Costituisce illecito disciplinare il comportamento dell’avvocato che, sul proprio sito internet, fornisca un’informazione suggestiva e scorretta delle prestazioni offerte (descritte come più veloci, più efficienti e meno costose).
I principi in tema di pubblicità di cui alla legge 248/2006 (c.d. Decreto Bersani), pur consentendo al professionista di fornire specifiche informazioni sull’attività e i servizi professionali offerti, non legittimano tuttavia una pubblicità indiscriminata avulsa dai dettami deontologici, giacché la peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’Ordinamento affidata al potere – dovere dell’ordine professionale.
Costituisce illecito disciplinare l’informazione, diffusa anche attraverso siti internet, fondata sull’offerta di prestazioni professionali gratuite ovvero a prezzi simbolici o comunque contenuti e bassamente commerciali, in quanto volta a suggestionare il cliente sul piano emozionale, con un messaggio di natura meramente commerciale ed esclusivamente caratterizzato da evidenti sottolineature del dato economico.
Consiglio Nazionale Forense
sentenza 21 giugno 2018 – 23 aprile 2019, n. 23
Presidente Picchioni – Segretario Losurdo
Fatto
Il COA di Pescara, nel corso della seduta del 10.4.2014, riceveva una comunicazione attraverso la quale veniva a conoscenza del contenuto di una brochure dal titolo “risarcimento danni medici” e del contenuto del sito denominato “risarcimento danni medici” da cui risultava la promessa di prestazioni professionali “senza anticipi, senza spese, senza rischi e, soprattutto, in tempi brevissimi” e di definizione “entro 240 giorni invece di attendere i soliti 4-5- 6 anni!”, nonché la previsione di pagamento del compenso legato al risultato ottenuto, senza alcun corrispettivo per l’ipotesi di mancato ottenimento del risarcimento.
Dal sito risultava il collegamento con lo studio legale dell’avv. [ricorrente] e, pertanto, la comunicazione veniva rubricata come esposto a carico di quest’ultimo.
L’avv. [ricorrente], notiziato di tale esposto, faceva pervenire note difensive a mezzo mail del 9.6.14.
Il COA di Pescara, nella seduta dell’11.9.2014deliberava di aprire procedimento disciplinare per i seguenti capi di incolpazione:
1) “aver utilizzato il sito web, denominato www.[sito-web].it, omettendo di utilizzare un sito con dominio proprio o a sé direttamente riconducibile, avendo, peraltro, tralasciato di informare il Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto della comunicazione telematica prescelta ed attuata, in tal modo violando gli artt. 5, 6 e 17 bis del Codice Deontologico Forense. Fatto accertato in Pescara il 10.4.2014”
2) “aver omesso di rispettare il divieto di accaparramento della clientela, laddove, nella brochure realizzata e nel sito utilizzato, risulta la promessa di prestazioni professionali «senza anticipi, senza spese, senza rischi e, soprattutto, in tempi brevissimi» e di definizione della vertenza «entro 240 giorni invece di attendere i soliti 4-5-6 anni!», nonché allorquando si prevede il pagamento del compenso legato al risultato ottenuto, senza alcun obbligo di corrispettivo in caso di mancato ottenimento del risultato, in tal modo violando gli artt. 5, 6 e 19 Codice Deontologico Forense Fatto accertato in Pescara il 10.4.2014”.
L’avv. [ricorrente] faceva pervenire ulteriori note difensive in data 15.11.2014 e l’udienza per la discussione del procedimento si teneva, previa rituale citazione a comparire dell’incolpato, in data 4 dicembre 2014.
All’esito di tale udienza, il COA di Pescara riteneva l’avv. [ricorrente] responsabile degli illeciti contestatigli con i capi di incolpazione e, “tenuto conto di una precedente pronuncia di responsabilità e della pluralità delle condotte rilevanti poste in essere”, gli irrogava la sanzione della censura.
