Iniziative difensive, anche se ciascuna in astratto di per sè espressione di una facoltà legittima possono realizzare un abuso del processo, quando sono in concreto prive di fondamento e di scopo conforme alle ragioni per cui dette facoltà sono riconosciute.
Si intende parlare specificamente di abuso degli strumenti difensivi del processo penale quando sono poste in essere per ottenere non garanzie processuali effettive o realmente più ampie, ovvero migliori possibilità di difesa, ma una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali.
Quanto all'art. 108 c.p.p., la disposizione prevede la concessione di un congruo termine a difesa, con riferimento alle situazioni di difensore nominato d'ufficio o di fiducia in sostituzione del precedente nei casi di "rinunzia, revoca o incompatibilità". La prescrizione non è espressamente accompagnata da una specifica sanzione di nullità in caso di sua violazione; ciò non di meno l'eventuale violazione determina, secondo orientamenti consolidati, una nullità a regime intermedio in forza della norma generale posta dall'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto incide sull'assistenza dell'imputato. Sicchè non può dare luogo a nullità alcuna il diniego di termini a difesa o la concessione di termini a difesa ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108, comma 1, cod. proc. pen., quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all'esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica.
L'uso arbitrario di un diritto trasmoda in patologia processuale, dunque in abuso, quando l'arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo e il solo scopo è la difesa dal processo, non nel processo: in contrasto e a pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento e di ciascuna delle parti a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Sentenza 28 giugno - 2 ottobre 2018, n. 43593
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VESSICHELLI Maria - Presidente -
Dott. SABEONE Gerardo - rel. Consigliere -
Dott. ZAZA Carlo - Consigliere -
Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere -
Dott. CALASELICE Barbara - Consigliere -
sul ricorso proposto da:
P.G.B., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 19/05/2017 della CORTE APPELLO di CATANIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GERARDO SABEONE;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. SALZANO Francesco, che ha concluso chiedendo;
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto.
udito il difensore.
1. La Corte di Appello di Catania, con sentenza del 19 maggio 2017 ha confermato la sentenza del Tribunale di Catania dell'8 gennaio 2016 con la quale P.G.B. era stato condannato per il delitto di diffamazione in danno di C.R.
I fatti, secondo il capo d'imputazione, erano consistiti nella diffusione a mezzo di diversi siti internet di uno scritto nel quale si affermava contrariamente al vero che la C. durante alcune assemblee condominiali avrebbe immotivatamente aggredito la propria moglie.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, lamentando:
a) una violazione della legge processuale e una motivazione illogica in merito alla mancata concessione, nel giudizio di primo grado, dei termini a difesa, ai sensi dell'art. 108 c.p.p., una volta ottenuta la nomina fiduciaria dall'imputato;
b) una violazione di legge e una motivazione illogica in merito alla ordinanza emessa all'udienza del 17 luglio 2015 in primo grado con la quale si era disposto la sospensione dei termini di prescrizione a seguito di rinvio richiesto dalla difesa stessa;
c) una violazione della legge processuale e una conseguente nullità del decreto di citazione a giudizio in primo grado a cagione del mancato esperimento dell'interrogatorio dell'indagato ex art. 415 bis c.p.p.;
d) una motivazione illogica e contraddittoria circa l'affermazione della penale responsabilità.
1. Il ricorso è infondato.
2. Con riferimento al primo motivo di ricorso, l'analitica esposizione dell'andamento processuale, compiuta dal ricorrente alle pagine 3 e 4 del ricorso, nonchè quanto espresso dalla Corte Territoriale alla pagina 4 della propria decisione permettono di poter affermare come nessuna invalidità si sia verificata.
Il continuo avvicendamento di difensori, realizzato a chiusura del dibattimento, secondo uno schema reiterato non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva, non aveva altra funzione che ottenere una dilatazione dei tempi processuali.
Lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado sono stati, insomma, ostacolati da un numero non consueto di iniziative difensive, ciascuna in astratto di per sè espressione di una facoltà legittima, ma che, essendo in concreto prive di fondamento e di scopo conforme alle ragioni per cui dette facoltà sono riconosciute, hanno realizzato un abuso del processo, che rende la questione di nullità prospettata manifestamente infondata.
