastore tedesco con le conseguenti lesioni descritte nell’imputazione, ha ritenuto che molteplici indizi, ciascuno dotato di significativa gravità e precisione, convergenti in un unitario contesto dimostrativo, portassero ad affermare che la detenzione dell’animale fosse da ascrivere all’odierno imputato, che pertanto era venuto meno al dovere di custodirlo senza che arrecasse danni a terzi.
Nel provvedimento impugnato si ricorda che: 1. è stato acclarato nel giudizio di primo grado, attraverso la deposizione di F.V. e F. , M.A. , Z.G. e Pe.Ga. , che i figli del P. erano soliti portare al guinzaglio e dare da mangiare al cane che ebbe ad aggredire, per strada, F.V. ; 2. è anche emerso che il P. avesse offerto a titolo risarcitorio una somma al F. (il tribunale pontino richiama si veda in tal senso la deposizione del F. stesso e di Pe.Ed. , moglie dell’imputato, la quale testualmente ebbe a riferire "mio marito gli aveva offerto un po’ di risarcimento ma lui non aveva accettato", circostanza ritenuta logicamente essere un elemento indiziario dal quale desumere indirettamente un riconoscimento da parte del P. di qualche forma di responsabilità nell’accaduto; 3. è stata poi allegata dalla persona offesa una fotografia che ritrae il pastore tedesco (riconosciuto da tutti i testimoni come il cane con il quale giocavano i figli del P. ) legato ad una catena alle interno di un cortile nella disponibilità dell’imputato, risalente al giorno dopo i fatti.
La fotografia in questione è stata ritenuta costituire un ulteriore elemento del materiale probatorio acquisito in sede dibattimentale, idoneo a dimostrare una relazione di fatto con l’animale, tale da farne sorgere un obbligo di custodia in capo al P. . Ed invero, con motivazione assolutamente logica, il giudice del gravame del merito ha ritenuto che, anche a voler credere alla versione fornita dai testi della difesa, ovvero che l’animale era stato, di comune accordo con il F. , temporaneamente allocato nell’area ove era stato fotografato solo fino a quando non fossero stati svolti gli esami sanitari presso la USL competente, non si comprenderebbero le ragioni di una tale disponibilità e collaborazione mostrata dall’imputato con la persona offesa, se e soprattutto, il primo escludeva qualsiasi forma di responsabilità per le lesioni subite dal F. derivanti dalla omessa custodia dell’animale. E ciò, ancor più, se si tiene conto del fatto che il F. il giorno dopo i fatti aveva già manifestato la sua volontà di essere risarcito dal P. , tant’è che quest’ ultimo formulò un offerta risarcitoria poi non accettata dalla persona offesa.
Dunque, appare condivisibile la ritenuta maggiore verosimiglianza che la fotografia fosse stata scattata la mattina successiva ai fatti, quando ancora il P. nulla sapeva dell’accaduto, come riferito dal teste F.F. .
Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.
7. Come si diceva, la sentenza impugnata appare non solo logica e correttamente motivata, ma anche corretta in punto di diritto.
Ed invero, contrariamente a quanto afferma il ricorrente, che richiama una giurisprudenza di questa Corte assai risalente nel tempo, quello che occorre verificare in casi come quello che ci occupa non è la proprietà dell’animale, bensì l’esistenza di una relazione di fatto tra l’imputato ed il cane tale da far sorgere in capo allo stesso un obbligo di custodia e vigilanza sull’animale. E tale relazione può essere, come hanno correttamente ritenuto i giudici dl merito in relazione agli accadimenti di Fondi del 29/6/2006, anche "mediata" ovvero per il tramite dei figli.
La sentenza impugnata si colloca, pertanto, nell’alveo del condivisibile orientamento di questa Corte di legittimità - che va qui ribadito- secondo cui, in tema di omessa custodia di animali, l’obbligo di custodia sorge ogni qualvolta sussista una relazione anche di semplice detenzione tra l’animale e una data persona, in quanto l’art. 672 cod. pen. collega il dovere di non lasciare libero l’animale o di custodirlo con le debite cautele al suo possesso, da intendere come detenzione anche solo materiale e di fatto, non essendo necessaria un rapporto di proprietà in senso civilistico (così Sez. 4, n. 34813 del 2/7/2010, Vallone, Rv. 248090 e Sez. 4, n. 599 del 16/12/1998 dep. il 1999, La Rosa, Rv. 212404 che ebbero ad occuparsi, in entrambi i casi, di responsabilità per lesioni colpose cagionate dal morso di un cane).