Il Consiglio, con riferimento al primo capo di incolpazione, riteneva violato l’art. 17 bis del previgente Codice Deontologico motivando la decisione sulla base delle seguenti considerazioni:
1) il sito internet denominato www.[ sito-web].it era attivo sul web alla data della contestazione disciplinare;
2) prima della diffusione in rete l’Avv. [ricorrente] aveva omesso di comunicare tempestivamente al COA, in violazione dell’art. 17 bis del previgente Codice Deontologico, la forma e il contenuto in cui il sito internet era stato realizzato;
3) il sito internet in esame, genericamente denominato www.[ sito-web].it, non era riconducibile, sempre in violazione del suddetto art. 17 bis, all’Avv. [ricorrente], essendo privo di un dominio riferibile direttamente a quest’ultimo.
Quanto, invece, al secondo capo di incolpazione, il COA riteneva sussistente la violazione dell’art. 19 del previgente C.D. affermando essere chiaramente offensivo della dignità e del decoro il comportamento dell’avvocato che offra la propria prestazione in via del tutto gratuita e che magnifichi la propria capacità di definire le pratiche entro 240 giorni anziché in 4/6 anni come farebbero gli altri avvocati.
L’avv. [ricorrente] ha ritualmente impugnato la decisione del COA Pescara con ricorso con il quale ha chiesto l’annullamento del provvedimento ed il suo proscioglimento perché il fatto non sussiste.
L’incolpato ha affidato l’accoglimento di tale richiesta alle seguenti motivazioni.
In relazione al capo di incolpazione sub 1), la difesa dell’Avv. [ricorrente] ha dedotto l’insussistenza dell’illecito disciplinare contestato sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo.
Il ricorrente sostiene, infatti, che, alla data della contestazione da parte del COA di Pescara:
a) il sito internet de quo si trovava ancora in uno stato embrionale: vi era solamente la home page senza ulteriori contenuti;
b) il sito non era stato ancora “indicizzato” sui motori di ricerca (google) e, dunque, occorreva digitare l’intero indirizzo per accedervi;
c) i riferimenti dello studio legale dell’incolpato erano presenti sulla home-page solo perché, erroneamente, il web-designer li aveva inseriti presupponendo che l’Avv. [ricorrente] lo volesse;
d) il ricorrente, non essendo esperto in materia di realizzazione di siti web, pensava che, finché il sito non fosse stato rintracciabile attraverso i motori di ricerca, lo stesso non sarebbe stato visibile sul web;
e) il ricorrente stava, quindi, attendendo che il sito fosse completo e indicizzato sui motori di ricerca prima di sottoporlo al vaglio del COA di appartenenza;
f) non appena, infatti, ricevuta la notifica dell’esposto da parte del COA di Pescara, il ricorrente provvide immediatamente a rimuovere dal sito i riferimenti al proprio studio e a rinunciare alla titolarità dello stesso.
Le circostanze sopra sintetizzate dimostrerebbero, secondo il ricorrente, che l’illecito disciplinare contestato non si è realizzato né sotto il profilo oggettivo, stante lo stato embrionale e non rintracciabile in cui ancora si trovava il sito web, né sotto quello soggettivo, stante l’assenza di dolo e la buona fede del professionista.
Il fatto contestato sarebbe stato, in buona sostanza, unicamente il frutto di un malinteso tra il ricorrente e il web-designer.
Con riferimento, invece, al secondo capo di incolpazione, la difesa dell’Avv. [ricorrente] ha dedotto l’insussistenza dell’illecito disciplinare contestato (violazione dell’art. 19 del previgente CDF) sotto due distinti profili.
a) Innanzitutto la decisione impugnata si porrebbe in contrasto con la disciplina normativa che ha operato la liberalizzazione delle professioni, disciplina che il ricorrente individua esplicitamente nella legge n. 248 del 2006 (che, secondo la descrizione che ne fa il ricorrente, ha abrogato l’obbligatorietà di tariffe minime e ha caducato il divieto di pubblicizzare titoli, specializzazioni professionali, caratteristiche del servizio offerto e prezzo delle prestazioni) e nel decreto legge n. 138 del 2011 che, unitamente al successivo DPR n. 137 del 2012 e alla nuova legge professionale (art. 10), ha sancito la libertà di pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l’attività professionale, le specializzazioni, i titoli professionali, la struttura dello studio e i compensi. La condotta contestata al ricorrente (promessa di prestazioni professionali senza anticipi, senza spese e senza rischi, senza alcun obbligo di corrispettivo in caso di mancato ottenimento del risultato) non sarebbe, quindi sanzionabile in quanto posta in essere in ossequio alla normativa vigente all’epoca in materia di concorrenza e pubblicità informativa.