Si intende parlare, in relazione all'aspetto in esame, specificamente di abuso degli strumenti difensivi del processo penale per ottenere non garanzie processuali effettive o realmente più ampie, ovvero migliori possibilità di difesa, ma una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali.
Ciò non di meno, per chiarire sin d'ora quali sono i termini oggettivi che consentono di qualificare abusiva una qualsivoglia strategia processuale, civile o penale, condotta apparentemente in nome del diritto fatto valere, non può non ricordarsi che è oramai acquisita una nozione minima comune dell'abuso del processo, che riposa sull'altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell'abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell'utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo diverse ma collidenti rispetto all'interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto.
Il carattere generale del principio dipende dal fatto che, come osserva autorevole Dottrina e anche questa Corte nella sua massima espressione (v. Cass. Sez. Un. 29 settembre 2011 n. 155), ogni ordinamento che aspiri a un minimo di ordine e completezza tende a darsi misure, per così dire di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta.
Sicchè l'esigenza di individuare limiti agli abusi s'estende all'ordine processuale e trascende le connotazioni peculiari dei vari sistemi, essendo ampiamente coltivata non solo negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovranazionali. E viene univocamente risolta, a livello normativo o interpretativo, nel senso che l'uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per cui il diritto stesso è riconosciuto, non ammette tutela.
In relazione alla nozione di abuso riferita ai diritti di azione, è sufficiente richiamare, per la materia processuale civile, Sez. U. civ., n. 23726 del 15/11/2007, Rv. 599316, che rimarca come nessun procedimento giudiziale possa essere ricondotto alla nozione di processo giusto ove frutto, appunto, di abuso del processo "per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltrechè la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi".
In ambito sovranazionale l'art. 35, p. 3 (a) (già art. 35, p. 3, e prima 27) della Convenzione Europea dei diritti umani consente, nella interpretazione consolidata della Corte di Strasburgo, di ritenere abusivo e dunque irricevibile il ricorso quando la condotta ovvero l'obiettivo del ricorrente sono manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto.
Amplissima è poi la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che richiama la nozione di abuso per affermare la regola interpretativa che colui il quale si appelli al tenore letterale di disposizioni dell'ordinamento comunitario per far valere avanti alla Corte un diritto che confligga con gli scopi di questo (è contrario all'obiettivo perseguito da dette disposizioni), non merita che gli si riconosca quel diritto (v. in particolare sentenza 20 settembre 2007, causa C 16/05, Tum e Dari, punto 64; sentenza 21 febbraio 2006, causa C 255/02, Halifax e a., e ivi citate, a punto 68).
Alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili e penali, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, l'abuso del processo consiste, dunque, in un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all'esercizio di diritti potestativi, in una frode alla funzione. E quando, mediante comportamenti quali quelli descritti all'inizio del presente paragrafo si realizza uno sviamento alla funzione, l'imputato che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti.
Quanto all'art. 108 c.p.p., la disposizione prevede la concessione di un congruo termine a difesa, con riferimento alle situazioni di difensore nominato d'ufficio o di fiducia in sostituzione del precedente nei casi di "rinunzia, revoca o incompatibilità". La prescrizione non è espressamente accompagnata da una specifica sanzione di nullità in caso di sua violazione; ciò non di meno l'eventuale violazione determina, secondo orientamenti consolidati, una nullità a regime intermedio in forza della norma generale posta dall'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto incide sull'assistenza dell'imputato. Sicchè non può dare luogo a nullità alcuna il diniego di termini a difesa o la concessione di termini a difesa ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108, comma 1, cod. proc. pen., quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all'esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica.
La disposizione d'altronde, come rimarca Corte cost., ord. n. 16 del 2006, è esclusivamente dedicata a disciplinare l'istituto del termine a difesa il quale presuppone, ma non regola, la revoca o la rinuncia del difensore precedentemente nominato, di modo che, in assenza di altra norma che espressamente disciplini anche tali facoltà, essa si presta a uso arbitrario.