Ancora di recente, questa Corte ha ribadito che tale posizione di garanzia prescinde dalla nozione di appartenenza ed è dunque irrilevante il dato formale relativo alla registrazione dell’animale all’anagrafe canina o all’apposizione di un microchip di identificazione (Sez. 4, n. 17145 del 17/1/2017, Guadagna, non mass). La sentenza in questione ricorda anche che in materia di lesioni colpose è costante l’insegnamento di questa Corte per cui la posizione di garanzia assunta dal detentore di un cane impone l’obbligo di controllare e di custodire l’animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi anche all’interno dell’abitazione (Sez. 4, n. 18884 del 16/12/2011 n.18814), laddove la pericolosità del genere animale non è limitata esclusivamente ad animali feroci ma può sussistere anche in relazione ad animali domestici o di compagnia quali il cane, di regola mansueto così da obbligare il proprietario ad adottare tutte le cautele necessarie a prevenire le prevedibili reazioni dell’animale (Sez. 4, n. 6393 del 10/1/2012). Questa Corte ha anche precisato che la posizione di garanzia assunta dal proprietario dell’animale impone a costui un obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire le possibili reazioni dell’animale e pertanto egli risponde a titolo di colpa delle lesioni cagionate a terzi dallo stesso animale, qualora ne abbia affidato la custodia a persona inidonea a controllarlo (Sez. 4, n. 34765 del 3/4/2008, Morgione ed altro, Rv. 240774).
8. Nella fattispecie oggi in esame, correttamente, non è stato ritenuto che la fattispecie potesse essere derubricata nella contravvenzione di cui all’art. 672 cod. pen. (che punisce "chiunque lascia liberi, o non custodisce con le debite cautele, animali pericolosi da lui posseduti, o ne affida la custodia a persona inesperta", "chi, in luoghi aperti, abbandona a se stessi animali da tiro, da soma o da corsa, o li lascia comunque senza custodia, anche se non siano disciolti, o li attacca o conduce in modo da esporre a pericolo l’incolumità pubblica, ovvero li affida a persona inesperta" e "chi aizza o spaventa animali, in modo da mettere in pericolo l’incolumità delle persone".
La norma in esame - illecito depenalizzato ex artt. 33 lett. a) 38 legge 689/1981 - è diretta a tutelare l’ordine pubblico, preservando nello specifico la sicurezza e la tranquillità dei consociati e prescinde da danni alla persona.
In casi come quello che ci occupa, il danno alla persona assorbe il disvalore dell’illecito amministrativo sopracitato e, per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 40 cpv e 590 cod. pen., si perviene al riconoscimento della penale responsabilità dell’imputato per le lesioni riportate dal F. e cagionate dall’animale.
In definitiva, la responsabilità del proprietario di un animale per le lesioni arrecate a terzi dall’animale medesimo, può essere affermata ove si accerti in positivo la colpa in forza dei parametri stabiliti in tema di obblighi di custodia dall’art. 672 cod. pen..
In caso di custodia di animali, al fine di escludere l’elemento della colpa, rappresentato dalla mancata adozione delle debite cautele nella custodia dell’animale pericoloso, non basta peraltro che questo si trovi in un luogo privato o recintato, ma è necessario che in tale luogo non possano introdursi persone estranee (da queste premesse, Sez. 4, n. 14829 del 14/3/2006, Panzarin ed altro, Rv. 234035 ha rigettato il ricorso del Procuratore Generale avverso la sentenza che aveva mandato assolti dal reato di lesioni personali colpose gli imputati, sul rilievo dell’assenza di colpa dei medesimi, essendosi accertato che il cane che aveva provocato le lesioni all’infortunata era custodito in un giardino privato, recintato e chiuso da un cancello con serratura a molla, mentre l’infortunata vi si era introdotta, pur sapendo del cane, la cui presenza era del resto segnalata da apposito cartello).
Di recente, invece, in applicazione del medesimo principio ma pervenendo a conclusioni opposte, questa Corte di legittimità ha condivisibilmente ritenuto che un cartello "ATTENTI AL CANE" ben in vista al cancello d’ingresso della villetta non bastasse, ex se, per escludere la responsabilità del padrone per il comportamento violento del cane che aveva aggredito e cagionato lesioni ad un postino, in quanto egli dovesse comunque provvedere ad un’adeguata custodia, così da evitare la possibilità di danni alle persone (così Sez. 4, n. 17133 del 13/1/2017, Cardella, non mass.).
Va peraltro rilevato che il motivo di ricorso con cui ci si duole che i giudici di merito non abbiano riconosciuto la fattispecie di cui all’art. 672 cod. pen. ma il reato di cui agli artt. 40 e 590 cod. pen. (sub c. in premessa) è assolutamente generico ed aspecifico.
9. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della cassa delle ammende.