b) Con riferimento, invece, ai contenuti di alcune informazioni presenti sul sito web (capacità di definire la pratica in 240 giorni invece di imporre al cliente l’attesa di 4, 5 o 6 anni come farebbero altri Avvocati) la difesa dell’Avv. [ricorrente] ribadisce quanto già dedotto dinanzi al COA di Pescara ovvero che si trattava solo di pubblicità informativa e non comparativa in quanto l’intenzione dell’incolpato era solo quella di rendere edotti i potenziali clienti del fatto che, in virtù delle modifiche al c.p.c., si poteva accedere a procedimenti molto più snelli rispetto a quelli classici, come l’accertamento tecnico preventivo e il ricorso ex art. 702 bis.
Diritto
La sentenza del COA di Pescara deve essere confermata alla luce delle seguenti considerazioni.
In primo luogo il Consiglio rileva che non può (più) essere affermata la responsabilità disciplinare del ricorrente per gli illeciti di cui al primo capo di incolpazione, ma ciò non per le ragioni indicate dall’avv. [ricorrente].
Al proposito si ricorda, infatti, che l’art. 17 bis C.D. previgente è stato sostituito, nel nuovo C.D., dall’art. 35 il quale, nella versione modificata nel maggio 2016, non prevede più, quali illeciti, i comportamenti oggetto del primo capo di incolpazione formulato dal COA di Pescara, ovvero la previa mancata comunicazione al COA dell’apertura di un sito internet e l’uso di siti con domini non propri o non direttamente riconducibili all’avvocato.
Ebbene, è principio ormai consolidato quello secondo cui le norme contenute nel nuovo Codice Deontologico, ivi comprese quelle che stabiliscono il regime sanzionatorio, si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore (15 dicembre 2014) se piùù̀ favorevoli per l’incolpato.
L’art. 65 della legge n. 247/2012 ha esteso, infatti, alle sanzioni disciplinari il canone penalistico del favor rei (Cass. Civ. SS.UU. 16.2.2015, n. 3023), in precedenza escluso dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. SS.UU. n. 18120/2013) e del CNF.
Ne consegue che la condotta contestata con il primo capo di incolpazione non configura più, in base alla normativa sopravvenuta di cui all’art.35 del nuovo Codice Deontologico, illecito disciplinare e, quindi, non può (più) essere sanzionata.
Deve, invece, confermarsi la responsabilità dell’avv. [ricorrente] per i fatti contestatigli con il secondo capo di incolpazione.
Al proposito, il Consiglio rileva che tanto il precedente Codice Deontologico (art. 17 e 19), quanto quello attualmente vigente (art. 17, 35 e 37), (prevedevano e) prevedono: A) da un lato che le informazioni pubblicitarie sull’attività professionale, per essere lecite e corrette, debbano essere caratterizzate da trasparenza, correttezza, non equivocità, non ingannevoli, non comparative, né suggestive od elogiative, e ciò anche per un evidente scopo di tutela di affidamento della collettività; B) dall’altro il divieto per l’avvocato di acquisire rapporti di clientela con modi non conformi a correttezza e decoro.
Ciò precisato rileva il Consiglio che il contenuto della comunicazione presente nella brochure e nel sito ed oggetto del capo di incolpazione risulta in aperto contrasto con la disciplina deontologica testè ricordata.
Sotto un primo profilo, infatti, si evidenzia che promettere la “definizione della vertenza entro 240 giorni” si pone in contrasto con i precetti di correttezza e veridicità, atteso che, come è evidente, nessuna garanzia e/o certezza può esservi circa il fatto che una qualsiasi pratica contenziosa possa sicuramente definirsi entro il termine pubblicizzato dall’avv.
[ricorrente].
Non solo, ma risulta altresì evidente la natura elogiativa e comparativa del messaggio informativo laddove la promessa di definizione entro 240 giorni è posta a confronto con i termini di 4-5-6 anni normalmente occorrenti (secondo il messaggio implicito, ma chiaro, contenuto nella brochure) agli altri avvocati.