L'uso arbitrario trasmoda poi in patologia processuale, dunque in abuso, quando l'arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo e il solo scopo è la difesa dal processo, non nel processo: in contrasto e a pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento e di ciascuna delle parti a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli. In questo caso non soltanto la norma non legittima ex post eccezioni di nullità, ma va escluso, in radice, che il diritto in essa previsto possa essere riconosciuto. In conclusione, con riferimento al caso di specie, il rigetto della richiesta finale di termini a difesa non ha prodotto alcuna nullità, non avendo determinato una reale lesione del diritto di difesa dell'imputato o di altri suoi diritti fondamentali, posto, con ulteriore elemento assorbente evidenziato dallo stesso ricorrente, che dopo il rigetto della richiesta di termini a difesa vennero effettuate altre due udienze e pertanto nessuna concreta violazione concreta del diritto alla difesa si era realizzata.
3. Palesemente infondato è il secondo motivo, in quanto è pacifico che il rinvio, richiesto dalla difesa all'udienza del 17 luglio 2015 abbia determinato la sospensione dei termini della prescrizione: i motivi per i quali la difesa si sia determinata a richiedere il suddetto rinvio non hanno effetto alcuno circa la legittimità della decisione dei Giudici del merito.
4. Quanto al terzo motivo, l'art. 415 bis c.p.p., comma 3, attribuisce all'indagato, destinatario dell'avviso di chiusura delle indagini preliminari, il diritto potestativo di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio, con efficacia vincolante per il P.M., che in tema non gode di alcuna discrezionalità. Tuttavia, nel caso di specie, l'indagato, lungi dall'esercitare tale diritto potestativo, si era limitato, tramite il proprio difensore in data 12 dicembre 2011, a richiedere copia integrale e intellegibile degli atti a sostegno dell'ipotesi accusatoria e chiedendo, altresì, una proroga, in effetti concessa, dei termini per approntare strategie difensive in quanto la non chiarezza degli atti impediva all'imputato stesso di precisare i fatti allo stesso contestati attraverso l'espletamento dell'atto d'interrogatorio "al quale chiede di sottoporsi".
In altri termini, del tutto corretta è l'interpretazione della Corte territoriale data all'istanza defensionale che, lungi dal chiedere expressis verbis l'interrogatorio dell'indagato, si limitava a valutare, all'esito dell'esame degli atti processuali, l'esercizio del diritto di essere interrogato.
L'art. 415 bis c.p.p., comma 3, attribuisce, infatti, all'indagato destinatario dell'avviso di chiusura delle indagini preliminari, il diritto potestativo di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio, con efficacia vincolante per il P.M. (a pena di nullità di ordine generale a regime intermedio), che in tema non gode di alcuna discrezionalità; detto diritto potestativo non può, tuttavia, ritenersi esercitato nei casi in cui l'indagato abbia formulato una generica manifestazione di disponibilità ad essere interrogato, il cui unico effetto è quello di devolvere al Pubblico Ministero la facoltà di valutare l'opportunità o meno di procedere all'interrogatorio (v. Cass. Sez. 2^ 18 febbraio 2014 n. 21779).
5. Quanto al merito, non vi può essere dubbio circa la natura diffamatoria dello scritto diffuso dall'imputato a mezzo di internet e contenente la non veritiera accusa che nel corso di assemblee condominiali la propria moglie, sempre rappresentata dal proprio legale, sarebbe stata ripetutamente aggredita dall'odierna parte civile.
Correttamente la Corte territoriale, con accertamento in fatto sostenuto da logica e congrua motivazione, che di conseguenza sfugge al sindacato di legittimità di questa Corte ha affermato come il complessivo tenore dello scritto (con riferimenti a poteri forti, a malagiustizia e indifferente complicità della Magistratura), la professione esercitata dalla persona offesa e la falsità delle affermazioni integrassero il contestato reato, con la piena consapevolezza dell'ingiustificato attacco alla dignità e all'onore della stessa.
Non è poi consentito, in questa sede, rileggere in maniera alternativa i fatti concordemente accertati in entrambi i gradi del merito.
6. Il ricorso va, in conclusione, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 28 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2018.