Ed ancora risulta violato il criterio di correttezza e trasparenza dal momento che i riferimenti a detti termini di durata rimangono del tutto privi di una qualche giustificazione.
Il disvalore deontologico dell’offerta di prestazioni “senza rischi” discende anche dal fatto che l’art.40 C.D. impone all’avvocato un esaustivo obbligo di informativa (“…l’avvocato è tenuto ad informare sulle caratteristiche, l’importanza, le azioni e se richiesto sui costi prevedibili della causa e sulle caratteristiche della stessa…”), onde l’accattivante offerta di ciò che è comunque dovuto per precisa norma codicistica e professionale non può che risultare volta a condizionare le scelte di particolari clienti privi di adeguati strumenti informativi.
Ultimo, ma non per importanza, è il rilievo della sostanziale gratuità della prestazione che, come giustamente rilevato nel provvedimento impugnato, è pubblicizzato nella comunicazione in questione.
In tal senso le espressioni utilizzate (“senza anticipi, senza spese, senza rischi …. pagamento del compenso legato al risultato ottenuto, senza alcun obbligo di corrispettivo in caso di mancato ottenimento del risultato”) sono inequivoche e sicuramente contrarie agli obblighi deontologici di informazione di cui sopra.
Infatti, come costantemente precisato da questo Consiglio, “Costituisce illecito disciplinare l’informazione, diffusa anche attraverso siti internet, fondata sull’offerta di prestazioni professionali gratuite ovvero a prezzi simbolici o comunque contenuti e bassamente commerciali, in quanto volta a suggestionare il cliente sul piano emozionale, con un messaggio di natura meramente commerciale ed esclusivamente caratterizzato da evidenti sottolineature del dato economico” (così CNF n. 89/2013).
E nel caso di specie davvero sembrano non esservi dubbi sul fatto che la comunicazione dell’avv. [ricorrente] integri un messaggio pubblicitario di natura meramente commerciale e teso a suggestionare la potenziale clientela con evidenti sottolineature esclusivamente del dato economico.
In buona sostanza, e concludendo, il COA di Pescara ha correttamente ritenuto costituire illecito disciplinare non lo svolgere pubblicità professionale – sicuramente legittimo nel suo aspetto informativo e promozionale – ma le modalità ed il contenuto di un messaggio caratterizzato dalle evidenti sottolineature del dato economico e dalla marcata natura commerciale dell’informativa.
Donde anche il corretto rilievo della mancanza di conformità alla dignità ed al decoro della professionale non per il fatto della mera ricerca di clientela, si ribadisce, ma per l’indulgere ad autoreferenzialità con l’enfatizzazione dell’attività dello studio e per l’utilizzare mezzi suggestivi ed auto elogiativi volti ad attirare l’attenzione degli utenti non particolarmente avveduti. Resta, quindi, solo da precisare che ad escludere la responsabilità dell’avv. [ricorrente] per i fatti di cui al secondo capo di incolpazione non possono valere le considerazioni formulate dallo stesso in ordine alle novità introdotte dalle c.d. liberalizzazioni di cui alla l. n. 248/2006 e D.L. n. 138/2011.
“I principi in tema di pubblicità di cui alla legge 248/2006 (c.d. Decreto Bersani), pur consentendo al professionista di fornire specifiche informazioni sull’attività e i servizi professionali offerti, non legittimano tuttavia una pubblicità indiscriminata avulsa dai dettami deontologici, giacché la peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’Ordinamento affidata al potere – dovere dell’ordine professionale” (così CNF n. 8/2017).
Va, in conclusione, confermata la responsabilità disciplinare dell’avv. [ricorrente] per il secondo capo di incolpazione.
Quanto all’entità della sanzione il Consiglio rileva che la sanzione editale per la violazione dell’art.35 C.D. è costituita dalla censura.
Tale sanzione risulta congrua atteso lo spiccato, e quasi esclusivo, carattere commerciale (e non informativo) del messaggio pubblicitario in questione e la conseguente evidenza della discordanza e della distanza del suo contenuto rispetto ai dettami della normativa deontologica.
P.Q.M.
visti gli artt. 40 n. 3 e 54 RDL n.1578/1933 e 59 e segg. RD n. 37/1934; Il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso.
Dispone che, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli atri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.